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LETTERATURA: CINEMA: I MAESTRI: Sandro De Feo. Sotto le ciglia di Greta Garbo23 Luglio 2015
di Gabriele Baldini Quand’ero ragazzo, attorno ai dieci dodici anni, prima che insorgesse la malizia, il cinema era il solo mio nuÂtrimento: e non solo quello che vedevo — relativamente poco — ma quello di cui leggevo e soprattutto quello che immaginavo. Anche le piĂą refrattarie materie scolastiche — come l’aritmetiÂca e la geometria — si trasformavano in cinema: vedevo danze di isosceli e scaleni processioni di frazioni disposte in fitte schiere: non parliamo poi della storia e della geografia e dei poemi omèrici: tutto era regolarmente ripasÂsato al vaglio d’un interminabile film immaginario dove Achille s’incontraÂva bensì con lo Scamandro — il mio film piĂą appassionante, forse, — ma anche con Porsenna, Muzio Scevola e Cornelia, la madre dei Gracchi; e UlisÂse continuava il suo vagabondaggio, oltre le colonne d’Ercole, nella Pampa e sul cordigliere delle Ande, sulle montagne Rocciose e attraverso il caÂnale di Panama. E il tutto veniva, in qualche modo curioso, come incoragÂgiato dal De Amicis, perchĂ© Telèmaco mi si confondeva, a tratti, col tamburiÂno sardo, Nestore con l’infermiere di Tata ed Ecuba con la vecchia nonna di « Sangue romagnolo ». Tanto si poteva dare soprattutto perchĂ© le scarse occasioni d’andare al cinema, arrotondate ma molte occasioÂni rubate di nascosto, mi si prolungavano in tutto quel che potevo leggere sulla materia. Erano gli anni che il faÂscismo aveva scoperto le straordinarie possibilitĂ di propaganda che offriva il mezzo e i giornali cominciarono a deÂdicare interi paginoni al suo stambureggiamento. Ma la malizia era, se non altro, in agguato, a suggerirmi di non prestar fede a chicchessia: e io m’ero lasciato persuadere a trattenere i giuÂdizi soprattutto di due soli critici: Fiippo Sacchi e Sandro De Feo, a cui, un po’ a distanza tuttavia, aggiunsi piĂą tardi Mario Gromo. Facevano tutt’e tre molto sul serio: ma Gromo forÂse esagerava un poco: finiva con l’esseÂre addirittura pedante, a volte, e col complicare le cose al punto che non si sapeva piĂą come ridurlo a un vero e proprio giudizio dalle mie fameliche facoltĂ bambine.
Le celebrazioni annuali di De Feo
Sacchi e De Feo riuscivano, invece, non solo sempre a persuadere, ma a farlo con urbanitĂ e quella punta di capriccio e di scherzo che insaporiva la lezione. SarĂ stato, un po’, che li coÂnoscevo di persona: ma Sacchi lo veÂdevo raramente nelle brevi puntate autunnali a Milano, quando andavo a passare un quindici giorni da una paÂrente aspettando che s’aprissero le scuole: mi metteva in tasca la sua tesÂsera e tutti i grandi cinematografi del centro erano a mia disposizione; riuÂscivo a vedere dai tre ai quattro film al giorno: era l’epoca della prima DieÂtrich, di Joan Crawford in coppia con Clark Gable, di Herbert Marshall e di Myriam Hopkins, dell’autunno dorato dei fratelli Barrymore, delle ultime operette UFA con Lillian Harvey e Willy Fritsch prima della chiusura naÂzista. Di film italiani se ne vedevano poÂchi, e quei pochi erano schiacciati dal confronto, soprattutto con gli americaÂni: i francesi dovevano ancora aprire la grande stagione — Gabin di lĂ da venire — e degli inglesi non si sentiva nemmeno la puzza. Una volta l’anno scendeva maestosa e gelida imperatriÂce di quella plèiade scintillante Greta Garbo dalle spalle levigate e dalle palÂpebre pesanti di ciglia inverosimili. Le annuali celebrazioni di Greta Garbo riuscivano meglio a De Feo che a Sacchi: questo fece precipitare i miei favori. Ma De Feo, che vedevo pure talvolta, seduto al caffè — un caffè doÂve m’infilavo dietro a mio padre — manteneva un certo distacco; allora avrĂ avuto solo il doppio della mia etĂ : appena venticinque: ma a me paÂreva giungere ministro di una favoloÂsa saggezza: e mi tenevo per molto luÂsingato anche di quel pochissimo spaÂgo che mi dava, e facevo tesoro dalle minime scaglie.
Rifiutò sempre la volgaritĂ
PiĂą tardi, molto piĂą tardi — diciamo addirittura trent’anni piĂą tardi — quando divenimmo amici, mi confessò che non solo io, da ragazzo, ero insopÂportabile, ma che il cinema non lo aveva propriamente mai interessato e che era solo un rifugio per restarsene estraneo, nelle pagine del giornale, da temi piĂą compromettenti. Fu giocoforÂza accettare la prima parte dell’ammissione, ma non mi sono mai deciso a creder proprio vera la seconda. Oggi, che l’amico ha interrotto per sempre la sua cordialissima conversaÂzione con noi, tutti ricordano la sua opera di critico drammatico e letteraÂrio: del tirocinio giovanile di critico ciÂnematografico nessuno parla; eppure proprio di lì, io credo, prese le mosse la sua civiltĂ . Era un momento pericoÂloso: molti valori erano giĂ naufragati e quei pochi che erano ancora in salvo si trovavano a un continuo rischio: la sua educazione umanistica gli faceva tenere il cinema in sospetto, se non proprio in discredito, ma la sua attenÂzione all’accento genuino e alla freÂschezza delle intuizioni, il suo fiuto e rifiuto sicuro per la volgaritĂ e la conÂtraffazione gli suggerirono finirla alloÂra quella misura, quel rigore e insieÂme quella leggerezza che gli rimasero le doti migliori al banco di prova di teÂmi piĂą impegnativi. Ed è da credere che se il viaggio non fosse stato insiÂdioso, non ci si sarebbe messo. Fu un modo di temperare di affinare gli struÂmenti. E tutti hanno potuto vederne i benefici effetti. Letto 1260 volte.

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