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LETTERATURA: I MAESTRI: L’alibi della parola25 Aprile 2014
di Carlo Bo Chi osservi con spirito di obbiettività i vari fenomeni della vita sociale non può fare a meno di stabilire un punto comune di convergenza e, cioè, che la parola ha perduto la sua prima qualità di ricognizione del vero per diventare una maschera e trasformarsi nel più comodo degli alibi. Lasciamo subito il problema della letteratura e sopratuttoquello delle sperimentazioni che hanno come principioquello di vanificare e ridicolizzare qualsiasi memoria del verbo. La parola in questi casi non è che una perpetua occasione di divertimento. Prendiamo invece il caso della vita politica dove l’estrema complicazione degli strumenti del linguaggio denuncia esteriormente il bisogno della sincerità e della completezza delle informazioni mentre nella realtà quotidiana si assiste allo spettacolo di un tradimento immediato e contemporaneo alla professione di fede, ai propositi e agli stessi programmi. Quando si sente ripetere fino alla noia che il pubblico non è in grado di comprendere il linguaggio dei politici non c’è nessuna obbiezione da fare, la cosa in sé è più che vera ma non dobbiamo dimenticare che lo scopo primo di tutti questi discorsi complicati è ben diverso: non si tratta infatti di rendere conto della verità ma di nasconderla, se mai ci fosse una verità da difendere. * La parola in tal modo tradita e camuffata ha un’altra funzione che è per l’appunto quella di allontanare, di allargare il fosso della divisione per radicare meglio la pianta del potere individuale. Non si è mai parlato tanto del bene comune e dei doveri che ognuno di noi ha nei confronti della comunità, eppure se si tenta un calcolo finale ci si accorge immediatamente che il bene inseguito è quello di una piccola famiglia e che il meccanismo degli equilibri astratti ha assoluta prevalenza sull’altro del miglioramento e della progressiva riduzione degli squilibri e delle ingiustizie. Si assiste in ultima analisi a un’orgia di parole con potere limitato al momento. Chi volesse misurare o soltanto stabilire un rapporto di forza e di numero fra i discorsi programmatici e quelli finali dei risultati si troverebbe nell’impossibilità di arrivare a una sia pur minima e credibile conclusione. La ragione di tutto questo fenomeno di ebollizione perpetua va cercata così nella mancanza di qualsiasi principio di verità. Non potendo lavorare per una causa, non credendo più intimamente a nulla, ecco che si pone l’altro problema delle giustificazioni e qui si apre una seconda competizione: dimostrare o fingere di voler dimostrare agli altri la propria buona volontà. Al contrario basterebbe un minimo di fede per impedire la serie dei discorsi fatti di pure ipotesi, di dilettazioni culturali: basterebbe avere un’idea concreta per insinuare un dubbio iniziale sulla fiera straordinaria e quotidiana delle parole. Naturalmente la politica non fa che seguire e mettere in pratica una condizione più generale e che ha avuto in altri campi delle prove e delle sperimentazioni ben più gravi e disastrose. Si pensi all’incertezza e alle infinite strade interrotte della filosofia, si pensi al disordine crescente della vita spirituale. Soltanto c’è da registrare una differenza: filosofia e religione hanno aperto in modo clamoroso la crisi delle loro istituzioni mentre la politica finge di trovarsi ancora in un mondo composto e riconoscibile. Filosofia e religione dubitano chiaramente di se stesse e non passa giorno che autorevoli rappresentanti delle due famiglie non facciano delle denunce totali che sfiorano lo scandalo. * La filosofia che ha mangiato se stessa, la religione che decreta la vanità dell’idea di Dio dopo avere discusso sulla morte della verità sono fatti che molti danno per scontati ma così facendo non si fa che giustificare il giuoco delle ipotesi e delle sottili invenzioni. La politica non è ancora arrivata a questo limite e non c’è arrivata perché i suoi problemi sono immediati e dipendono sempre dall’idea di potere. E’ pur vero che anche in questo senso c’è tutta una posizione che sostiene una sorta di rottura totale e invoca delle scelte profetiche, rivoluzioni totali che, a ben guardare, sono altrettante maschere e alibi nei confronti di quelli che sono i problemi stessi della vita comune. Si ha in ultima analisi l’impressione che, in assenza di una fede e privi di mezzi autentici di risoluzione, si sia ritenuto opportuno cedere a una lunga vacanza, al tentativo di gettare in accademia delle questioni che per loro natura non soffrono né divagazioni né dilettazioni. Un osservatore disincantato e freddo potrebbe dire — bisogna pur ammetterlo — che tutto il fenomeno è appena la prima conseguenza di un cedimento totale di quelle che erano le regole di una morale comune, più o meno accettata o tollerata, fino allo scoppio dell’ultima guerra. La lunga fiera delle parole non avrebbe che questa funzione: cercare di nascondere fin dov’è possibile la gravità del naufragio di un certo tipo d’uomo. La politica da questo punto di vista è la parte maggiormente esposta al fallimento e all’incredulità e, ancora, quella sottoposta più di ogni altra all’usura quotidiana del confronto dei fatti. Ma non basta; questo giuocare al buio, questa finzione, questa accettazione dell’alibi non sono appannaggio soltanto dei professionisti ma vengono più o meno liberamente condivisi dalla massa. Le elezioni funzionano, nonostante tutto una minima parte di speranza viene riservata alle risposte delle urne mentre sul fondo delle coscienze resta il dubbio che nulla muterà e che la sola salvezza verrà da un miracolo, da « qualcosa che non sappiamo ». Ecco un’altra contraddizione fragorosa fra la precisione tecnica dei programmi e l’attesa della comunità basata su un atto miracoloso, su un intervento di natura non umana. Né sembri da trascurare un altro particolare, vale a dire il contrasto fra le luci apocalittiche di certe diagnosi e il tran-tran quotidiano delle piccole soluzioni. C’è un’enorme letteratura che per comodità viene classificata col nome del « maggio francese », ci sono ormai degli archivi ricchissimi di questa letteratura rivoluzionaria ma, a ben guardare, fanno parte dello stesso scaffale delle finte programmazioni. Cambia il registro, è diverso lo strumento ma fra chi predica la rivoluzione e chi sostiene le riforme non c’è poi troppa differenza: nella maggior parte dei casi abbiamo a che fare con gente che non crede fino in fondo a quello che dice. Da una parte c’è il ricorso all’alibi delle parole, dall’altra c’è il quadro dei problemi concreti. Questo spiega anche perché ben raramente si abbia il caso di gente che metta in pratica le proprie idee, perché nessuno si senta moralmente obbligato a rendere diretta testimonianza della propria verità. La verità è stata sostituita da un’altra idea, quella dell’opportunità. E per questo c’è una valida giustificazione, la vittoria dell’irrazionale sul razionale, di ciò che ci viene dal di fuori su ciò che sta dentro di noi. * Chi sappia guardare fino in fondo nel proprio cuore finirà col fare una ben dolorosa constatazione: quando non si crede più in nulla, quando ci si sia abituati al perpetuo franare delle proprie opinioni sarebbe ridicolo puntare sui tempi lunghi, così come sarebbe inutile fare dei sacrifici o pagare di persona. Tutte cose che appartengono a un codice da troppo tempo scaduto e che nessuno ha più il coraggio di proporre. Resta il problema vero che è poi quello che nessuno pone più: il fallimento dell’uomo e il segreto, non confessabile bisogno di fare riferimento a qualcosa che ci superi e stia più in alto di noi. Fatto il deserto di ogni ragione spirituale, resta un simulacro d’uomo, assetato di verità. Resta questo fiume infinito di parole, questo ricchissimo mercato di pretesti quotidiani, di offerte da consumare subito e soprattutto rimane la questione del valore da dare alle nostre parole. Questione che fatalmente ne trascina un’altra: la parola può essere dell’uomo o parola e silenzio sono soltanto di Dio? A questa domanda tenta di rispondere un professore di letteratura ebraica dell’università di Strasburgo in un libro pieno di suggestioni (André Neher, L’exit de la parole, Du silence biblique au silence de Auschwitz, nelle edizioni del Seuil). La Bibbia viene presentata con una nuova visione non più soltanto come il libro della Parola ma anche come il libro del Silenzio. Il silenzio, questa categoria abolita dalle nostre abitudini, sarebbe inoltre il punto d’arrivo, il « regno autentico del Verbo ». Proviamo a tener presente questa guida, ogni volta che ci tocchi di analizzare la crudele dittatura delle parole umane, l’arbitrio e l’alibi dei nostri discorsi e si avrà la riprova che il più delle volte, se non tutte, noi ci serviamo delle parole per nasconderci, per impedire la presenza di Dio, per metterci la maschera che ci liberi dal dovere e dalle responsabilità. Letto 1216 volte.
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