|
LETTERATURA: I MAESTRI: Arpino. Il dolore della maturitĂ28 Aprile 2013
di Cesare Garboli GIOVANNI ARPINO Tanto per usare una parola orribile, quella che Giovanni Arpino ci mette sotto gli occhi con La babbuino e alÂtre storie potrebbe definirsi una « galÂleria » di personaggi e situazioni del medio ceto italiano, una mostra di quegli anni in cui ci si guardava in faccia intontiti dal miracolo, sorpresi dall’inattesa violenza della droga. AlÂlineate in fuga sulle pareti del corriÂdoio, si susseguono ventuno composiÂzioni, ciascuna con la data in calce, tra gli estremi del ’58 e del ’67. Uno spaccato della piccola borghesia del Nord — coppie a spasso domenicale sulla macchina nuova, piccoli ingegneÂri « allegri », impiegati di banca in giÂta collettivamente organizzata, ragioÂnieri, medici, geometri — nel punto in cui la sbornia del benessere non era ancora smaltita, la festa non acÂcennava a finire, ma tra i bicchieri roÂvesciati, il fumo, le pietanze abbanÂdonate sul tavolo si poteva giĂ preÂvedere la sporcizia e lo squallore del risveglio, il futuro disgusto mattutino, le stanze in disordine tutte da rifare. C’è un’aria così viziata, in questi racconti di Arpino, un tale ristagno di odori, un tale risentimento, stordimenÂto, una tale accidia incarognita che non si può fare a meno di connettere al cattivo alito della Storia un’ispiraÂzione che insegue, o esprime, il voltaÂstomaco come sottile e nascosta arma di provocazione. Questi racconti sono stati scritti con la bocca amara, ma sottintendono anche una delusione, una confusione psicologica. E qualche puntata tra i contadini del Meridione, dove sotto poveri tetti e tra foglie di tabacco scoppiano tragedie e si conÂsumano omicidi d’onore, come nel racÂconto dal titolo La moglie infedele, o nei quartieri alti, dove dame si agÂgirano in ville assediate dal mistero, accennando passi di danza in giardino e lasciandosi baciare nella penombra dei sottoscala, come nel racconto La stanza buia, non fa che mettere in maggiore e piĂą netto risalto la fonda- mentale monocromia della tematica piccolo-borghese. Si sottrae alla strutÂtura dell’insieme, invece, con forte contrasto, la quarta sezione del libro, che riunisce tre racconti, uno dei quaÂli di gusto cecoviano, gli altri due di ispirazione fantascientifica (favole con una coda morale), e tutti insieÂme inaspettatamente ambientati tra la Russia e i cieli. C’è da pensare che Arpino abbia messo insieme la raccolta senza darle troppo credito, forse senza neppure acÂcorgersi del suo intrinseco aspetto soÂciologico. Del resto questo scrittore, si sa, cammina liberamente per senÂtieri «naturali», crede ancora nelle « storie », presuppone — voglio diÂre — che un racconto si organizzi soÂprattutto intorno a un’invenzione oriÂginaria, a una trovata da sviluppare. Spesso le storie di Arpino, artisticaÂmente pompate, assomigliano a barÂzellette crudeli, appunto a quel tipo di « storie » che in casa di amici, o in salotto, servono da eccitanti per mandare avanti una serata. InvenzioÂni beffarde, al limite del credibile, che risvegliano la veritĂ col disgusto, attraverso procedimenti deformanti in chiave generalmente grottesca.
Scrittore innamorato della storia
Arpino è scrittore capace di ghignaÂre senza che mai si riesca a coglierlo in quella smorfia, il naturalismo gli ha insegnato l’obiettivitĂ , la faccia impassibile quando è sul punto di colÂpire. E come tutti gli scrittori innaÂmorati della « storia » che raccontaÂno, ambienta personaggi e situazioni d’istinto, lascia che il tema cresca su se stesso, lavorandolo meccanicamenÂte, con pazienza artigiana, aggiustando a poco a poco le luci, ritocco su ritocÂco, come farebbe un pittore vecchia maniera, allontanandosi e ritraendosi dalla tela, ogni pennellata un effetto. I suoi quadri sono tutti concreti, tutti compiuti: salva la quota di astrazione che compete a una vocazione spesso pretestuosa, la mano di Arpino è reaÂlistica, addirittura amante della senÂsibilizzazione animalesca del reale, con stilemi del tipo: « semafori-palpeÂbre », « Torino aperta come un ventaÂglio », « tram-insetti brillanti ». A queÂsta disposizione ad animare le cose, a conferire loro vitalitĂ e movimento con una scrittura colorita e gestuale, Arpino si è mantenuto sempre fedele, fin dai suoi inizi. E’ in questa direÂzione che si va definendo una sua « maniera ». E tuttavia c’è qualcosa di equivoco nella vitalitĂ , nella spavalderia arremÂbante del linguaggio di Arpino. Scatti e accensioni della fantasia, la sua estroversione di narratore teso e nerÂvoso, combatte, si direbbe, contro una depressione originaria, contro un’inÂvincibile fiacchezza e mollezza di fonÂdo. Quanta piĂą energia Arpino riverÂsa nelle sue pagine, tanto meno rieÂsce a convincerci della sua natura irÂrompente, impulsiva e felice. Mentre il suo approccio con la realtà è essenÂzialmente visivo, alle sue capacitĂ di sguardo sembra poi negata proprio la freschezza e la forza del vedere e delÂlo scoprire. Mi ha sorpreso un leitÂmotiv, un tic, in questa raccolta di storie: la frequenza e la qualitĂ delÂle lunghe, carezzanti occhiate che i diversi personaggi, quale che sia la loÂro condizione, la loro etĂ , il loro sesso, lasciano cadere su ciò che caÂsualmente s’imbatte nella loro vista, sui mobili di una stanza, sui paesagÂgi in fuga nel riquadro di un finestriÂno, su una massaia in faccende, sulle chiome dei noccioli, su file di fagioli verdi… Questo sguardo è sempre lo stesso, queste creature hanno l’aria, quello che vedono, di averlo giĂ visto cenÂto volte. E’ uno sguardo stracco, di esclusi. E’ lo sguardo di Arpino, ogni volta che lo scrittore, diviso tra impeÂti di rabbia e impulsi di oscena pietĂ , decide di abbandonarsi al piacere di sentirsi deluso. Ma è uno sguardo che lo scrittore, il quale guarda con occhi rientrati, non rivolge alle cose, bensì a se stesso. Non era forse la dissolvenza di un mistero, la storia di una delusione, La suora giovane?
Al meglio negli irritati autoritratti
Insomma Arpino è scrittore introÂverso, che deve avere pronunciato una volta per tutte, nei confronti della viÂta, un « no » remoto, antico, primigeÂnio, e mentre ci ripete le infinite moÂdulazioni della sua negazione e della sua solitudine, nello stesso tempo si ostina a farci credere che egli si muoÂve con disinvoltura tra capricci e sorprese del reale. In altri termini, si direbbe che egli ha scambiato la quaÂlitĂ del suo talento con una virtĂą diÂversa, che non gli appartiene, con il dono, la grazia, la felicitĂ naturale del narrare. Mentre è scrittore diverso, continuamente impicciato con un « io » arrabbiato, « infelice » e intorcinato. Così, almeno in queste composizioni, riesce ,al meglio quando impresta la propria voce a un alter-ego, scrivenÂdo in prima persona e disegnando inÂdirettamente irritati autoritratti: un personaggio còlto in posa, ai margini, a una curva o a un traguardo della vita, che poi è sempre lo stesso, cioè quarant’anni, la perdita dell’adoleÂscenza, la giovinezza degli altri senÂtita come un insulto, come un’ingiuÂstizia villana e umiliante. « Quarant’anni possono anche essere niente, una briciola che ti sparisce tra le diÂta ». Come se, per aviditĂ di vita una volta mangiato voracemente, Arpino non sappia piĂą distinguere tra ritorÂno di voglie e disgusto, tra nausea e ingordigia. « Essere giovani, e non ti manca niente, anche se non sai… ». Tutto sommato, questo mi sembra il motivo piĂą autentico del libro, del reÂsto suonato a chiare note: « Sono inÂfelice, incerto, dolorosamente sorpreÂso dalla maturitĂ , vinto e sconcertaÂto dalla perdita dell’adolescenza ». A parte il suono di queste fungibili voci « reali », che tutte insieme fanno quella di Arpino, per il resto dispiace che lo scrittore si misuri con persoÂnaggi e storie di repertorio. SarĂ che il raccontare artigiano dĂ oggi un’imÂpressione di convenzionalitĂ , di trucÂco a portata di mano, ma questi racÂconti, da qualche parte, tanti e tanti anni fa, li abbiamo tutti giĂ letti. AnÂche quando la finestra del narratore si apre sull’impossibile, e nascono quelle che il risvolto editoriale, con puntuale rilievo tecnico, chiama « stoÂrie stregate » (un gatto che riesce con sforzo disperato e mostruoso a miaÂgolare le sillabe del nome della paÂdrona; la piccola moglie babbuina che scoppia di gelosia perchĂ© il maÂrito, allo zoo, osserva ammirato una gigante femmina di gorilla, « lucida nel pelo nero, dall’occhio violento di catrame »; il nano che vede andarsene in cocci la propria esistenza per il fatto di crescere e diventare normale) si ha l’impressione che a motivare le scelte surreali e subumane di ArpiÂno, nell’ordine del grottesco, sia soÂprattutto la consapevolezza della proÂfonda, diversa « irrealtà » del suo reÂpertorio narrativo. Non sto mica chiedendomi, o forse sì, se sia ancora possibile far « penÂsare » dei personaggi, spiarne gli staÂti d’animo, i riflessi, le variazioni di umore. Ma come si fa a non chiederÂsi se queste storie, la villa con la sua dama misteriosa, la povera vecchia col cane-marito, il bancario con la sua avventura di treno: la vita è queÂsta? No, non lo è, la vita è tutta diÂversa dal « realismo psicologico » di queste storie. Forse Arpino dovrebbe avere il coraggio di rifiutarsi, qualÂche volta, al proprio talento, di riÂbellarsi alla cucina casalinga. E’ vecÂchia storia, ma per essere scrittori biÂsogna dimenticare di esserlo. E’ coÂsì, parrĂ strano, ma è così. Il mestieÂre, quanto c’è di piĂą nobile nell’uomo, non si sa come, è sempre quello che ci danna e che ci corrompe.
Letto 7556 volte.

Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. |
![]() |
|||||||||