LETTERATURA: I MAESTRI: Anna Banti e il tempo
7 Febbraio 2008
di Cesare Garboli
[da: “Pianura proibita”, Adelphi, 2002]
Presto si terrà a Firenze, nella sala Luca Giordano di palazzo Medici Riccardi, un convegno di studi sull’opera di Anna Banti. Non sono pochi a Firenze quelli che si ricordano di Anna Banti con sentimenÂti misti di affetto, insofferenza, antipatia, ammirazione, avversione.
Non era una donna facile e non faceva nulla per sembrarlo. Viveva come una quaÂlunque signora borghese, ma con l’alterigia, la seveÂrità , il contegno sprezzante, la solitudine di una reÂgina o di un’imperatrice. Si guardava e si studiava allo specchio, come tutte le donne, ma dentro uno specchio immaginario, fuori dai tempi presenti, fuori dal disprezzato, odiato, insopportabile oggi. Il suo carattere (la sua «corazza caratteriale», direbbe Wilhelm Reich), più ancora della sua fantasia, la traÂscinavano verso il passato, a curiosare e a rifarsi col piacere della Storia.
Era moglie di Roberto Longhi, del quale era stata allieva, a Roma, in una terza liceo del Visconti. Aveva esordito come storica dell’arte collaborando all’«Arte» di Adolfo Venturi, con ricerche e articoli che non sarebbe cattiva idea ristampare. Si firmava ancoÂra col suo vero nome, Lucia Lopresti. Io ricordo due o tre articoli di penna già molto sicura, indipendenÂte, niente scolara e niente apprendista: una visita, bellissima, a Santa Maria in Trastevere, e un Marco Boschini scrittore d’arte, che si meritò una segnalazione del Croce in un fascicolo della «Critica».
Anni Venti, gli anni dei viaggi di Longhi per i muÂsei e i mercanti d’Europa coi Contini-Bonacossi. Quando si sposò, era perfettamente convinta che fosse arrivata la felicità : sposare Longhi era toccare il cielo. Impiegò una vita a ricredersi, e non si ricreÂdette mai completamente. Intanto aveva lasciato gli studi, la carriera. Vicino a Longhi, nella stessa stanÂza, non era facile proseguire. Cambiò allora, per coÂsì dire, vocazione. Fu lo stesso Longhi a suggerirle il romanzo: le piaceva scrivere storie, quella era la sua strada. Si chiamò Anna Banti e scrisse qualche racÂconto che piacque a Emilio Cecchi.
La Banti è stata una personalità primaria, tormentatissima nella storia della cultura italiana di questo secolo. « Come ci si sente a vivere con un geÂnio? » disse con cattiveria Berenson a Longhi, il giorÂno in cui i due orsi si rividero dopo un trentennio di gelo. In tutta la fiction bantiana, interamente da riÂstudiare, brillano ancora oggi due grandi libri, Artemisia (1947) e La camicia bruciata (1973), e uno dei racconti più belli di tutto il Novecento, Lavinia fugÂgita (1950). Ma era anche una grande studiosa, saÂpeva come muoversi nelle biblioteche, come fare riÂcerche e leggere i documenti. La biografia della Serao è un piccolo gioiello.
Come romanziera, è stata pochissimo letta. Sotto certi aspetti, era una donna sfortunata, e forse per questo così scostante, inavvicinabile, autoritaria; di carattere imperioso, si adattava con sforzo a praticaÂre la diplomazia a cui certi impegni la costringevaÂno; e soffriva in segreto, nei momenti di solitudine, di grande vulnerabilità . Le volevo bene per questo. La vitalità , la prosperità , l’intelligenza stimolavano nella Banti la cattiveria. Aveva battute sibilanti, feroÂci, come verso quell’allievo di Longhi al quale aveva rivolto con civetteria, per gioco, con un fare da comédienne che interpreti una regina madre, qualche doÂmanda piena di curiosità verso certi fatti sentimenÂtali di cui si chiacchierava. «Potrei essere impotenÂte» rispose quello con un ghigno, un po’ dandy e un po’ mefistofele. La Banti si fece di pietra: «L’ho sempre pensato».
Al contrario, la generosità , la bontà , la carità , la pietà , virtù che non le mancavano affatto, si chiudeÂvano in lei dentro un guscio, un ripostiglio intimo di cui aveva buttato la chiave. Queste virtù le temeÂva, le giudicava deboli, virtù da femminuccia. CoabiÂtavano in lei con mai confessati abbandoni a una malinconia immedicabile, con una volontà di cinismo sempre frustrata, e con un senso ostinatamente rimosso, ma non vinto, di vanitas.
A metà degli anni Cinquanta, assecondando un certo gusto gratuito di cui si compiaceva, la Banti scrisse un breve romanzo, malvagio e perverso, che non figura tra i suoi più noti. È la storia di due soÂrelle, Agnese e Angelica, visitate da una passione diÂversamente possessiva ma egualmente sciagurata per lo stesso uomo. La maggiore, Agnese, è di quelÂle ragazze che si dicono, o si credono, bruttine; se non fosse che proprio la certezza di non essere deÂgna del dio Priapo, di non infiammare e provocare il desiderio dei maschi, la rendono dolcissima e reÂmissiva, e, per questo, perfino attraente. L’altra, più giovane, ci viene descritta come una ragazza strana e impetuosa, una ragazza sportiva, piena di futuro e di vita, di quelle che fendono l’aria distratte con geÂsti e movimenti bruschi, incoscienti, autoritari, e laÂsciano delle ammaccature e dei lividi su tutto ciò che incontrano.
Siamo in una città italiana volutamente impreciÂsata e irriconoscibile. Se è vero che la storia di queÂste due ragazze fu rubata dalla Banti a Giovanni Testori, il quale gliel’avrebbe raccontata per vera, la città potrebbe essere una città lombarda, non troppo lontana da Milano. Ma un certo colore, certi usi onomastici ci sposterebbero verso un Sud appena accennato, e magari inventato. Più imprecisato anÂcora il tempo: fugacissimi accenni a una guerra diÂsinvoltamente data per appena trascorsa, e altre spie incidentali disseminate qua e là , come le corse di Indianapolis, farebbero coprire al romanzo un trentennio di storia del Novecento, più o meno tra gli anni Trenta e la metà dei Cinquanta. Titolo, La monaca di Shangai.
A mettere in moto il racconto e a spingerlo avanti per più di due generazioni, è un’eredità . Un ingenÂte patrimonio proveniente da zii e prozii cade inaspettato sulle gracili spalle di Agnese, la sorella sognatrice; e appena ricca, Agnese viene subito attraversata da un pensiero ambiguamente generoso. Farà con tutti quei soldi la felicità di un giovane poÂvero e di gran famiglia, che divide il suo tempo con le due ragazze senza mai prendere partito né per l’una né per l’altra. La Banti è narratore troppo eleÂgante per fare di un giovane marchese spiantato un volgare cacciatore di dote; e se il giovanotto accetta la mano tesa, lo fa meno per cupidigia di denaro che per amore di una tranquilla esistenza. E’ di quei maschi che non scelgono ma si fanno prendere, e il denaro gli serve da scacciapensieri. Agnese diventa marchesa e sposa felice; e la più piccola, la sportiva e spavalda Angelica, cresciuta nella convinzione di impressionare il mondo, sfida parenti e amici con uno di quei gesti da grande protagonista che lasciaÂno tutti a bocca aperta e che tanto piacevano alla Banti. Si fa monaca missionaria, e salpa per l’Estremo Oriente.
Il nuovo e penitente nome di Angelica, che forse non ha poca parte nel farle prendere il velo, è suor Maria della Passione. Spesso nei romanzi della BanÂti il malumore di un giorno, un colpo di testa indeÂcifrabile e temerario decidono di una vita, per esseÂre poi regolarmente seguiti e pagati da infauste conÂseguenze. Non una settimana o un mese, come può succedere a noi, ma la totalità della vita può essere giocata, per la Banti, sopra uno scatto d’orgoglio. Angelica non demorde, resta fedele al capriccio; passano dieci, dodici anni; e intanto la povera AgneÂse, gravidanza dopo gravidanza, nutre e alleva il più sconsiderato e immaginario dei rimorsi, quello di avere rubato alla sorella, coi soldi e lo sposo, anche il diritto alla felicità . Invece di regalarsi a una vita tranquilla, più passano gli anni più la timida e vulÂnerabile Agnese, moglie e madre felice, si regala a un tetro vapore fantastico. La morte prematura di una bambina a cui ha dato il nome di Angelica è il segno palese, mandato dal cielo, della sua vita pecÂcaminosa; il velo stesso della sorella è un rimproveÂro che le brucia; per di più, Agnese si è rivelata molÂto meno inadatta ai sacrifici priapici di quel che lei non immaginasse; far l’amore le piace; e il piacere, quanto più vittorioso e goduto, si trasforma appena uscita dal letto in un ricordo indegno, continuaÂmente messo a confronto con l’immagine santa delÂla sorella tradita e lontana.
C’è un solo modo di espiare; confessarsi, racconÂtare la propria indegnità morale e carnale; e racÂcontarla alla vittima, a suor Maria della Passione. Così Agnese imbastisce un forsennato memoriale, metà lettera, metà confessione e metà romanzo, doÂve si autoaccusa di crimini mai commessi: lei ha ruÂbato il fidanzato alla sorella; lei se lo gode in un letÂto ripugnante; lei ha messo al mondo delle creature infette. Mai sorge in Agnese il sospetto che la realtà della sua vita, e quella della monaca, trovino altra spiegazione che non le sue colpe immaginarie. Mai le viene il sospetto che suor Maria della Passione, di là dai deserti cinesi, invece di praticare la santità e di curare gli infermi, sia una perversa creatura che si diverte a far nascere nei malati e nei medici pasÂsioni niente affatto celesti. L’immaginario, per la Banti, è più forte e più solido di qualunque realtà .
Ma non basta. Il rimorso non è pena abbastanza severa; bisogna risarcire. Bisogna far pagare i misfatÂti alla propria carne. Agnese fa testamento; e toglie quanto più può ai figli e al marito, arricchendo la sorella e lasciando istruzioni perché venga inviata a Shangai, a tempo opportuno, anche la lettera-meÂmoriale. Siamo a metà del romanzo: il trapasso di Agnese è ormai maturo. La Banti va per le spicce; non più di tre o quattro righe, e un parto più sforÂtunato degli altri, le bastano per far fuori quella maÂdre senza cervello, insieme al suo ultimo nato.
Di qui in poi, riassumo per sommi capi ciò che è facile indovinare. Non appena riceve il plico con le autoaccuse della sorella, la monaca le prende per oro colato; si convince che le cose sono andate proÂprio così; quel delirio la vendica e la riscatta, e soÂprattutto le torna comodo, dal momento che tutta la sua vita passata viene a risplendere di un grande amore offeso e tradito, e di un sacrificio reso all’aÂmore; e dunque si smonaca, ritorna in Italia, s’imÂpossessa del cognato, lo sposa, e, forte dell’eredità e dei quattrini, manda a morte sistematicamente i niÂpoti, rovinando con perfetta innocenza la loro educazione e la loro vita. Tutto questo non le darà nesÂsuna felicità , perché la tetra soddisfazione di toglierÂsi giorno per giorno, instancabilmente, il piacere di una vendetta postuma non fa che fortificare e renÂdere sempre più indistruttibile proprio il pensiero di essere stata, in gioventù, insopportabilmente traÂdita. Il memoriale di Agnese è un boomerang. NesÂsuna medicina potrà mai guarire l’ex monaca dall’odiosa ferita che la fa vivere. Per uno di quei mecÂcanismi perversi e contagiosi che possono essere messi in moto solo dalla follia, la sorella vincente è a sua volta vittima inguaribile, e prigioniera a vita, delÂla farneticazione della povera Agnese.
In tutta questa storia, che coinvolge il destino di due famiglie e un passaggio non indifferente di geÂnerazioni, manca un grande personaggio che doÂvrebbe spadroneggiare: il tempo. Questo protagoniÂsta non ha vita e non ha forma. Il tempo che passa durante tutto il racconto e fa nascere, viaggiare, inÂvecchiare, morire delle persone dai lineamenti di volta in volta irriconoscibili, è un tempo che non scorre, non cammina, non è neppure fermo; semÂplicemente, non c’è. La Banti non lo degna di nesÂsuna attenzione: il tempo è un elemento insignifiÂcante, non è una categoria che fondi l’esistenza, non è una funzione del racconto, non è generato dai fatti e non li genera; non è niente. C’è anzi uno scambio di dimensioni; il tempo non è che lo spaÂzio, la scacchiera dove si muovono i pezzi. Lo strano è che nella Monaca di Shangai  c’è un grande sperpeÂro, una grande ricchezza e un grande accumulo di tempo; ma non c’è l’emozione del tempo, la perceÂzione del suo trascorrere. Si pensa, naturalmente, al cinema; il tempo della Monaca di Shangai è infatti il tempo che scorre nei film, il tempo senza futuro e senza passato delle immagini, un tempo che fugge nel presente e non ritorna indietro. A pensarci, non dovremmo troppo meravigliarci: il dopo Proust, gli effetti e le conseguenze mai abbastanza calcolabili del cinema, l’invadenza sempre maggiore con cui i sogni ci spodestano della nostra vita e ce la decifraÂno, hanno lasciato una traccia strisciante in ogni forma d’arte del Novecento, sviluppando nella noÂstra esperienza del mondo una famigliarità e una sensibilità involontarie non solo verso la metafisica ma verso tutto ciò che abbiamo sempre immaginato e chiamato irreale. Il caso della Banti presenta però dei tratti paradossali, se si pensa che ci troviamo di fronte un romanziere di tradizione, lontano e anzi nemico dell’avanguardia. La Banti ha sempre eletto a modelli della sua vocazione i grandi maestri del realismo, Defoe, Balzac, Manzoni, Verga. Proprio nella Monaca di Shangai si vede con grande chiarezÂza come il racconto sia tagliato prima con le forbici, a grandi linee, poi lavorato come un tessuto fine, grazie al calco sapiente e minuzioso del linguaggio e dei ritmi manzoniani. Si apre a caso il romanzo ed è subito Manzoni, tutto intero in una goccia: «Fu in uno di quegli amplessi forzati e dolorosi che Agnese, accostata la guancia alla fronte della figlietta, la sentì bruciare». Attenzione: non è un calco retorico ma un prestito strutturale: in questo fugace accordo manzoniano si sta decidendo una morte, e il racÂconto sta svoltando per una nuova strada.
Se si parte da questi ritmi e da questo linguaggio, vuol dire che lo slittamento verso la metafisica è inÂvolontario, e così anche la percezione di una durata irreale, di un oltre, di un’eternità sempre attuale, nascosta e come prigioniera nel tempo. Si potrebbe definire il realismo della Banti un realismo fantasmatico, un tipo di realismo che attualizza, come certe fotografie di ectoplasmi, delle forze, delle meÂteore psichiche, dando loro non il corpo o la forma buia e sconvolta che loro spetterebbe, ma il vestito corretto e ben piegato dei romanzi tradizionali. Queste meteore, questi nuclei d’immaginario che esplodono e tendono a formare un sistema sono funzioni romanzesche che non hanno radice nel tempo e quindi non conoscono il peso, la resistenÂza, il valore della realtà ; mentre possiedono, al conÂtrario, tutta l’energia per produrla, per farla esistere dal niente, come violenta espressione di un furore astratto e incontenibile. Il romanzo diventa allora una fotocopia e insieme una truccatura: da una parte, il film veloce e convulso, l’impronta senza meÂdiazioni che la nube dell’immaginario, al suo pasÂsaggio, lascia sullo schermo della realtà ; dall’altra, il faticoso e paziente riadattamento dell’impronta oriÂginaria a una morfologia tradizionale. Questo proÂcesso spiega la perversa e involontaria tendenza dei romanzi della Banti a viaggiare lungo due sensi contrari: uno costruttivo, positivo, lo stradone pieno di segnali e di frecce un po’ anni Cinquanta, anche un po’ ostentate, in direzione Verga, Manzoni, Balzac, Ottocento, realismo, ecc.; l’altro un viale novecentesco, più simile a noi, dove cammina un romanziere di luce artificiale e di fissità stralunata, dalle visioni convulse e dai traumi nodosi e irreali, schiavo di rabbie puerili e posseduto da un aggressivo senso di vanità del mondo. Lungo questo viale si possono vedere affacciati a una finestrina, da dove sporgono fuori un nasuccio dispettoso, anche l’espressioniÂsmo e la metafisica.
Quest’impressione di novecentismo involontario, col suo tasso non esiguo di spettralità , risulta tanto più curiosa se si pensa che la Banti ha sempre coÂstruito, curato, lavorato i suoi romanzi con lo scruÂpolo di uno storico abituato a ricerche d’archivio e di biblioteca. Ma che cosa la Banti chiedesse alla StoÂria confesso di non averlo mai capito con precisione. Amava veramente il passato? O c’era in lei soprattutÂto il bisogno di aggredire il passato, di saccheggiarlo, facendogli carico della propria solitudine e della propria incertezza? Un romanziere appassionato di epoche defunte o lontane è portato di solito a trovaÂre in ciò che è realmente accaduto una resistenza, un limite che fa da scorta e da freno all’immaginaÂzione. Romanzare la Storia, per quanto sia discutibiÂle questo tipo di vocazione, significa servire la Storia, recuperare il passato, raccontare il tempo, ridare viÂta a ciò che è andato perso. Nella Banti non succede così. Il passato è asservito, sottomesso al presente, riportato al qui e ora da comandi brutali, imperativi, dagli ordini di una padrona. La Storia non aggiunge nessuna realtà a ciò che ci viene raccontato, perché il passato non offre resistenza, è reso cedevole. La Banti si getta sui documenti, li studia, delimita un campo d’azione, e di lì in poi l’immaginario devasta, violenta, infierisce, fa esistere e intreccia psicologie, persone, destini con più arbitrio e capriccio di quanÂto non avvenga in qualunque romanzo in abiti conÂtemporanei. L’oggettività dello storico s’intorbida, e la ricostruzione di eventi veri e lontani, ricostruzione che dovrebbe soppesare col misurino la quantità di vissuto e di verosimile che se ne può filtrare, si comÂplica d’interessi che fanno trionfare la psicologia, la fantasia, l’io, l’oggi, come in Artemisia e in Noi credeÂvamo, dove si direbbe che gli scenari siano stati diÂpinti con tanta cura, con tanta arte, non solo per daÂre realtà ai fatti immaginari che vi sono ambientati, ma anche, e forse più, per disperderli, e aggiungere alla polvere e alla caducità della Storia un’altra negaÂzione, un’altra perdita, la vanità delle nostre immaginazioni e delle nostre favole.
Nel 1966, quando la Banti scrisse Noi credevamo, volle misurarsi con un romanzo di forti recriminaÂzioni politiche che rimetteva in discussione la soluÂzione di compromesso, moderata e gradita ai pieÂmontesi, del nostro cosiddetto Risorgimento. A fonÂdamento del romanzo era una storia vera, il falÂlimento politico e la lunga detenzione a Procida e a Montefusco di un proavo, il calabrese Domenico Lopresti, patriota democratico finito poi, dopo l’uÂnificazione, impiegato doganale. Una storia tetra, di un grigio plumbeo più che sulfureo, che permetteva alla Banti di combinare un po’ tutto, il suo istinto di ribellione, il gusto del romanzo storico, il vecchio e mai tramontato realismo anni Cinquanta, e la sua inÂtima fedeltà a dei valori famigliari. Ma il romanzo le scappò di mano: non era un quadro politico e sociale del Mezzogiorno, come lei voleva, e neppure la metafora autoreferenziale di un destino in perdita, e di tante «illusions perdues». Era la storia, forse inÂconsapevole, di una malattia e di un delirio; una stoÂria in negativo che riconduce a un’area novecentesca e aiuta anche a far luce, più in generale, sui meÂtodi bantiani nel trattamento della psicologia. Questi metodi non sono affatto tradizionali, e ci riportaÂno al rifiuto del tempo da cui siamo partiti.
Ogni romanzo di tradizione presuppone uno sguardo gettato sul comportamento delle passioni, uno studio non necessariamente analitico e scienÂtifico, ma comunque una morfologia delle passioni: che cosa sono, da dove nascono, cosa producono, come si trasformano, e come muoiono. Far coinciÂdere il decorso di una passione qualunque con una funzione romanzesca è l’abc di ogni romanziere. Ma questo fondamentale, questo elemento primaÂrio è proprio quello che la Banti rifiuta. La Banti sdegna di occuparsi di un processo naturale stuÂdiandolo nel suo sviluppo, accompagnandolo nella sua crescita e nel suo destino di malattia e di morte, come farebbe qualunque bravo naturalista. La BanÂti parte da dopo. Ignora gli antefatti, dove i romanÂzieri di solito indugiano, e ignora la durata, il tempo in cui matura l’infezione; va subito alla cancrena, anzi parte dalla cancrena. Si entra nelle psicologie della Banti quando il male è già suppurato, quando le passioni sono malate, e, nello stesso tempo, energiche, vive, pazze: quando il processo morboso è orÂmai irreversibile, e occupa stabilmente e malignaÂmente la vita, rigoglioso come un tumore in piena espansione, come lo stupro di Artemisia. Le passioÂni che dividono il loro tempo con la salute, la freÂschezza, l’emozione di vivere non la interessano. Le piacciono gli stordimenti, i lunghi riposi dopo una vita dissennata e sbagliata, il confino di Marguerite Louise a Montmartre, gli anni che scorrono nel penitenziario di Domenico Lopresti, il tempo sempre uguale dei convalescenti, o quello calendariale dove si succedono le maledette vicende della Monaca di Shangai. Sembra più facile ora capire perché non proviamo mai l’emozione che il tempo sia passato, in qualunque punto di questi romanzi si torni indieÂtro. Il tempo della Banti è così fermo, così immobiÂle, perché le storie e i destini dei suoi personaggi soÂno spesso e volentieri manicomiali.
Tante volte, quasi ogni volta che mi incontravo con lei, mi chiedevo dove e come potessero trovar posto, in quella vita così bene organizzata, attiva, creativa, positiva, i diavoli che la Banti teneva accucciati dentro di sé. Fino a che punto quella donna eternamente eretta sullo schienale della stessa polÂtrona, il telefono da una parte, i fogli e le penne sulÂlo scrittoio dall’altra, i fascicoli e il plaid sulle ginocchia, il sorriso contegnoso e sussiegoso, piena di un tedio e di un’infelicità che solo la supponenza riusciÂva a mascherare, fino a che punto avrebbe retto? o un giorno la paura e l’orrore d’invecchiare l’avrebÂbero piegata? Mi chiedevo che cosa maledicesse, la Banti, nella sua vita, e che cosa consacrasse. Si era data un’illusione d’eternità , frutto, probabilmente, della convivenza con Longhi, il quale, grazie ai quaÂdri, viveva come gli dèi sempre al presente, anche se immerso nel passato. «… la mia quasi nulla sensibiÂlità per il rapido rotolare degli anni » dice Longhi in un memorando luogo del saggio sul Braccesco. Ma dopo il ’70, dopo la morte di Longhi, quanto ancora sarebbe durata l’illusione di abitare l’Olimpo? A un tratto, senza mezzi termini, mi arrivò la risposta.
Nell’inverno del 1981, cinque anni prima di moÂrire, la Banti consegnò all’editore Rizzoli un libro che riuscì non poco indigesto a molti degli allievi e dei più intimi frequentatori di Longhi, Un grido laceÂrante. In questo libro dichiaratamente autobiograÂfico, l’intimità , i rapporti coniugali, la vita a due con Longhi vengono sottratti a sguardi volgari e indiscreti solo grazie a piccole aggiustature, a minimi ritocchi fantastici. Il grande storico dell’arte che fu suo marito, la Banti lo nasconde sotto il nome di Belga, quando non lo chiama Maestro tout court; a se medesima, demolendo anche il proprio nome d’arte e sdoppiandosi in una persona inventata, imÂpone un meschinello e vagamente poetico nome di ispettrice o maestrina, Agnese Lanzi, di cui è facile ricostruire l’iter associativo e fantastico; le date di pubblica memoria sono anticipate, così che il LonÂghi si ammala e muore nella finzione quando la moÂglie è sulla quarantina, e non, come nella realtà , quando la Banti aveva già passato i settanta; il maÂnoscritto delle lezioni liceali di Longhi, la Breve ma veridica storia della pittura italiana, ritrovato e pubbliÂcato postumo dalla stessa Banti, viene promosso a corso universitario; e così l’incontro della giovane Anna Lucia col futuro sposo e maestro è spostato qualche anno più avanti, agli anni dell’università e non a quelli del liceo.
Ma, sotto il tenue velo fantastico, la storia racconÂtata nel Grido lacerante non è meno autobiografica che fededegna. Piuttosto, è difficile decifrarla. Un griÂdo lacerante è un libro che si presta a troppi ossimori: è un libro sfacciato e tremante, riservato e impudico, esibizionistico e reticente, casto e osceno, vero e inÂventato, e, soprattutto, furiosamente freddo; pagine autobiografiche scritte d’un fiato come in trance, tiÂrate su dal profondo di un pozzo, vaneggianti come il delirio di una sonnambula e invece saldamente orÂganizzate da un cervello abituato a ragionare e a diÂfendersi, e quindi lucidissimo e attentissimo a dove mettere i piedi per non cadere e per non tradirsi.
In questo scartafaccio tumultuoso, mezzo romanÂzo e mezzo autodafé come il memoriale dell’altra Agnese della Monaca di Shangai, il tempo è tutto al passato; e poco importa ormai se è un tempo che è stato rimosso, il non-tempo di una passione o di un’esistenza malata. Quel tempo tutto al passato è adesso un macigno, come si fa a spostarlo e a rimuoverlo? Bisogna guardarlo in faccia, affrontarlo, e non è facile raccogliere da terra ottanta anni sparÂsi come i gioielli della ragazzetta del Caravaggio che figura in copertina. Per giunta, la Banti non è affatÂto sicura di ciò che vuole, non sa se demolire il pasÂsato o dargli vita eterna, e così cambia instancabilÂmente di direzione, si abbandona al vento e lascia che le onde spingano la barca sempre più lontano da dove il timone sta puntando. A ogni paragrafo il libro è un libro diverso che aspetta sempre di coÂminciare: il riepilogo di una vocazione vissuta come un ripiego e un rammendo, la cognizione retrospettiva di un tradimento odioso, sogni e ambizioni di storica e studiosa dell’arte negoziati e venduti in cambio della felicità , il bilancio di un’attività di romanziera giudicata più o meno fallimentare (e coÂmunque accuratamente demolita), il rimpianto di ciò che avrebbe potuto essere migliore o diverso, il risveglio da un incubo e il riemergere, al contrario, di una perfida felicità ingannatrice. A volte la preÂsenza così centrale di Longhi sembra quella di un vampiro che succhia tutte le linfe, e a volte il preÂsente è un guscio vuoto, se non torna a riempirlo alÂmeno il ricordo di un matrimonio irrecusabile e inÂdecifrabile. Un grido lacerante è tutte queste cose inÂsieme, ma nessuna è tale da stravolgere le altre, e da sottometterle a un principio unificatore.
Finché un giorno, dietro una pila di fogli bianchi, viene alla luce uno scartafaccio. È il manoscritto della Breve ma veridica storia della pittura italiana, gli appunti di un corso redatto da Longhi nel 1914, poÂco più che ventenne, per i candidati alla maturità in due licei romani, il Tasso e il Visconti. Sempre colleÂzionista di se stesso, il Longhi aveva diligentemente conservato lo scartafaccio e aveva anche pensato, in qualche occasione, di darne degli estratti a stampa. All’emozione del ritrovamento, seguono nella Banti la commozione e il grande turbamento della lettuÂra. Quel testo non le è sconosciuto, ha il suono, il timbro della voce di Longhi. Ogni parola che trova scritta la riporta indietro di sessant’anni. Si rivede tra i banchi del liceo, la voce di Longhi le arriva dalÂla cattedra.
Prima Giotto, poi, seguendo la falsariga dei maÂnuali, lo stile opposto e incantevole dei senesi, la loÂro linearità , così squisita da sfiorare il segno orientaÂle. A questo punto, dice la Banti, il discorso di LonÂghi si faceva oggetto e addirittura pareva incarnarsi. Sembrava che le parole avessero un modello. La Banti sospende per qualche minuto la lettura. SfrecÂcia un ricordo lucido, le palpebre sbattono, gli ocÂchi catturano un’immagine che rinasce da ogni paÂrola: Alice, una compagna sempre veduta in prima fila, la grazia fatta persona.
Alta, sottile, eretta, Alice cammina con una lievisÂsima ondulazione delle spalle, che non è slancio ma misura. Si muove né lenta né alacre, come scivolanÂdo, ha i piedi stretti, come per un’elegante comÂpressione, i piedi di un uccello delicato. Il viso lunÂghetto, più che bianco madreperlaceo, mentre la bocca vividamente sanguigna e i lunghi occhi grigi risaltano su quel candore. Il collo s’inclina sulla spalla, la testa è piccola, bendata di capelli lisci, di un nero così profondo da dare sul blu e sul violetto. Ogni suo passo ha un’armonia un po’ pigra, un ritÂmo, e su quel ritmo la Banti riascolta le parole di Longhi e se le ripete con tale attenzione da giurare che siano modellate su quel corpo e su quel viso.
Non c’è niente che sappia sviluppare l’immaginaÂrio più della gelosia. Ibernata, sepolta, la gelosia si è conservata intatta sotto il tempo. È ancora di pietra come sessant’anni prima, l’occhio pazzo, annebbiaÂto, preciso vede perfettamente tutto ciò che non vorrebbe vedere, riconosce la verità e sa guidarla per vie infallibili a farti del male. La grazia della pitÂtura senese ha il corpo di Alice, il Maestro è innaÂmorato di quella grazia. Come si fa a dargli torto? Anche la Banti è innamorata di quella grazia. Non è solo un confronto mortificante. Come si fa ad amaÂre la bellezza e a sentirsene così indegni? La Banti si conosce bene e non si piace. Si rivede com’era: maÂgra, viso angoloso, zigomi alti, qualcuno l’aveva acÂcostata all’egiziana Nefertiti, ma che cosa le imporÂta? Longhi non ha mai parlato di arte egiziana. Le due compagne, finito il liceo, si perderanno di vista. Si ritroveranno negli anni Cinquanta, una sera di fine estate. Da guerra a guerra, sono passati trent’anni. Alice è seduta a un caffè e beve un po’ curva. Il marito, ebreo, le è stato ucciso dai tedeschi. È lei a rivolgersi per prima alla Banti, i suoi ricordi sono precisi. Volano dei saluti cordiali. Dopo quel giorÂno, le due donne non si vedranno più.
La gelosia sa come fare del male, ma sa fare i miÂracoli. Alice non fa a tempo a uscire di scena, e l’ulÂtimo libro della Banti ha già trovato il bandolo, il suo principio d’ordine. « Molte cose la gente immagina e crede sull’inevitabile declino della vecchiaia: ipotesi spesso sbagliate»; è il capoverso un po’ sostenuto, l’adagio che segue senza soluzione di continuità l’eÂpifania di Alice. La vecchiaia non esiste: pensiero fulÂmineo sul quale si chiudono seccamente tutti i ricorÂdi; poche righe meditative, dove s’incrociano, si accavallano, e si possono riconoscere in filigrana, rimÂpicciolite e chiuse dentro un minuscolo globo di veÂtro, due o tre delle piste culturali del Novecento che più hanno rincorso, unito, diviso la storia e la meÂtafisica: le intermittenze proustiane, l’attualismo gentiliano, e la scissione tra storia e tempo, tra cateÂgorie cronologiche e categorie formali nella storia dell’arte, che è il fondamento della metodologia longhiana. Ma il pensiero della Banti non è qui debitore, direttamente, né a Longhi né a Proust né a Gentile. Se c’è un debito che la Banti deve pagare a chi le ha insegnato a cancellare il tempo, esso va pagato a uno di quei tumori che possono occupare e spodestare una vita: non essere degna del dio LonÂghi, non essere uguale agli dèi, non essere capace di amare e di essere amata; frustrazione ben più crudeÂle di quella di non piacere al sempliciotto dio Priapo. Il passo che vi leggo si trova in coda al Grido laceÂrante, e conclude tutta l’opera della Banti:
«Molte cose la gente immagina e crede sull’inevitaÂbile declino della vecchiaia: ipotesi spesso sbagliate. Non è vero, per esempio, che la memoria dell’età tarda non registri il presente, i giorni e i fatti recenti, per rivolgersi soltanto al passato. Ora, l’esperienza personale di Agnese negava questo luogo comune. Per lei il presente era scontatissimo, un presente preÂvisto, una specie di futuro indovinato, digerito, senza sorprese; mentre il vero passato rimaneva inerte, nella sua cassaforte, da cui poteva toglierlo a volontà , pezzo per pezzo, a capriccio, e senza soverchie comÂpiacenze. In altre parole, lei non credeva al tempo, elemento disturbante, nocivo all’essenza della vita umana, la quale era tutta un divenire. Si sapeva che lei amava la storia e a volte glielo rimproveravano: ma, pensava, la sua storia era in continuo movimenÂto, non quella fissata dalla tradizione e inchiodata dai documenti. Presente e passato sono un istante da catturare e stringere come una lucciola nella mano. Non ci riesce chi vuole ».
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Commento by wissia — 22 Gennaio 2009 @ 11:47
salve…
sto cercando DISPERATAMENTE ‘La monaca di Sciangai’…non importa il prezzo, basterebbe averne una QUALSIASI EDIZIONE, IN QUALSIASI CONDIZIONI purchè leggibile!
Qualcuno mi può aiutare?
Wissia
Commento by Bartolomeo Di Monaco — 22 Gennaio 2009 @ 13:33
Hai cercato qui: http://www.maremagnum.com/index.php ?
Altrimenti prova in Biblioteca e vedi se puoi fotocopiarlo, trattandosi di libro fuori catalogo.
Commento by Roberto Accornero — 8 Settembre 2010 @ 09:59
Meraviglioso Garboli. Com’è nutriente leggerlo, sempre.
Commento by Bartolomeo Di Monaco — 8 Settembre 2010 @ 11:24
Grazie dell’apprezzamento, Roberto.