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LETTERATURA: I MAESTRI: Immagini sovrapposte20 Settembre 2018
di Roberto Ridolfi Un poggio fiorentino, un ciuffo di cipressi e una grande casa sul cocuzzolo, un’immensa stanza divisa in tante altre da scaffali pieni di libri: in quel labirinto, fra tavoli coperti di fogli scritti e di bozze di stampa, alto, sottile, diritto, coi suoi capelli bianchi, e una mantellina nera d’inverno e d’estate, s’aggirava nonno Luigi. Più segregato dal mondo che un eremita, fatto un po’ misterioso da quella sua solitudine, perpetuamente rinvoltato in scartafacci e libracci gremiti di formule algebriche e di figure geometriche, a me, ma non a me solamente, pareva una specie di mago. Di rado, per fortuna molto di rado, nell’antro del vecchio sapiente s’affacciava timoroso e non molto giulivo il suo nipotino più piccolo. Allora il vecchio alzava il capo dalle carte, gli faceva una mezza carezza, gli diceva una mezza parola, con un mezzo sorriso; ma si capiva che il suo pensiero non s’era levato da quegli scartafacci, da cui s’era di mala voglia levato: a dir poco, lo aveva lasciato lì dentro a fare da segnalibro. E sugli scartafacci era un’altra volta già chino, quando il bambinuccio, zampettando, tra sollevato e deluso, usciva dall’antro cartaceo che pareva scavato nei libri. * Un altro poggio fiorentino, un altro ciuffo di cipressi, una altra casa sul cocuzzolo e, dentro, altre stanze piene di libri. Il poggio è dirimpetto a quello dove visse e morì nonno Luigi, i cipressi sono meno monumentali, la casa è meno grande o piuttosto meno grandiosa di quella. E sono io che ci vivo. Anch’io, chiuso in una solitudine scontrosa e difficile, murato vivo tra queste muraglie di carta, anch’io lontano dal mondo come un romito: dimentico degli uomini e da loro dimenticato. Né ho altra conversazione che questa, diurna e notturna, coi libri; né altra occupazione che questa di lavorar pagine o tormentare le mie sempiterne bozze di stampa. Anch’io, per i contadini del vicinato, quando ancora ce n’erano, figuravo come un simulacro di antico sapiente; si favoleggiava, non saprei dire se con più ammirazione o con più compassione, che io avessi letto o addirittura imparato a memoria tutti i libri che mi empivano la casa, dalla prima all’ultima riga. Anzi, le parole che ho adoperate per nonno Luigi, « una specie di mago », furono dette proprio per me. Ma le disse una bella donna, un giorno che era riuscita a entrare nell’eremo, rompendo la clausura. Le due immagini, simili per aspetti, sempre più vengono a rassomigliarsi col passare degli anni: sovrapposte, già quasi combaciano. Soltanto, come ho detto, in una tutto è un poco rimpicciolito: il poggio, i cipressi, la casa, il vecchio che c’è dentro. Difatti, fra l’altro, nonno Luigi era senatore (che dovrebb’essere una cosa importante), com’era stato prima suo padre e fu poi il suo figliolo primogenito. Io, nipote degenere, no: o le istituzioni son fatte maggiori, o il discendente è senza fallo minore. Ai posteri l’ardua (e oziosa) sentenza. A guardar più nel sottile, poi, quest’altro poggio non è solamente minore, ma più magro, tutt’osso, cioè tutto macigno: ha un che di scabro, d’amaro. Io, che ci vivo e ci scrivo, nello scabro e nell’amaro gli rassomiglio; ho uno spirito tribolato come le piante che tra’ sassi vi stentano. Dirazzo in questo da nonno Luigi; il quale, beato lui, credeva in ciò che faceva, viveva la sua semplice vita, non pativa le complicazioni e le inquietudini che mi tormentano. Saranno stati i tempi paciosi, la dolcezza e la grassezza del suo poggio a fargli le giornate serene; a sera, gli bastava di avere risolto le sue equazioni perché tutto per lui fosse risolto, e poteva andarsene a dormire tranquillo. Il laticlavio idealmente ripiegato in fondo al letto, gli faceva da copripiedi e gli scaldava le vecchie ossa: era l’onesta pensione che lo Stato dava allora a chi, anziché da una cattedra, aveva insegnato dalle pagine dei libri; e ora, poveracci, sono i soli a non averne nessuna. * Eppure, nonostante codeste piccole diversità, le due immagini hanno finito col combaciare. Oggi, su quest’altro poggio, in quest’altro antro, è venuto a trovarmi un mio nipotino. E m’è sembrato che a entrar nella stanza fossi io: io, il bambinuccio di allora, in una di quelle rare visite a nonno Luigi: proprio due immagini sovrapposte. E allora (ero ancora io, oppure era nonno Luigi?) ho dato una manata a tutte quelle carte, alle mie bozze sempiterne, gli sono andato incontro, mi sono seduto in terra con lui accanto a uno scaffale zeppo di venerabili in-folio. E ho fatto quello che avrei voluto avesse fatto, almeno una volta, nonno Luigi: ho preso quei dottissimi tomi e con essi ho cominciato a fabbricare un castello: un po’ come si fa da ragazzi, per gioco, con le carte da gioco. Ma con quei bei volumi, spessi, compatti, pesanti, pesanti come mattoni, c’era più gusto e riusciva tutt’altro lavoro: ho messo prima i più grossi per ritto, badando che fossero della medesima altezza e pressappoco d’uguale spessore; poi, sopr’essi, altri più grandi e più sottili, per piano; e su quel primo ripiano, altri ancora per ritto, a regola d’arte. Ero arrivato al quarto piano, quando il bimbo, fino ad allora attonito, estatico, s’è buttato avanti con le braccine tese e il castello è crollato. Uno scempio, una inaudita profanazione; povera scienza, poveri libri. E pensare che, di solito, quando me ne cade a terra qualcuno, mi par di risentirne in me la percossa; quasi quasi, farei come faceva in quei casi il mio primo editore, il vecchio Leone: raccogliendolo, gli direi a mezza voce: « Oh, scusi! ». Ma oggi nonno Luigi (oppure son io?) s’è cavato di testa le ubbie, s’è tolto quell’armatura di dosso che lo faceva stare così intirizzito e impalato. E’ il tempo nuovo: Primavera dintorno / brilla nell’aria e per li campi esulta. E anche il legno vecchio s’intenerisce, butta sulla scorza ruvida nuovi germogli. Così, nonno Luigi (o sono io?) divenuto alfine quale mi sarebbe piaciuto che fosse, quando andavo da lui, e quale forse anche lui avrebbe voluto essere, ma non poteva. Coi suoi libri, aveva atteso a costruire dentro di sé per tutta la vita un edificio sempre più alto, più alto che aveva potuto: io ho fatto lo stesso, ma a un tratto mi è crollato dentro, proprio come quello costruito poco fa coi dottissimi tomi che giacciono ora ingloriosamente sparsi sopra il tappeto. E allora raccogliamoli ad uno ad uno, ed altri prendiamone dagli scaffali, edifichiamo un castello ancora più alto, mettiamo in una torre babelica tutta questa inutile scienza; e poi, piccolo Niccolò, Piccolo altrimenti chiamato, urtala ancora, rovinala: anzi, diamole addosso insieme io e te, questa volta. Tutta la sapienza umana non vale il sorriso di un bimbo, un germoglio che si schiude, un virgulto che riscoppi sul vecchio legno: questo divino miracolo della vita che sempre si rinnovella.
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