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LETTERATURA: CINEMA: I MAESTRI: Le trote latine (sul Satyricon di Fellini)30 Agosto 2016
di Carlo Laurenzi Molti a buon diritto sono persuasi che Fellini abbia fornito col Satyricon il suo film migliore (a parte alcuni film giovanili). Ed è innegabile che un antico libro più rammentato che letto si giovi di tanta pubblicità: non si esclude che il vero Petronio trovi adesso, grazie a Federico Fellini, qualche lettore sincero. Anche questo, o soprattutto questo, sarebbe un merito. E’ superfluo aggiungere che il Satyricon di Petronio non somiglia molto al Fellini Satyricon. Ma, coscienziosamente, Fellini si è procurato una sorta di cambiale che lo mette al riparo dallo scandalo dei pedanti; l’avallo gli è venuto da Luca Canali, « un romano di quarantaquattro anni, alto, sottile, elegante, con macchina sportiva, che poco corrisponde all’immagine tradizionale del professore di latino », e invece è davvero professore di latino (insegna all’università di Pisa), e ha sentenziato: « Sappiamo tutto sui romani, ma come pensavano realmente, come vivevano, eccetera, no. Perciò è legittimo il tentativo di una libera interpretazione fantastica. Siamo nel campo delle ipotesi: può darsi quindi che la più valida sia proprio quella di Fellini. La grande scienza non si fa senza essere anche poeti, come ha detto Einstein ». * Allora non spariamo sul poeta. Per curiosità, nondimeno, si potrebbe osservare come sarebbe folta la serie dei bersagli offerti al pedante dagli anacronismi e dalle stramberie del film. Né dovremmo tener presente solo il film « visibile » (la sommità dell’iceberg) ma anche ciò che il film implica o, dopo essersene nutrito, elide: la sceneggiatura e il « trattamento », pubblicati in settembre ambedue. Qualche perla? Lasciamo andare. Se si segna in blu il passo di quel vecchio precettore « dall’aria austera, un po’ ottusa » il quale, a bordo della nave di Cesare, « sta leggendo un brano di Tacito », l’imbarazzo ci vince: ci sentiamo simili ad astiosi maestrucoli tronfi della consapevolezza che Petronio è un personaggio delle storie di Tacito, non viceversa; Luca Canali e Federico Fellini sorridono di noi. Come pure, se ci trasferiamo da quella nave (inesistente in Petronio) alla nave di Lica, e ascoltiamo Lica impartire ad Encolpio una lezione pratica di astronomia, attenti a noi! Lica volge gli occhi uno dei quali è di vetro al cielo stellato, tende il dito, enuncia: « …Betelgeuse. L’Alfa del Centauro…». Alt. Betelgeuse è un nome derivato dall’astronomia moresca, secoli e secoli dopo quel viaggio per mare; quanto alle stelle chiamate Alfa — gli astri maggiori di ogni costellazione — l’idea di nominarle così non data che dal Seicento. E con ciò? Osereste rimproverare Giotto e Tiziano perché i loro personaggi, tratti dal mito o dalle scritture, vestono panni trecenteschi o cinquecenteschi? L’arte ha tutti i diritti: filisteo chi li infrange. Senza contare che come afferma Luca Canali la poesia di Federico Fellini, diversamente da quella di Giotto, può aspirare a virtù di grande scienza. Einstein è d’accordo. Buttiamo via la matita blu, sgombriamo il campo in punta di piedi. Una piccola censura, semmai, può essere mossa a Fellini sul terreno che lui stesso ha scelto: quello di « realizzatore » ed esegeta di un certo Satyricon, il suo. In quanto esegeta del proprio Satyricon, è risaputo che Fellini (prima che il film apparisse) ha concesso decine di interviste e partecipato a tavole rotonde. Ha chiarito fondamentalmente due punti, il primo dei quali indicheremo con brevità come punto delle trote: « Poter descrivere la vita degli antichi romani come la vita delle trote; ecco l’ideale. La vita delle trote è ben diversa dalla nostra, ma nessuno pensa che le trote facciano stravaganze ». Questa intenzione sembra presupporre un certo scientismo, al di qua di una scienza misteriosamente raggiunta per il tramite della poesia. In tal caso, un antico romano che guardando il cielo mormori « Betelgeuse » ed « Alpha Centauri », è purtroppo paragonabile a una trota che commetta una stravaganza. L’altro punto è meno bizantino. Il regista, nelle sue numerose tavole rotonde, ha premesso che il film sarebbe stato « fantascientifico » e impenetrabile al nostro giudizio razionale nella misura in cui il mondo di Petronio è chiuso al messaggio cristiano, mentre noi, volenti o nolenti, siamo impregnati di questo messaggio. Della preclusione al messaggio cristiano il film avrebbe dato una totale testimonianza, fino — ripeteva Fellini — ad atteggiarsi come un rapporto da un altro pianeta: « Ho tentato col Satyricon un’impresa davvero suicida. Ho rifiutato tutto ciò che mi aveva finora consolato, cioè il cristianesimo. Ho cercato di rappresentare il mondo romano come una tribù dell’Amazzonia, cioè un mondo sconosciuto, indecifrabile. Ho fatto un salto nel buio, mi sono lasciato alle spalle tutto ciò che era cristiano, ho rischiato in proprio… I critici diranno se sono riuscito almeno in questa liberazione. Io credo di sì… All’inizio è stato terribilmente faticoso, ma poi tutto si è messo a funzionare come volevo. Quando uno acchiappa la nuvola, poi è la nuvola che porta. Satyricon, secondo me, è castissimo proprio per il fatto che gli manca una prospettiva cristiana, un giudizio tradizionale sul peccato… ». Può darsi che Fellini abbia effettivamente acchiappato una nuvola; il suo impegno — il rapporto da un altro pianeta — non è stato mantenuto, e chissà che non sia stato un bene sul piano estetico. Accade in realtà che Fellini Satyricon sia per l’appunto « impregnato » di cristianesimo, anzi di cattolicesimo: il film ha, per esempio, una dimensione sadiana (prima che sadica), e nessuno negherà che, l’atroce Marchese sia concepibile soltanto in un orbe cattolico, quale « frutto putre » e angelo caduto. Il sadismo come algolagnia o voluttà nel dolore è certo precedente a Sade; è una passione o deviazione perenne, e l’ancella Criside in Petronio biasima le matrone quae flagellorum vestigia osculantur: però Fellini o i consiglieri alle spalle di Fellini ricorrono « storicamente » al Marchese, parafrasandone o trascrivendone le parole: « Esseri deboli e incatenati, unicamente destinati ai nostri piaceri, non illudetevi che le libertà che vi concede il mondo vi saranno accordate anche su questa nave. Non aspettatevi che umiliazioni; l’obbedienza è la sola virtù di cui vi consiglio di fare uso. Ricordatevi che ci serviremo di voi come vorremo; nessuno speri di ispirarci pietà. La vostra schiavitù sarà rude, penosa rigorosa. Il minimo errore sarà punito con la morte. Esaminate la vostra situazione: siete già morti al mondo… ». Questa, che cito dal « trattamento » del film, è l’apostrofe di Lica agli ostaggi, derivata pari pari — le frasi sono talvolta le stesse anche se il colore stilistico risulta un po’ meno vigoroso — dall’apostrofe di Blangis ai prigionieri nel castello germanico delle Centoventi giornate. Ci si aspetta che Lica, come Blangis, bestemmi Dio all’improvviso: ma se c’erano matrone nel mondo di Petronio disposte a baciare i solchi delle ferite, non sì pretenderà che costoro agissero in nome di una Weltanschauung blasfema come Lica-Sade. (Verso la fine della favola, poi, il testamento di Eumolpo, grottesco nel Satyricon, viene preso sul serio nel Fellini Satyricon: gli eredi del poeta mangiano veramente le sue spoglie. La tendenza a un simbolismo cristiano si manifesta incresciosa e velleitaria, nel film, e del tutto palese). * E’ così: fra i meriti del film di Fellini, uno dei più sostanziosi sembra proprio consistere nell’invito non dichiarato di rileggere o di conquistare Petronio. Non è questa la sede per insistere sulla vitalità, la potenza, la mestizia, la distaccata e non caduca moralità di quell’autore latino. Ma è auspicabile, di fronte all’infedele e fronzuto almanaccare del technicolor, un’operazione «riduttiva» e raziocinante che abbia per fine l’accostamento corretto al capolavoro. Qualche segno didascalico può venire fissato, con semplicità. Si cominci col leggere la recentissima, energica traduzione del Satyricon di Piero Chiara, edita da Mondadori: non c’è il testo latino; il testamento di Eumolpo è soppresso come « ridondante »; la mano dell’artista è sicura nel tagliare e, con parsimonia, nel- l’arricchire. Subito dopo, si passi alle due ottime versioni, filologicamente più argomentate, di Vincenzo Ciaffì (Utet) e di Marzullo-Bonaria (Zanichelli) , anch’esse tutte moderne. Non si dimentichi infine che le pagine critiche di Auerbach su Petronio, in Mimesis, restano le più affascinanti.
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