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LETTERATURA: I MAESTRI: La Firenze di Cecchi18 Gennaio 2018
di Indro Montanelli Di Emilio Cecchi, credo che si potrebbe elencare una lunga sfilza di libri mancati. Mancati non perché lui li abbia sbagliati, ma perché non li ha scritti, pur avendoli in corpo dalla prima all’ultima riga. Quello su Firenze, per esempio. Nessuno più di Cecchi ne conosceva il volto. Quanto all’anima, gli sarebbe bastato frugare in quella sua. Hanno quindi fatto bene i suoi figli Suso e Dario a rimediare, riunendo in volume (Emilio Cecchi, Firenze, Mondadori Ed., pagg. 280, Lire 2800) i saggi sparsi da loro padre su questo argomento. Sebbene incompleto, è il più bel ritratto di città che mi sia mai capitato di leggere, il più acuto e penetrante. Non la illumina tutta. Ma i flashes che vi getta sopra sono tali da farci indovinare e capire anche ciò che rimane nell’ombra. Inutile cercare di ricapitolarli. Ricapitolare Cecchi sarebbe come distillare il cognac. Mi limiterò quindi a rendere, per quel che vale, una modestissima testimonianza sui complessi rapporti che correvano fra questo fiorentino e Firenze, e che mi sembrano costituire il motivo ispiratore di queste stupende pagine, il loro sottofondo sentimentale. * Cecchi morì tre anni orsono, proprio di questi giorni. Fece dunque appena in tempo a ignorare l’alluvione che di lì a due mesi doveva devastare la sua città. Spero di non recare oltraggio alla sua memoria dicendo che ne avrebbe sofferto atrocemente, ma con una punta di rabbiosa soddisfazione. Cecchi era in polemica con la Firenze d’oggi. Dai rari e rapidi sopralluoghi che vi faceva, tornava quasi sempre di malumore. Una volta mi disse: « A Firenze bisognerebbe starci come ci stanno gl’inglesi dell’Ottocento: mantenendo le distanze e dandole del lei. Chi le dà del tu e si prende confidenze, come vien fatto a noi che ci siamo nati, prima o poi si trova iscritto nel Libro del Chiodo. Meglio prevenire il bando trasferendosi in una città di apolidi come Roma ». A indignarlo non erano o per lo meno non erano soltanto gli sconci della nuova edilizia. Debbo dire anzi che su questo era abbastanza corrivo. Sbaglierebbe chi lo prendesse per un sofisticato esteta alla Walter Pater col naso a puzzo per tutto ciò che si è fatto da Raffaello in poi. « Che non ci sentano le autorità – diceva, e mi fa piacere queste parole ritrovarle tal quali nel libro -. Ma nulla mi piace come le file di barroccini carichi di tessuti dozzinali, saponette da serve e reggipetti, assiepati intorno alle Cappelle Medicee. Sono incontri più forti dei regolamenti municipali. E mi fanno sempre pensare a quella pendice a sinistra del Partenone e dell’Eretteo, dove sulle casupole di bandone, coi miseri bucati tesi ad asciugare, l’aria eterna lontanamente risuona di grammofoni e del canto dei galli ». A certe contaminazioni dunque ci stava. Ma le voleva di ingredienti autentici. La bottega di robivecchi o lo spaccio di vino incastrati fra una chiesa del Tre e un palazzo del Quattrocento gli andavano benissimo. Ma il grande magazzino all’americana coi suoi lussi e i suoi lustri gli procurava la crisi epatica. Non già per lo sfregio in sé, ma perché gli pareva il sintomo di una perversione più sostanziale e profonda: quella della misura, che per lui era tutto. « Il benessere — mi ricordo di avergli sentito dire — ha anche questa disgrazia: che non solo non si può rifiutarlo, ma bisogna anche benedirlo. E guarda cosa ti combina. Metti a confronto quello che facevano i toscani quando lavoravano nel povero, ch’era la loro seconda natura, con quello che fanno ora che lavorano nel ricco, o almeno nel benestante… ». E masticava il bocchino della pipa con una smorfia da Conte Ugolino. Per questo, lungi dall’auspicare l’imbalsamazione del Tre o del Quattrocento, arrivava comodo comodo fino all’Ottocento sebbene questo secolo sia, per Firenze, minore. Anche se non aveva più primati da difendere, la Firenze di Canapone, del Risorgimento e della prima unità difendeva, se non altro, la sua anima. E con tale puntiglio che non la perse nemmeno negli anni in cui fu capitale. * Quel rango sproporzionato alla suo ossatura non le dette alla testa. Firenze subì qualche batosta edilizia, dovette piegarsi a certi impegni di “rappresentanza” come il rifacimento della facciata del Duomo che non se n’è più riavuta e, da antica qual era, è diventata soltanto vecchia, vecchia come solo riescono a diventarlo le cose rimesse a nuovo; perse il fascino romantico che di suo non ha, ma che gentilmente le avevano prestato certi transfughi del Nord, specialmente inglesi come i Landor e i Browning. Ma la cosa essenziale la salvò: quel senso delle proporzioni, quell’allergia al superfluo, con cui dovette fare i conti anche D’Annunzio, quando venne a acquartierarcisi. Vista dalla Capponcina, Firenze era ai suoi piedi, ma solo in senso topografico. Fu l’unica città che non condivise il culto del Vate e lo lasciò bollire nel suo brodo, cioè a sbrigarsela coi suoi creditori. « Si parla sempre — dice Cecchi — di fiorentino riserbo e cautela, e della fiorentina freddezza e scaltrezza, della fiorentina parsimonia e, perché no?, avarizia e gretteria. Ma cos’altro son esse se non prospettica in atto, percezione del limite che nella sua ostilità e resistenza dà anche un punto d’appoggio e di leva ai contrari? ». * Questo diceva, cioè aveva detto, perché negli ultimi tempi non lo diceva più. Con Firenze aveva cominciato a sdubbiarsi da quando aveva visto le ricostruzioni in atto fra Santa Felicita e Borgo Sant’Jacopo, fra Ponte Santa Trinità e via Por Santa Maria, che lo avevano inferocito più ancora delle distruzioni. « La guerra, si sa, è la guerra, e i tedeschi sono i tedeschi » diceva come parlando di scatenamenti vulcanici, di pazzi furiosi o di bambini irresponsabili dei malestri che compiono, « ma i fiorentini… ». E la stessa reazione di delusione, d’amarezza e di rabbia ritrovo in una pagina di questo libro: « Qualche antico popolo, pieno di civica religione, forse queste rovine le avrebbe serbate intatte, venerandole come memento, come voto. Ma popoli di coteste tempre in realtà non esistono che nei libri per le scuole ». Già. Ma il fatto è che Cecchi, sotto sotto, era convinto che i fiorentini fossero proprio un popolo da libri per le scuole. Non riusciva a perdonargli di non esserlo. Ed è morto covando in corpo questa rabbia. Peccato. Se fosse riuscito a tirare in lungo qualche altro mese e avesse visto cosa questi fiorentini fecero, quando l’Arno li mise con le spalle al muro, con che unghie, con che denti, con che grinta gli contesero non soltanto le loro vite, le loro case e i loro beni, ma anche il loro civico patrimonio; se avesse visto con che amore e abnegazione, prima ancora che le loro macchine e la loro mobilia, si misero a ricercare nella melma frammenti di capitelli, frontoni divelti e incunaboli scompaginati; credo che se ne sarebbe sentito consolato, e forse avrebbe chiesto di rivedere le bozze di questo libro. Ma grandi correzioni, intendiamoci, non avrebbe trovato da farne. Il furore polemico che gli ha ispirato queste pagine perfette resta sottinteso: bisogna possedere un orecchio molto fino per avvertirne, fra le righe, il chioccolio. Cecchi non appartiene alla famiglia, piuttosto consueta e dozzinale, del toscano bestemmiatore e squadrista avanti lettera, tipo Papini. Appartiene a quella più antica e araldica dei Guicciardini che mettono tutto in ghiaccio, prima di servirlo: anche il sangue dei loro nemici. La Firenze attuale, nelle pagine di Cecchi, fa capolino di rado e serve solo di contrappunto a quella di sempre, che egli vede come la continuazione di Atene. Non è stato lui a stabilire questo raffronto. Lo fecero già il Burckhardt, il Wölfflin, e non so quanti altri storici e umanisti. Sicché a molti orecchi suonerà come un luogo comune. * Ma di comune ha ben poco il modo con cui Cecchi lo ricostruisce e trova i punti di convergenza partendo dalle più divergenti e eccentriche notazioni per arrivare alla prova conclusiva di quella consanguineità: che non si esprime, o per lo meno non si esprime soltanto nell’imponenza delle forze creative, nella perfezione tecnica delle opere, e nemmeno in quella che un po’ vagamente si suole chiamare la « vocazione universale » di Atene e di Firenze; ma piuttosto nella stupenda coralità delle due culture, nel fatto che a protagonisti entrambe non avevano dei geni, ma l’agorà, la piazza, e in quel loro particolare carattere che si potrebbe riassumere come il senso rigoroso e inderogabile del rapporto, e quindi la razionale essenzialità di tutto: linee, colori, parole. Lo dico male, lo so. Se lo volete detto meglio, leggete questo libro di Cecchi. Io non posso competere con lui in nulla, neanche in chiarezza, sebbene egli mi facesse l’onore di attribuirmene un po’. Ma quando si deve affondare la penna in certi scandagli che richiedono dosaggi da farmacista e misure da orafo, non c’è prosa che possa sostituirsi alla sua. Ogni volta che ne leggo uno scampolo, devo aspettare una settimana per ritrovare il coraggio e la voglia di cimentarmi con la mia.
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