LETTERATURA: I MAESTRI: Gli smemorati
14 Maggio 2008
di Arrigo Benedetti
[dal “Corriere della sera”, giovedì 9 novembre 1967]
Ricordo che Benedetti era lucchese e in questo lontano articolo i riferimenti vanno alla sua terra. (bdm)
Mi ci è voluto molto temÂpo poi ho capito: il mio inÂterlocutore non è avaro se bene paia sgomentarsi che la lira gli scivoli di tra le dita e lo turbi sol l’idea d’una ecoÂnomia incline alle grandi cifre, coi biglietti da cinquanÂta e da centomila, di cui è vicina l’emissione.
«Che spreco!» esclama spesso, e tace quasi interroÂgasse se stesso per stabilire la consistenza dell’attuale benesÂsere. Gli piacerebbe accettarlo e fidarsene; forse giunge a sentirlo relativamente sicuro, finché dice: « Come abbiamo fatto presto a dimenticare la miseria ». Ed è come se precisasse: « Gli altri la dimenticano, io no ».
Gli piace ricordare che, almeno in alcune zone della noÂstra provincia, il benessere non è una novità , e che tutÂtavia non è antico quanto si crede generalmente. Conserva l’immagine della miseria inÂtravista nell’infanzia. Il mio interlocutore non appartiene ai ceti tradizionali che s’affidavano alle rendite agricole ormai dissolte. Egli è l’anziaÂno della terza generazione di una vasta famiglia, la cui ricchezza è legata ai rivolgimenti economici poco appariscenÂti e non per ciò meno solidi per i quali, dall’inizio del secolo, chi sia nato nella nostra città e nelle campagne viene ritenuto benestante.
« I contadini per lo più si nutrivano di polenta: polenta di granturco, quelli della piaÂnura; di farina dolce, cioè di castagne sui monti; e, per companatico, una salacca ».
Ormai, l’idea della salacca, che da noi si chiama salacchino, contro cui i contadini delle grosse famiglie – dodici figli vivi era la media – strofinavano la fetta di polenta, ha un che di comico e di inverosimile, come l’altra del pane di  miglio,  dell’olio  di sansa. Mezzogiorno è appena suonato; nei borghi dove oggi vivono gli operai, e nei poÂderi abbandonati le cui case servono  anch’esse  ai  lavoratori dell’industria, si sentono odori gradevoli di cibo. Nessuno dubita che la cucina di questa parte della Toscana – la stessa che gli  osti  immigrati hanno trasferito a Milano, a Roma e altrove – sia d’origine contadina,  testimonianza d’un benessere secolaÂre, o almeno privo d’interruzioni, mentre essa è il residuo d’una remota ricchezza urbaÂna, senza legami con l’attuale. Se mangiano bene oggi, – minestrine di carne o di verdura, intingoli, stufati, arroÂsti, fritti, frittatine, cime di rape e spinaci passati in paÂdella – chi lo sa quali cibi erano sulla tavola dei contaÂdini, nei tempi antichi.
« C’era la fame, invece » afÂferma il mio interlocutore riÂbelle all’ipotesi d’una età dell’oro, lui che non è disposto ad accettare il mito d’un proÂspero passato.
Nelle prime casuali converÂsazioni, mi chiedevo se non alludesse agli ultimi mesi delÂla guerra quando passarono gli eserciti diretti a settentrioÂne. I tedeschi ritirandosi distruggevano i mulini, i franÂtoi, le fabbriche, le centrali della elettricità , del gas, dei telefoni, e tutti i ponti, quelli a tre arcate sul fiume – di cui ne rispettarono uno solo, dell’elettricità , del gas, dei volo per l’ardimento della coÂstruzione – e gli altri sui torÂrenti, sui fossi. Rastrellavano gli uomini: contadini, merÂcanti, medici condotti, divenÂtarono mandriani del bestiaÂme razziato che doveva esseÂre portato verso nord. Il graÂno marciva al sole, gli steli diventati neri si piegavano, le spighe si sfacevano. Sopravvenuti i combattimenti del setÂtembre 1944, i contadini usciÂrono dai nascondigli – canÂtine, sacrestie e caverne, mai avevano supposto ne esistesÂsero – e si misero a vendemÂmiare fra le pattuglie alleate che rastrellavano le SS, senza chinarsi quando udivano sibili di proiettili.
*
Gli americani della V ArÂmata distribuivano roba, le donne gli andavano dietro fino al Tombolo, un deposito di viveri, medicinali, armi, veiÂcoli, calze di nailon, dentro la fitta pineta sul mare. Il saÂbato e la domenica, gli autoÂbus militari percorrevano citÂtà e campagne, gli altoparlanÂti invitavano le donne, le porÂtavano nelle baracche lungo l’Aurelia. Dopo, ricevevano un compenso: sigarette, zucÂchero, caffè, blocchi d’insipiÂdo pane bianco, le pizze col pomodoro, fino ad allora ignoÂrate, la polvere per la mineÂstra e le calze trasparenti. Guarda il ben di Dio che m’hanno dato per un fox trott, dicevano le donne rincasando, e si rivolgevano al marito quando non era disperso in Russia, prigioniero in India, in Africa, in America, deporÂtato in Germania, magari scapÂpato al nord con le brigate nere. In seguito, nacquero biondi, bruni, castani, rossi dalla pelle color latte cosparÂsa d’efelidi, oppure nera, porÂtati, questi, a balia sui monti, da cui discesero appena svanì lo stupore della loro anomalia, ma certi vi sono rimasti.
Quella del ’44 fu un’indigenza effimera, il mio interlocutore pare averla dimenticaÂta, mentre vive in lui la granÂde miseria di fine secolo. InÂconcepibili gli sprechi anche nelle famiglie benestanti, naÂsceva allora l’immagine oggi assurda del bambino che ruba la marmellata e lo zucchero. Il pane era più abbondante del companatico, però concesÂso con parsimonia; la carne poche volte la settimana, bolÂlito per lo più. Di solito, miÂnestre e fagioli, lessi, rifatti, il venerdì la zuppa di cavolo, patate, zucca, boraggine, per utilizzare i tozzi di pane avanÂzato. La domenica, un biscotÂto nel bicchierino di passito. Di lì a pochi anni, quante novità alimentari. I negozi forniti di specialità francesi e inglesi, di prosciutto affumiÂcato tedesco. Il venerdì santo, il salmone fresco che fino al 1914 arrivava dalla Scozia, in ghiaccio per i frequentatori d’una celebre drogheria. Il coÂgnac francese e il whisky di raro consumo, però in vendita. Le donne sedute nei palchi del teatro comunale indossaÂvano toelette confezionate a Firenze. Nelle campagne, si costruivano nuovi edifici, si trebbiava con la macchina a vapore, i piccoli proprietari indossavano cappotti corti con il bavero di pelliccia, si recaÂvano in città col calesse. Una ricchezza improvvisa, non un dono, ma oggi pochi sanno che risale ai nonni, e che è dovuta all’emigrazione.
*
Appena la legge del 1887 aveva permesso il riscatto dei livelli dominicali, i piccoli proprietari poveri della pianura e delle colline, dalla nascita avvezzi a spiegare la miseria, assurda data la fertilità delle terre, con le decime parrocÂchiali – spesso cedute ai priÂvati – fatto un debito per paÂgare il biglietto, si recavano a Le Havre inserendosi nel grande flusso, fra i braccianti della valle padana e del sud, fra i mezzadri toscani e umÂbri che sognavano di guadaÂgnare il tanto necessario per una casa e per un campo, o per il matrimonio delle figlie, oppure per pagare un vecchio debito a cui erano stati coÂstretti quando si erano sposati essi stessi, o per non morire se c’era stata la carestia.
La Rubattino e la Florio non bastavano. Si partiva forÂniti d’un passaporto rosso, spettante agli olivastri europei meridionali, con la Cunard, la White Star, la Transatlantique. Una media italiana di 269.000 partenze fra il 1887 e il 1900, che salì a 626.000 fino al 1913. Per toccare Nuova York, occorrevano settimaÂne, per giungere in California, il « golden state » (dalla corsa verso la frontiera d’oro, deriva l’emozione di cui è inÂtrisa la « Fanciulla del West di Puccini) ci volevano mesi. Il continente era attraversato scendendo fino a Santa Fé. Non funzionava ancora la liÂnea diretta via Salt Lake City. Tanti non arrivavano in AmeÂrica, morivano nelle stive; alÂtri, sulla costa sudamericana, li portava via la febbre gialla, o sparivano nell’interno. Morte  presunta:  quella  di  mio nonno nell’Amazzonia.
« Era difficile quando rimÂpatriavano, convincerli che il dollaro-carta faceva aggio sulÂl’oro. Si presentavano al camÂbiavalute, che spesso aveva fiÂnanziato il viaggio facendoli accompagnare fino all’imbarÂco perché nessuno in Francia li imbrogliasse, coi dollari cuÂciti nella fusciacca di lana. Non conoscevano investimenÂti se non immobiliari, e aveÂvano fretta di riscattare i liÂvelli.
Oggi, nella piazza ombeliÂcale della città , vi sono quatÂtro banche, fornite di numeÂrosi sportelli; altre tre si troÂvano a meno di trenta passi, quattro ancora a pochi minuti.
I risparmiatori sanno leggere i bollettini  delle quotazioni. E se voltano le spalle ai marmi di San Michele, vedono sui tetti le antenne della radio, collegamento con le principali borse italiane.
Il nuovo benessere cancella il ricordo delle miserie pasÂsate. Nella campagna lottizzaÂta, sono in costruzione nuovi quartieri satelliti, nuove fabÂbriche, scuole. Il vino buono? Bevuto sempre, rispondono i contadini, inconsapevolmente bugiardi. La polenta? Piace ogni tanto, una leccornia. Il pane nero? Loro lo vogliono bianco, di fiore, ma è ricercato dai nuovi strani abitanti delle colline, italiani e straÂnieri che leggono, scrivono, dipingono. Le scarpe? Le calÂziamo da secoli, dicono seguiÂtando a mentire. Il denaro per la benzina, per le cene fuori? Ne hanno, e credono d’averÂne avuto. I nuovi benestanti non sospettano d’essere figli, nipoti di miserabili.
La memoria del mio interÂlocutore invece offre una torÂmentosa prospettiva storica. Perché egli ricordi, fra tanti immemori non lo so. Forse, la povertà dell’avo resta un’irrinunciabile idea-forza. Oppure, influisce un senso di colpa, essendo stata la sua famiglia al centro della rivoluzione ecoÂnomica a cavallo fra i due seÂcoli. Si faccia poi conto d’un convincimento: la ricchezza come segno di benevolenza arcana. È probabile, infine, che la pratica degli affari convinÂca il mio interlocutore a diffiÂdare delle apparenze. Conosce le forze che ci sovrastano, sa che una violenza naturale o sociale, ineliminabili entrambe dalla storia la cui linea di sviÂluppo è tortuosa, insidiano la felicità che la maggior parte degli uomini, appena la ragÂgiungono, giudicano un priviÂlegio eterno.
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