LETTERATURA: I Maestri: Fogli di diario
1 Febbraio 2008
di Alberto Arbasino
[da: “Corriere della Sera”, giovedì 1 febbraio 1968]
Che cosa sarà mai la Letteratura? Sarà affine, in qualche misura, alla Cultura? E allora, la Cultura, che cosa sarà mai?
Queste annose domande rispuntavano confrontando in un recente « Filo diretto» le opinioni di Moravia («le idee e le teorie letterarie sono, in fin dei conti, la cultura», e di Cassola ( «i panni dell’uomo di cultura si addicono molto poco a uno scrittore»).
Cassola cita Croce. Si tratta dello scrittore, dell’uomo di cultura, o di tutt’e due? E a Goethe, Coleridge, Baudelaire, si addicono proprio male, quei panni? E a T. S. Eliot, a Thomas Mann? Nel caso di C. E. Gadda, a quale   « componenente » attribuiremmo le sue straordinarie riuscite narrative? Alla formazione politecniÂca o alle trincee della Grande Guerra, agli studi psicanalitici o alla passione letteraria, al gusto per la Storia o all’umor saturnino?
Lo stesso giorno, nel Sunday Times, Cyril Connolly riesaminava il caso Dos Passos paragonando  tutt’altre opinioni: non meno incompatibili. Tanti anni fa, l’autore di New York anelava alle « grandi panoramiche su tutta la realtà ameicana » e rimproverava chi si dedicava solo ai propri « angolini privati ». «Vuoi andare in malora? – scriveva a Fitzgerald. – Benissimo; ma allora hai il dovere di scriverci sopra un bel romanzo». Passano però pochi anni; e dal narcisismo di Fitzgerald nascevano libri di una grazia incomparabile. Edmund Wilson scriveva invece di New York: «la vita borghese americana, sia pure sotto il capitalismo, non è affatto noiosa come la descrive Dos Passos; anzi, nessuna vita, in nessuna condizione, riuscirebbe mai a diventare noiosa come i suoi libri… ».
Come sembrano lontani, i contrasti ormai storici fra Realtà Oggettiva ed Esperienza Personale; e magari fra Natura e Immaginazione. Remoti, come la Cultura secondo il vecchio Snow: un Giano bifronte, con faccia letteraria e faccia scientifica (mentre si tratta spesso di un Giano con faccia di Cultura e faccia di Non-Cultura). Cultura, per i dizionari, significa attualmente « l’insieme delle nozioni, organicamente apprese, che qualcuno possiede». Cioè, normalmenÂte, un accumulo di esperienze eterogenee: il primo bacio e il Primo Maggio, il Secondo Faust e la seconda colazione, il Terzo Mondo e il tertium non datur. Ogni patrimonio di memorie e d’affetti risulta così assai complesso; e più di una «esperienza vissuta» consiste in un coacervo confuso di natura e cultura: Secondo Impero più Terza Repubblica, Quarta Sponda e Prima moglie (Rebecca)… D’altra parte, Cultura – sempre secondo il Dizionario Garzanti – significa ancora « l’insieme della tradizione e del sapere scientifico, letterario e artistico di un popolo o dell’umanità intera ». Dunque, olÂtre all’Orlando Furioso e alla Forza del Destino, anche l’umile Bela Gigogin, e il campanile romanico « non firmato ».
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In queste discussioni non figura mai (non si sa perché) la vera protagonista. Fra la letteratura nutrita di Scienze Umane, e quella che « viene come viene », cioè, la Rettorica: non nel vecchio senso dispregiativo di sgangherata mozione degli affetti, ma (più correttamente) per ciò che è sempre stata: l’arte di esprimersi in modo appropriato, una somma di norme tecniche per l’uso della letteratura. Dunque, la scienza della letteratura.
Non si capisce davvero. TanÂti eccellenti pittori vengono dileggiati col motto « lo saprebbe fare anche il mio bambino ». Un rimprovero, dunque, sul terreno della sprovvedutezza tecnica. Così viene compatito il cantautore che conosce l’armonia e il contrappunto molto meno di Bach o Pizzetti, e addirittura non sa leggere le note: affida quindi i suoi yé-yé a un travet discografico, diploÂmato al Conservatorio, che glie li sistema sul pentagramma. Perché mai lo scrittore soltanto dovrebbe operare all’oscuro delle tecniche e delle scienze del suo mestiere? Se fosse una capinera in preda soprattutto all’Ispirazione e all’Istinto, allora il miglior romanzo italiaÂno non sarebbe più I promessi sposi, bensì Io che miro il tondo, di Don Backy.
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In tanti paesi allignano i giornalini porno, e la curiosiÂtà che suscitano va dal divertito al blando: « Pornucopia patetica e assurda » secondo il Sunday Times, mentre il London Magazine soffoca a stento le risa.
Ma l’Observer difende seriamente le « minuscole soddiÂsfazioni » dei solitari, degli sfortunati, dei brutti… Solo nella provincia latina la traÂdizionale obesità dei sentimenti sembra funzionare al doppio burro e ai quattro formaggi. Già i giornalini nostrani paiono incomparabili nel genere pecoreccio: cotonature di cemento, salsicciotti di cellulite, certe calzette usate, un lato « signorile » sprizzante zaffate di ragù… Ma l’indignazione pare anche più turgida: fa sommare in una medesima spaghettata oratoria la stizza della nubile e il civismo mal riposto, la predica ai villeggianti, il lisoformio dell’ambulatorio, l’ingordigia refoulée…
Forse una condizione più adulta suggerirebbe altre scelte: interesse per una documentazione incredibile sui costumi prettamente locali. DoÂmanda specifica: I giornalini sado-maso « funzionano » come i film di violenza? incitano all’azione esterna o scaricano le tensioni interne, agevolando il riposo? Si potrebbe (anche) ridere, di fronte a una comicità involontaria spesso così strepitosa.
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