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LETTERATURA: I MAESTRI: Il dottor Zivago

24 Gennaio 2008

di Cesare Garboli
[da: “La stanza separata”, Mondadori, 1969]

In qualche parte della sua opera, Dostoievschi ha lasciato scritto che il « male », la sofferenza non è meno necessaria alla vita della felicità o della gioia. Abbiamo bisogno di sventura… « Bisogna » diceva Tolstoi « amare la vita an­che nel dolore… »

Vertiginoso come una tempesta che scuo­ta il mare fin dall’abisso, tenebroso come l’ondata che ol­trepassa tutte le altre e lascia sulla riva la pomice, il su­ghero, le conchiglie, le alghe, quanto di più leggero e im­ponderabile ha potuto sollevare dal suo fondo, grande e pacifico come il nome stesso dell’oceano, il bene di esistere non può essere fruito, utilizzato. Non può essere destinato a un fine che non sia la fuggitiva, momentanea gloria di se stesso. La vita non è un materiale, una sostanza, che un trattamento possa nobilitare. Essa stessa è un elemento che continuamente si rinnova e rielabora, essa stessa eternamen­te si rifà e si ricrea. Il bene della vita non è un « bene ». Trascinati nella dialettica dell’esistere, l’inferno e il para­diso smettono di essere puri, improbabili nomi. La vita non si presta a essere usata. Vivere non è come attraversare un campo. In primo luogo, la vita è « passione ».
Iscritta nei grandi registri dell’umanità primitiva, super­stite frammento di psicologia arcaica e religiosa, quest’idea della vita appartiene al patrimonio delle convinzioni contadine, la si trova da sempre custodita nel vasto libro dell’anima popolare. Figuriamoci se non la si ritrova anche tra le pagine di quell’immenso, sublime messale ortodosso che è l’anima « russa »! Del resto, da mezzo secolo a que­sta parte, non siamo forse portati d’istinto a connettere ogni « mistica del popolo » a quella rivelazione del conta­dino o del paria russo quale portatore di un messaggio di verità, che ci è stata offerta, sia pure in modi diversi, dai due grandi campioni orientali del romanzo moderno? Oggi la mistica del popolo non ha intorno lo spazio di una volta, i suoi orizzonti si restringono, il « popolo » è un’entità che scompare, si rifugia nei paesi sottosviluppati, cambia aspet­to e nome… Ma per un caso curioso, è stata la mistica del popolo che ha messo a tacere la nostra intelligenza, per lunghi anni, davanti al fenomeno contraddittorio della ri­voluzione bolscevica, misto di un elemento costruttivo, ra­zionalistico, storicista, romantico e « occidentale », da una parte (la coscienza della realtà diventa prassi, trasforma­zione della realtà, metodo d’azione), e di un elemento spontaneistico, autenticistico, imprevisto e « distruttivo », dal­l’altra (l’anima russa, appunto, l’antistoria tolstoiana, il cri­stianesimo dostoievschiano con le sue ragioni del « male »). Persuasi che la veste reazionaria del tolstoismo e della problematica dostoievschiana nascondesse in realtà una con­fusa e agitata sostanza rivoluzionaria, conciliabile con l’uma­nesimo socialista, adattabile al comunismo, ci siamo spesso dimenticati dell’accento furioso, ribelle e alternativo con il quale l’autore dei Dèmoni predicala la sua ideologia reli­giosa e populista. Allo stesso modo, relegandola tra i casca­mi di un supremo sistema narrativo, si poteva sorvolare, sorridendone come di un tic, sulla meravigliosa, ossessiva ottusità con la quale il grande feudatario inchiostrante le pagine di Guerra e pace si misurava col ventoso idolo napo­leonico e coi massimi problemi della storiografia. Mentre per le due persone prime del romanzo russo, grandeggianti sull’orizzonte della cultura europea tra l’Otto e il Nove­cento, lo « storicismo », che nel frattempo ubriacava le co­scienze occidentali, era e restava la più inverosimile delle mitologie: una delle tante, irritanti, stupide empietà illuministiche, la ripetizione del peccato più antico, il segno della ricorrente, testarda idolatria dell’uomo per l’uomo. La storia non esiste. O, se esiste, è invenzione del male, disumano arbitrio politico, sadico intervento sul corpo in­tero e mistico della vita. « Nessuno fa la storia, la storia non si vede, come non si vede crescere l’erba. D’inverno, sotto la neve, i rami spogli di un bosco caduco sono esili e miseri come i peli su una verruca senile. In primavera, in pochi giorni, il bosco si trasforma, nel suo fogliame ci si può perdere, ci si può nascondere. In questa trasformazione il bosco si muove con una rapidità che supera quella degli animali, perché l’animale non cresce così presto come la pianta. Eppure il suo è un movimento che nessuno riesce a scorgere. Il bosco non si sposta, lo ritroviamo sempre im­mobile. E in questa stessa immobilità ritroviamo la vita della società, la storia, che pure eternamente si muove, eternamente muta, anche se le sue trasformazioni non sono avvertibili. »
Assolutamente contadina, immensamente « russa », que­sta verità mistica, questa critica dell’agire ci viene oggi nuo­vamente sbattuta in faccia, e ci coglie, ma non tanto, di sorpresa, nel punto di crisi delle ideologie socialiste. L’anti-storia ci assale ancora una volta dalla stessa parte, dal luogo di provenienza insieme più ovvio e impensato. Il messaggio ci arriva sotterraneo, per vie traverse, da quelle parti in cui il valore del « fare », contro ogni umiltà reli­giosa, è stato pronunciato in termini almeno esaltanti. Stia­mo tutti a discutere del Dottor Zivago e intanto non ci rendiamo conto che il romanzo di Pasternàk – questo formidabile « appunto » per una storia irraccontabile, questa somma stupefacente di informazioni romanzesche intorno a un gruppo di giovinezze magiche, che s’incontrano, si la­sciano, muoiono, sopravvivono, passano una vicina all’altra nello spazio di una Russia che a volta a volta è un crocic­chio, un purgatorio, una terra di Dio, una mappa orrorosa e fatata – ci ripete una canzone antichissima, creaturale, addirittura da laudi umbre, da muto, nero urlo di madre (« non pensò e non pianse, coprendo parte della bara, dei fiori e del cadavere con tutta se stessa, con la testa, col petto, con l’anima e con le sue braccia, grandi come l’ani­ma… »). La vecchia canzone francescana della vita come dono supremo e inutilizzabile, come sorella infinitamente pietosa, ma soltanto a patto che non le si chieda niente al di là di se stessa, ci viene restituita con gli interessi di una neo-allegoria bizantineggiante, Ai una nuova costruzione simbolica, in un romanzo che è soprattutto superbo e consa­pevole raffazzonamento tecnico e impressionistico, superio­re e distratto capolavoro d’avanguardia postuma, quasi uno spettacolo allestito con pochi soldi, con gli spiccioli, messo su con niente, ma di luci sempre più vivide, sempre più conquistanti, che ci fanno dimenticare di trovarci in platea (« l’enumerazione disordinata di cose e di concetti, in ap­parenza incompatibili, accostati in modo che sembra arbi­trario, così come è nei simbolisti, in Blok, Verhaeren e Whitman, non è affatto un capriccio stilistico. È un nuovo ordi­ne d’impressioni, ricalcato sulla vita e sulla natura »).
L’antico dono creaturale dell’umiltà, nel senso in cui ci è stato trasmesso dalla spiritualità medievale non escluso Dante (che cos’è la Commedia se non un’immensa critica del « fare »?), ci viene riproposto nel Dottor Zivago nei termini, tra l’altro filologicamente ineccepibili, di sublime « passività ». Tradotta dall’ieri all’oggi, dal medioevo all’e­tà moderna, « passività » vale disimpegno, fuga, rapporto evasivo con la storia. Invenzione dell’umiltà o della super­bia (umanistico, cioè, o romantico) il senso della storia liti­ga sempre vivacemente con qualsiasi autentica psicologia di tipo religioso:  la « vita », la sfoglia della vita, corre il rischio di restare asfissiata, il piccolo soffocato dal grande, il particolare dall’universale, la viva occasione dal vasto disegno morto. Nel regredire fascinosamente verso presup­posti religiosi e medievalistici, Pasternàk evita ogni mezza misura: le « strutture » della vita non sono mai vitali. Tra il flusso dell’esperienza vitale e le sue « cristallizzazioni » non c’è dialettica, ma opposizione marcata da una linea netta, chiara, come tra vero e falso, tra originalità e convenzione. Per Pasternàk la vita continua a essere quello che è sempre stata nel buio della secolare esperienza religiosa: mistero mistico della carne, impossibile unione di Cristo e Maddalena (« II mistero della vita, il mistero della morte, il fascino della scoperta, questo, sì, questo noi avevamo ca­pito. E le piccole contese del mondo, come il rinnovamento di tutta la terra, no, no, questo non ci riguardava… Mai, mai, nemmeno nei momenti di più libera e immemore feli­cità li aveva abbandonati quel che c’è di più alto e di ap­passionante:  la soddisfazione per l’armonia del mondo, la sensazione d’essere in rapporto con esso… E perciò il domi­nio dell’uomo sulla natura, il culto e l’idolatria dell’uomo non li avevano mai attratti. I principi di una falsa socialità, trasformata in politica, erano apparsi a loro una ben mi­sera cosa, e nessuno li aveva capiti »).

Nello stesso tempo, se da una parte si precisa come vio­lento attacco al « fare » e come idea trascendente e mistica della storia, questa concezione adorante e religiosa della vita prende nel romanzo di Pasternàk un secondo aspetto, approda cioè a una sorta di tenebrosa riva neoplatonica dopo essere partita da premesse confusamente bergsonistiche e simboliste. Quella che è chiamata in causa e messa sotto accusa è ancora una volta la « realtà », o la pseudo­realtà: il muro delle istituzioni, in una parola, le « strut­ture » inadeguate a riflettere la profonda, mutevole e divina sostanza del vivere. Secondo il messaggio di Whitman, si tratta di ritrovare la vita alle sue stesse origini, o secondo quello di Rimbaud, di ripercorrere i passi di un paradiso d’innocenza perduta e selvaggia, d’identificarsi con l’asso­luto, di rompere i confini dell’io. Concepita nella sua eterna metamorfosi naturale, nel suo mistero, nel suo incessante, vertiginoso ritmo di « distruzione », liberata dalle soffocan­ti, rinascenti costrizioni della « realtà » (siano esse la stu­pida, orribile gestualità rivoluzionaria o la disumana astra­zione stalinista), simile a una turgida gemma che esploda continuamente nel fiore, la vita ha senso, per Pasternàk, soltanto e sempre al suo primo istante, nella fragranza dei suoi momenti di rinascita e di miracolo, con una rapida, felicissima mossa identificatoria a portata di mano: la Ri­voluzione nella primavera del ’17, scoppiata « come un sospiro troppo a lungo trattenuto » (« è come se una raffica di vento avesse strappato il tetto a tutta la Russia, e noi con tutto il popolo ci fossimo trovati di colpo allo scoperto, sotto il cielo… »).
Mentre la letteratura occidentale, presa nelle tenaglie di un ferreo discordo, di un’insolvibile contraddizione, ha sem­pre messo l’accento, da un secolo a questa parte, sull’inef­fabilità chimerica della « vita », sull’interminabile rosario delle sue sconfitte e delusioni di fronte alla lettera morta delle cose, secondo la linea che da Flaubert arriva a Cechov e a Joyce passando perfino in visita dal Tolstoi di Anna Karenina, al contrario Pasternàk, fedele ai suoi maestri ot­tocenteschi, protetto da vaste riserve spaziose, dai suoi bo­schi e dalle sue fredde notti del nord, riprende il gran tema alle origini, lo affronta di pieno petto, mettendo nel cassetto le nausee e i disgusti esistenziali che passano in secondo piano rispetto alla brutale, palpitante evidenza degli orrori… Non si tratta di sognare paradisi perduti, o di esercitarsi nella denuncia di cose che scendono da se stesse ben oltre la gelida, depressa riga dello zero morale. Non si tratta di salvare la « poesia », ma la vita, prossima a essere assassi­nata per sempre. E per uno di quei misteriosi orditi, per una di quelle coincidenze inattese che spesso guidano il destino di una creazione d’arte, Pasternàk torna a parlarci nel momento meno appropriato con la voce più imprevista e più nota, torna a immergere la penna, con un gesto di estrema semplificazione, nel calamaio della felicità e della disperazione, nel buio della loro mobile, emotiva dialettica. Dopo Tolstoi, nessuno ci aveva più detto che anche al centro dell’inferno la gioia, la bellezza di vivere esiste.
Romanzo della rivoluzione allo stato puro, della rivolu­zione permanente, movimentata e mirifica della natura, è facile contestare al Dottor Zivago una sotterranea, connivente parentela con la mistica della « decadenza ». Della vita la fantasia di Pasternàk ha una percezione essenzial­mente limitata alla componente distruttiva. Ma in realtà non tutto è poi così semplice. È vero piuttosto che il Dottor Zivago si situa nel punto caldissimo in cui si scatena una contraddizione metafisica, congenita a ogni esperienza vi­tale, storica o privata. La Rivoluzione che è insieme sfondo e azione, sangue e aria del romanzo comprende nella sua esplosione vitale due eterni aspetti delle cose: il fare e il non-fare, la presa di possesso della realtà e insieme la su­periore trascendenza di avvenimenti infinitamente più gran­di del presuntuoso arbitrio politico di manovrarli secondo un programma e un fine. Pasternàk sente i due motivi in aperta, cruciale opposizione. Il romanzo riporta verso il passato, verso gli orrori della guerra civile, un discorso che in realtà si riferisce al presente, al periodo dei processi som-mari e delle purghe staliniane. Nel suo « no », nel suo progressivo e passivo ritrarsi di fronte agli orrori rivoluzionari, letterali quanto simbolici dello stalinismo futuro, il prota­gonista di Pasternàk, il medico e poeta Jurii Andreievic Zivago, non fa altro che obbedire alle stesse ragioni che lo hanno portato a schierarsi dalla parte degli insorti nella primavera del ’17: le ragioni della rivoluzione sono le stesse della passiva, negativa resistenza allo stalinismo. Può anche darsi che ovunque ci sia sfogo, movimento, liberazione, dis­soluzione delle strutture nella calda passione d’esistere Pa­sternàk senta odore di vita, fiuti, nel disordine e nella stra­na armonia delle stanze, nella vasta e vuota orma stampata sul nostro quotidiano giaciglio scomposto, il corpo di Dio sceso a dormire tra noi. Ma la negazione del dottor Zivago esibisce d’altronde una pezza d’appoggio che ci mette su­bito a sedere, che ci tappa la bocca: promossa dalla disu­mana pratica collettiva della malafede e del terrore, la negazione del dottor Zivago, e con essa quella di Pasternàk, non può che trovare sfogo verso una realtà seconda, impalli­dendo sempre più attratta dal polo insieme del niente e di Dio, riducendosi alla volatile essenza di un rifiuto totale, che prende indistintamente a bersaglio tutti i punti nei qua­li la vita sale anche solo di un grado verso la « realtà ». Il rifiuto dello stalinismo diventa rifiuto di tutto.

In questo inatteso, brusco ma narrativo passaggio da un livello storico a un altro metafìsico sta non tanto il messag­gio, quanto la profonda, sconcertante novità del Dottor Zivago, forse esorbitante dalla stessa coscienza di Pasternàk (non dico dalla coscienza tecnica). È chiara l’origine stali­nistica del « rifiuto a vivere » zivaghiano: lo stalinismo scuote la fiducia nelle istituzioni, nel « fare », coinvolgendo nella propria negazione l’intero sistema delle cose. Prestare orecchio a un solo accento vero di un discorso falso impli­cherebbe la morte dello spirito, l’ingresso nel malefico giro delle colpevolezze presumibili, la connivenza con l’astrazione, il ghigno e il terrore. Ma nello stesso tempo, la tragica esperienza « sovietica » del dottor Zivago è sentita da Pasternàk a un secondo livello, strettamente connesso al primo, così che la loro confusione, il loro abbraccio sangui­nante ci schiude finalmente in termini reali un’alternativa esistenziale che la letteratura moderna ci ha sempre messo sotto gli occhi secondo linee problematiche ma intellettualistiche e fredde, preconcette e improbabili. Nel Dottor Zivago non c’è « testa », non esiste astrazione. La stessa negazione di Zivago non appartiene all’intrinseca, originaria psicologia e fisionomia del personaggio di Pasternàk: un uomo medio, addirittura un piccolo-borghese confesso, al­meno di elezione, portato a definirsi, a fare risaltare la sua ombra attraverso gli avvenimenti (« per tutta la vita aveva sognato un’originalità sobria, smussata, irriconoscibile all’e­sterno, nascosta sotto il velo di una forma ovvia e consueta, per tutta la vita » – ma gli andrà male – « aveva cercato uno stile inavvertito, che non attirasse l’attenzione.., »).
La negazione di Zivago ci appare come un rifiuto in progress, piuttosto, confuso ai fatti, a caldo sulle vicende. So­gnatore accanito di un’esistenza conformista, con moglie e bambini, nostalgico di piccole scrivanie da lavoro al punto da occhieggiare golosamente un tavolino mentre sta per la­sciare la pelle in un deserto di neve, succede al dottor Zi­vago quello che avviene a tanti del suo stile, di andare incontro, senza volerlo, a un « destino », d’imbarcarsi suo malgrado in una sciagurata, rapinosa esistenza di nomade irrequieto, travagliato e dissestato, assediato da tre, quattro vite diverse, dannato a micidiali traslochi da un alloggio all’altro. Le cose gli vanno incontro, lo conducono, lo tra­volgono, lo cercano, e rifiutarsi alle cose, non udire il loro richiamo quando sono loro a chiamarci, è offendere la mae­stà della vita, è tradire, così com’è una offesa alla vita la limitatezza ottusa di ogni taglio, di ogni scelta, lo spessore vacuo e gestuale dell’azione. Troppo lo zelo, troppa la voca­zione alla vita perché il dottor Zivago non finisca per dimet­tersi, per condurre un’esistenza squallida e miserevole, spec­chio incolore degli infiniti riflessi dell’universo. Imposta dalle circostanze, si profila una « santità » non voluta. Ma dalla negazione di Zivago resta lontanissima la negatività del personaggio, il dottor Zivago non s’allinea affatto « alla galleria, tanto folta nella letteratura contemporanea, degli eroi della negazione, del rifiuto a integrarsi, degli étrangers, degli outsiders » (non so come a Italo Calvino sia passato per la testa, un simile accostamento). Nel suo rifiuto della « realtà » (e sia pure, il suo, il rifiuto d’integrarsi) il dottor Zivago è piuttosto una « negazione della negazione ».
È chiaro poi come in opposizione alla falsa-prassi, alla falsa-storia, la vita riemerga nel romanzo di Pasternàk in primo piano e nello stesso tempo si allontani sul fondo, si rifugi nella natura, attorniandoci come un bosco fragrante ma tenebroso, sparso di luci, radiazioni e messaggi intermit­tenti. Connessa a una tensione negativa, la mitologia della vita trascina Pasternàk sempre più verso la soglia del tem­pio, dell’enigma e del mistero. Per essere avvolta dal buio, chiusa nelle coscienze, la vita torna a essere un « deposito di rivelazioni », come l’ultima abitazione di Jurii Andreievic (« una sala conviviale dello spirito, una scatola di sogni »). Della realtà vediamo solo una parte, una fascia, dunque ci muoviamo in uno spazio pieno di significati, siamo al cen­tro e ai margini, oggetti passivi e attori, enti effimeri e pro­tagonisti assoluti, ombre e persone reali. Il senso comples­sivo della rappresentazione ci sfugge, ma i destini che s’in­crociano, le sorti che s’avvicendano e si sorpassano ci di­cono che il luogo che stiamo attraversando è una carta più grande di noi, dove tutto è segnato, e nessuna orma si per­de. Come nei Miserabili (autentico equivalente ottocentesco del Dottor Zivago), o nel Pastor fido di Battista Guarini, la vita è un geroglifico, non facciamo che rincorrerci sulla scena, « però che i sommi dèi / non conversano in terra / né favellan con gli uomini mortali; / ma tutto quel di gran­de o di stupendo / che il cieco volgo al cieco caso ascrive / altro non è che favellar celeste ».

Rispetto all’antistoria tolstoiana e dostoievschiana, sorretta comunque da un’ideologia, qualcosa è cambiato. Nel Dottor Zivago c’è remissione al tutto, e se c’è un rifiuto, questo è il rifiuto delle ideologie, di tutte quante insieme. In cam­bio, sulla mistica della vita sembra prendere il sopravvento una nuova metafisica. Un intero sistema di valori fondato sulla storia entra in crisi. Del resto, tradotta in termini meta­fisici, la massima di Dostoievschi non vale forse quest’altra, che alla vita non è necessaria solo la realtà, ma anche il suo contrario: il nulla, il vuoto, il non-agire? Tutto quello di cui soffre il dottor Zivago, la mancanza di volontà, l’atro­fia sociale, il disimpegno passivo, la vaghezza e la confu­sione dei sentimenti, l’incertezza, la deficienza di energia vitale, non converge, tutto questo, verso un unico punto di fuga, il vuoto, il non-essere? La prima delle poesie di Jurii Zivago, raccolte in fondo al romanzo-commemorazione, s’in­titola Amleto: « S’è spento il brusio. Io sono entrato in scena. / Poggiato allo stipite della porta, / vado cogliendo nell’eco lontana / le cose che nel mio secolo accadono… Reciterò, d’accordo, questa parte ».
Questo è dunque il « dolore » di cui ha veramente biso­gno la vita: quella cavità negativa, quel durevole, costante non-essere di ciò che chiamiamo « anima », quel silenzio, quello spazio interno, che ci permette la percezione di vi­vere, che ci rende filtri della nostra esistenza, quel vuoto che fa della nostra vita un ritmo, una musica. Chi abbia avuto i classici per compagni spesso frequentati, sa come il dolore sia in primo luogo una lacuna, una privazione, un non-essere, da qualsiasi parte addenti il suo morso. Quando cercavano di sottrarsi alla contraddittoria tirannia della vi­ta, teorizzando una pacifica immunità dalle passioni, gli antichi non inseguivano che questo vuoto impossibile, que­sta clessidra vitale. Lontano da loro, ma più lontano ancora dalla psicologia comune a ogni uomo moderno, ossessionata da quello stato di tedio, di sazietà, di aridità che agli anti­chi sarebbe parso un guadagno (Sofocle che si rallegrava, vecchio, di non amare più, ci sembra il poeta di un’epoca incredibile, chissà quando esistita), Jurii Andreievic Ziva­go c’insegna una terza, equidistante, folle saggezza. Ci am­monisce a vivere senza vivere d’impegno e agitazione costruttiva, separati dalla storia, ribelli a un falso edificio di interessi e di scelte. I « fatti » non esistono, la storia è sem­pre un gesto, la realtà non produce che orrori. E appena la prassi e la politica la tocchino, la vita muore. Dispiace che proprio dall’Unione Sovietica ci venga questa definitiva conferma, circa la divisione dei lavori tra Dio e Mammona. È colpo di genio, da parte dì Pasternàk, intrecciare que­sta religiosità creaturale, questa mistica e metafisica della vita alla storia di un amore squillante e straordinario, su­blime esempio della naturale, “buia equivalenza tra vita e distruzione. « È come se ci avessero insegnato ad amarci in cielo, e poi, ancora fanciulli, ci avessero mandato a vivere sulla terra, per un certo tempo, perché mettessimo alla pro­va l’uno contro l’altra questa capacità. È una totale iden­tità, senza nulla di superfluo… Ma in questa tenerezza sel­vaggia, che sta sempre in agguato, c’è qualcosa di fanciul­lescamente indomito, non permesso. È una forza arbitraria, distruttiva, contraria alla pace… » Ubbidiente a un archeti­po sacro, insieme cerimoniale e violento, irrecusabile e fatto di assurde, segrete, quotidiane spensieratezze, quest’amore da romanzo d’appendice, l’amore di Zivago e di Lara, si manifesta con la semplicità, la potenza, la maestà delle cose che non hanno bisogno di niente per dominare la scena. Quest’amore è fatale e non voluto: « Si intendevano, come altri cantano… Si erano amati, perché così voleva tutto in­torno a loro: la terra sotto di loro, il cielo sopra le loro teste, le nuvole e gli alberi. Il loro amore piaceva a ciò che li circondava forse anche più che a loro stessi… ». Lara ripete Zivago, la fatalità casca su chi non la desidera. (« Questa nostra vita da zingari è davvero artificiosa ed equivoca, hai ragione. Ma non siamo noi che l’abbiamo inventata… »)

Larisa (Lara) Fiodorovna, Antipova da maritata, e Jurii Zivago s’incontrano da ragazzi, due volte. Evidenti segni premonitori sembrano accomunare le due adolescenze che appena si sfiorano. Entrambi sposati, i due si ritrovano a Meliuzeev, cittadina ospedaliera delle retrovie, nella primavera e nell’estate del ’17: lui ferito e reduce dal fronte, lei in cerca del marito (e futuro capoparte rosso) arruolatosi volontario e dato per morto o disperso. È un incontro casuale, un’amicizia di guerra. Ma nella reciproca vacanza del cuore, in quella primavera eccitata, visitata dal prean­nuncio della Rivoluzione vicina, prossima a rivelarsi, in quel fremito di convalescenza, giovinezza, in quel sospiro di tutta la Russia (« Che tempi sono questi! E noi li vivia­mo!..: »), nasce una simpatia diversa. Un improvviso au­mento di temperatura, nel sangue del dottor Zivago, sul­l’onda delle prime insurrezioni (« in ciascuno sono avve­nute due rivoluzioni: una propria, individuale, l’altra generale. Mi sembra che il socialismo sia un mare nel quale devono confluire come rivoli tutte queste singole rivolu­zioni individuali, il mare della vita, il mare dell’autenticità di ognuno… ») viene presto frenato dai richiami virtuosi di Lara. La guerra finisce, le due vite si dividono. La famiglia Zivago lascia Mosca, s’imbosca verso gli Urali, nella vec­chia proprietà di Varykino, confiscata ma abitabile. Lara vive a poca distanza, a Juriatin. In tutti i sensi quel breve tratto, quella strada tra Varykino e Juriatin è fatale. Complice una biblioteca, Jurii e Lara si rivedono… « Ecco, lei abita lì, all’angolo, sotto il bianco riflesso del cielo di piog­gia… Là avrebbe ricevuto in dono dalle mani del creatore quella bianca grazia creata da Dio. Gli avrebbe aperto la porta una figura ravvolta di scuro. E la promessa della sua intimità, contenuta, fredda come la luminosa notte del nord, di nessun altro, a nessun altro appartenente, gli sarebbe corsa incontro come la prima onda del mare sulla sabbia della riva, verso cui accorri nel buio. » Ma Jurii è rapito dalle guardie rosse, che lo affrancano dai vivi rimorsi co­niugali: tre anni d’inferno nei boschi, tra le bande armate. Fugge, ritrova Lara a Juriatin. Prossimi a cadere sotto accu­sa (la famiglia Zivago è intanto riparata a Mosca, e di lì esiliata a Parigi), Jurii e Lara tirano in lungo, non sanno decidersi, si perdono in un confuso, distratto e privato « che fare ». Il dottor Zivago si persuade che è giusto, è saggio dividersi. Con un inganno a fin di bene, accetta che la vita gli tolga Lara e con Lara anche tutta l’anima che gli resta. Persuasa d’essere seguita di lì a poco, Lara parte per Vladivostòk. Non si rivedranno più. « Rimasto sulla soglia con la pelliccia gettata su una sola spalla, col braccio libero serrava stretta l’esile colonnina dello stipite, come se volesse divellerla. Tutta la sua anima era inchiodata a un punto lontano dello spazio. »
Al chiudersi di questo brogliaccio sentimentale, il Dottor Zivago non è ancora finito. Segue alla partenza di Lara un a tu per tu supremo, una spiegazione ultima tra Zivago e il fuggiasco marito di lei, Antipov-Strelnikov, il quale finirà suicida sulla neve (tecnicamente, con questo caldo e eccitato dialogo ovattato da un’aria di neve siamo al punto « russo » del romanzo, e forse al suo meglio). Rientrato a Mosca, Zivago abbandona la professione, si lascia andare a una vita spenta e squallida, smarrisce le qualità di scrittore, passa di alloggio in alloggio, s’ammoglia con la figlia di una portiera, « solo talora sottraendosi allo stato di torpore e di decadenza, rianimandosi, tornando all’attività, per poi, dopo uno sprazzo fugace, ricadere di nuovo in una assoluta indifferenza verso se stesso e ogni cosa del mondo ». In un caldo pomeriggio d’estate del ’29, ritrovandosi coi vecchi amici d’infanzia Gordon e Dudorov, e discorrendo di poli­tica e letteratura, Jurii Andreievic s’innervosisce, vuole an­darsene, sparire: « Egli conosceva bene le molle del loro calore, la loro incostante partecipazione ai suoi casi, il mec­canismo dei loro ragionamenti. E tuttavia non poteva dire: “Cari amici, come siete irrimediabilmente banali voi e l’am­biente che rappresentate, col luccichio delle vostre preferenze artistiche e dei vostri nomi. L’unica cosa viva e lumi­nosa che ci sia in voi è il fatto che un tempo siete vissuti con me, accanto a me” ». Destituito di ogni alterigia, que­sto triste monologo ci ripete sconsolatamente che la realtà è stupida, insignificante, e la vita è tutto, la vita è rivolu­zione permanente, allo stato puro.
Pochi mesi dopo, Zivago è stroncato da infarto, nella cal­ca di una vettura tranviaria. Per caso, in quei giorni, Lara si trova a Mosca, per la prima volta dopo più di dieci anni. Fa a tempo a piangere sulla bara, ad assistere ai funerali, prima di svanire nel nulla, arrestata o deportata. Con im­provviso salto di tempo nel ’43, in piena seconda guerra mondiale (« una tormenta purificatrice », secondo Pasternàk), grazie all’aggiunta di un epilogo ci vengono ricompo­sti gli estremi, residui frammenti del « mistero » dei prota­gonisti. E per quanto non mi senta di definirlo un romanzo «che cresce su se stesso », è certo che Il Dottor Zivago cre­sce a sbalzi, passa per fasi ingrate, fatica a sgranchirsi, si­mile a un organismo gramo che raggiunga a stento, attra­verso ritornanti deperimenti, la polpa piena della gioventù. Ma soprattutto Il Dottor Zivago cambia pelle in retrospettiva, da un punto di vista postumo, per così dire. Quanto più cammina in avanti, si fa incandescente e serrato, tanto più sembra ritornare su se stesso, svilupparsi da più indie­tro. Quanto più si schiudono lunghi squarci narrativi, rispet­to al sommario canovaccio della prima parte, tanto più l’in­tera vicenda è riattraversata da lampi, come se tutto il ro­manzo fosse costantemente sul punto di dover essere « ri­scritto » una seconda volta, mentre questa sola è appunto la sua « scrittura ». Si direbbe che Il dottor Zivago si rivolti nella fodera di se stesso, passando dalla storia alla meta­fisica.

Lo stesso amore di Lara e Jurii, a ben guardarlo, prende vero rilievo, si colloca nella luce giusta soprattutto attra­verso il rapinoso, singhiozzante flash-back che ce ne offre Lara durante la veglia funebre, come se riconfluissero in quei pochi minuti di pianto, da ogni parte, in piena, i ri­voli di tutto il non-detto e insieme di tutto il vissuto, in tutta la sua realtà di cosa che non esiste, di nulla super­stite. In questa veglia, in questo piccolo « trionfo sacro », l’amore di Zivago e Lara ci si rivela nel suo aspetto più simbolista e lacrimoso, patetico e estetizzante, a un punto lontanissimo dall’estetismo. È che Pasternàk sa benissimo che al vertice di ogni mistica della vita, al vertice del rap­porto tra vita e distruzione, ciò che viene sempre delegato a rappresentare e a convalidare la momentaneità della vita è l’arte, valore autonomo, duro e permanente: l’arte che è « sempre la medesima cosa, sempre arte al singolare, egizia, greca o contemporanea, sorta di idea, di affermazione della vita, che per la sua sconfinata ampiezza non si può definire in singole parole » (pag. 369), « l’arte che quando è grande e vera si chiama Rivelazione » (pag. 120), « l’arte che per­sistentemente meditando sulla morte crea la vita » (ib.), « l’arte che, anche se tragica, racconta sempre la felicità di esistere » (pag. 592), secondo un perfetto allineamento ai risultati della cognizione romantica e simbolista della « poe­sia ».
Se il sublime tono di voce del Dottor Zivago dà sempre l’impressione di salire un tantino più su del necessario, e se il romanzo, nell’ordine tecnico, sconfina volentieri in una sorta di auto-commento, di auto-illustrazione saggistica e retorica, questo lo si deve al fatto che la materia di Pasternàk, soprattutto nel suo versante sentimentale, si trova emotivamente a ridosso di se stessa, chiusa nel proprio fuoco come in uno specchio avvampante. Prigioniero della sua struttura metaforica, l’universo di Pasternàk ci appare come un universo mistico, è vero, ma anche come un universo te­nebrosamente dannato, « separato », come se la gioia po­tesse divineggiare soltanto in termini d’oltretomba e l’infer­no, a sua volta, riconoscesse sempre se stesso, il proprio volto perduto, nella sembianza stessa dei suoi riflessi divini. Con bell’orecchio, Citati coglie quest’impurità di suono sen­tendo che « Pasternàk aggiunge la propria voce a quella di Zivago e di Lara, e si esalta con essi in un fervore senti­mentale continuo, sicché non si può nemmeno supporre che esista qualcosa fuori da quell’istante, e non si pensa ad al­tro che a quei gridi. I sentimenti bruciano su di sé, e si consumano muovendo da sé. Una febbre vuole continua­mente sorpassare l’espressione. Raramente si era visto un tale grado d’immedesimazione con la materia vitale… ». Siamo nel cuore del romanticismo che si sta scoprendo, ri­velando a se stesso.

È qui che Il Dottor Zivago si rigira nella sua fodera. Ed è per questo che il romanzo di Pasternàk da anche l’impres­sione d’essere sempre sul punto di « riscriversi » (il che vor­rà dire, naturalmente, ch’esso ci prescrive una seconda let­tura interlineare, o ci nasconde un messaggio). Mentre am­plifica la voce, mentre si esalta nella costruzione di una pic­cola summa metafisica e simbolica che utilizza in realtà tutti i dissoluti materiali romantici, Pasternàk sottrae all’intero sistema il supporto veramente fondamentale: il gran rêve, l’idea che la vita ha senso solo se interiorizzata, acquisita al sentimento, appropriata alla coscienza. È quest’idea che ha sempre promosso il « fare ». Con un travaglio che solleva insieme stalinismo e rivoluzione, « prassi » e « realtà », il dottor Zivago la vomita con furia, quest’idea, e con la sua espulsione la sbornia della « realtà » è finita. Esiste solo la vita. Nello stesso pomeriggio d’estate in cui Jurii Andreievic si trova a discutere con gli amici, egli ci parla anche del suo malanno cardiaco: « È una malattia di questi ultimi tempi. Credo che le cause siano d’ordine morale. Alla gran maggioranza di noi si richiede un’ipocrisia costante, eretta a sistema… Il sistema nervoso non è un vuoto suono, un’in­venzione. È formato di tessuti, la nostra anima occupa un posto nello spazio e sta dentro di noi come i denti nella bocca. Non si può impunemente “violentarla all’infinito. Era penoso per me sentire quello che raccontavi della tua de­portazione, come ti sei maturato e come essa ti ha educato. È come se un cavallo raccontasse come si è addestrato in un circo ».
È interessante osservare come siano proprio gli amici di Zivago, coi loro « discorsi artificiosi e ufficiali », penetrati di « sciocca declamazione », dal « bisogno di giudicare in modo intelligente i grandi temi che si ritenevano obbligatori per tutti » (secondo una polemica messa in bocca a Lara, anticipata, cioè, rispetto al periodo stalinista cui si riferisce), ad accusare Jurii Andreievic di vaghezza, indif­ferenza, apatia disumana. « Che intendi fare? Devi siste­mare i tuoi rapporti. » Le persone « sono esseri umani, che sentono e soffrono, non idee astratte che vagano nella tua testa in arbitrarie associazioni. È vergognoso che un uomo come te vada a fondo così. Devi risvegliarti dall’apatia e dalla pigrizia, orientarti in ciò che ti circonda, occuparti di qualcosa di pratico ». Pacifico invece che la vaghezza di Jurii Andreievic prenda il posto della sola umanità possi­bile nella vacanza di originalità, di prospettiva, di contrasti in un mondo dove tutto è uniformemente falso, terroristi­camente collettivo. Così la vita afferma se stessa e intanto muore, « inchiodata a un punto lontano nello spazio », se­parata da qualsiasi punto di riferimento. La coscienza non se la sente più di « sentire », di reagire, di accompagnare la vita. Se ne stacca, si divide. Il romanticismo è finito. E la vita paga con una passività disumana il diritto di non essere offesa, illanguidisce e muore nel momento in cui ri­fiuta di prestarsi alla nostra presuntuosa chirurgia. Da un dato punto in là, il dottor Zivago non interiorizza più nien­te. Che vivere coincida con la fine dell’appetito interiore, questa è una vera scoperta, una conquista. E con essa quello che ci pareva un personaggio-ombra, ricalcato su altri otto­centeschi e più noti, finch’egli si muoveva tra le pareti domestiche, o fiutava in estasi un persistente, invisibile odore di mandarino, ci diventa improvvisamente fratello, ci appa­re come il solo personaggio positivo che la letteratura del Novecento abbia saputo mettere in piedi.
« Se pensi all’espressione di Blok: “Noi, i figli degli anni terribili della Russia”, vedrai subito la differenza delle epo­che. Quando Blok diceva questo, bisognava intenderlo in senso metaforico, figurato. I figli allora non erano i figli, ma le creature, i prodotti, l’intelligencia; e i terrori non erano terribili, ma provvidenziali, apocalittici, il che è un’al­tra cosa. Ma adesso tutto quel che era metaforico è diven­tato letterale: i figli sono veramente i figli, e i terrori sono terribili, ecco la differenza. »
Sul punto di congedarsi, in polemica con lo stalinismo, Pasternàk ci dice anche qualcosa sulla vera origine del Dot­tor Zivago. Il messaggio sulla differenza delle epoche sor­passa il dominio « sovietico ». Non è proprio esattissimo quello che Citati, poco fa, stava scrivendo, che rispetto al Dottor Zivago « raramente si era visto un tale grado d’immedesimazione con la materia vitale ». È che mai finora la musica della vita aveva coinciso a un tale grado d’incandescente fusione con la propria sostanza letterale, « separata », con la nullità di se stessa. Del resto, in Russia la metafisica presuppone sempre il nichilismo. Questo è il Dottor Zivago. Per la prima volta, a un tratto, l’idolatria della vita ci appare come una religione senza conforti.

(1958)


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2 Comments

  1. Commento by Carlo Capone — 24 Gennaio 2008 @ 12:04

    Grazie Bart, per questo tuo lavoro di riscoperta di saggi critici. Questo di Garboli è una vera sorpresa, forse mi riacconcerò a Zivago con anima diversa.
    Carlo

  2. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 24 Gennaio 2008 @ 12:20

    Grazie, Carlo. Ho già trovato materiale di grande interesse. Sono già in grado di coprire un anno di Maestri, con pubblicazioni ogni 10 giorni. E devo ancora cercare tra moltissimo materiale a disposizione!

    Consiglio i lettori di raccogliere questi saggi, molti dei quali sono introvabili, se non nelle biblioteche.

    Anche la sezione Incipit (grazie all’idea di Felice Muolo) diventerà un caposaldo della rivista. Ho già avuto alcune adesioni.

    Poi ci saranno i vostri articoli (anche i tuoi, da me molto ambiti) ad impreziosire la rivista.

    Mi sto facendo l’idea che non occorre avere tanti collaboratori, alcuni dei quali praticamente invisibili, ma che ne possono bastare pochi e bravi, i quali si appassionino alla rivista come mi ci sto appassionando io.

    Con pochi e bravi affezionati, la rivista è in grado di acquisire e migliorare nel tempo novità e originalità tali da arricchire il web.

    Anche in questo momento sto lavorando per I Maestri, ricercando e leggendo testi.

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