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LETTERATURA: I MAESTRI: L’alibi della parola

25 Aprile 2014

di Carlo Bo
[dal “Corriere della Sera”, venerdì 31 luglio 1970]

Chi osservi con spirito di obbiettività i vari fenomeni della vita sociale non può fa­re a meno di stabilire un pun­to comune di convergenza e, cioè,

che la parola ha perdu­to la sua prima qualità di ri­cognizione del vero per diven­tare una maschera e trasfor­marsi nel più comodo degli alibi.

Lasciamo subito il problema della letteratura e sopratuttoquello delle sperimentazioni che hanno come principioquello di vanificare e ridicolizzare qualsiasi memoria del verbo. La parola in questi casi non è che una perpe­tua occasione di divertimento. Prendiamo invece il caso della vita politica dove l’estrema complicazione degli strumenti del linguaggio denuncia esteriormente il bisogno della sincerità e della completezza del­le informazioni mentre nella realtà quotidiana si assiste al­lo spettacolo di un tradimen­to immediato e contempora­neo alla professione di fede, ai propositi e agli stessi pro­grammi. Quando si sente ri­petere fino alla noia che il pubblico non è in grado di comprendere il linguaggio dei politici non c’è nessuna obbie­zione da fare, la cosa in sé è più che vera ma non dobbiamo dimenticare che lo scopo primo di tutti questi discorsi complicati è ben diverso: non si tratta infatti di rendere con­to della verità ma di nascon­derla, se mai ci fosse una ve­rità da difendere.

*

La parola in tal modo tra­dita e camuffata ha un’altra funzione che è per l’appunto quella di allontanare, di allar­gare il fosso della divisione per radicare meglio la pianta del potere individuale. Non si è mai parlato tanto del bene comune e dei doveri che ognu­no di noi ha nei confronti del­la comunità, eppure se si ten­ta un calcolo finale ci si ac­corge immediatamente che il bene inseguito è quello di una piccola famiglia e che il mec­canismo degli equilibri astrat­ti ha assoluta prevalenza sul­l’altro del miglioramento e della progressiva riduzione de­gli squilibri e delle ingiustizie. Si assiste in ultima analisi a un’orgia di parole con potere limitato al momento. Chi vo­lesse misurare o soltanto sta­bilire un rapporto di forza e di numero fra i discorsi programmatici e quelli finali dei risultati si troverebbe nell’im­possibilità di arrivare a una sia pur minima e credibile con­clusione.

La ragione di tutto questo fenomeno di ebollizione perpetua va cercata così nella man­canza di qualsiasi principio di verità. Non potendo lavorare per una causa, non credendo più intimamente a nulla, ecco che si pone l’altro problema delle giustificazioni e qui si apre una seconda competizio­ne: dimostrare o fingere di vo­ler dimostrare agli altri la pro­pria buona volontà. Al contra­rio basterebbe un minimo di fede per impedire la serie dei discorsi fatti di pure ipotesi, di dilettazioni culturali: baste­rebbe avere un’idea concreta per insinuare un dubbio inizia­le sulla fiera straordinaria e quotidiana delle parole.

Naturalmente la politica non fa che seguire e mettere in pratica una condizione più ge­nerale e che ha avuto in altri campi delle prove e delle spe­rimentazioni ben più gravi e disastrose. Si pensi all’incer­tezza e alle infinite strade in­terrotte della filosofia, si pensi al disordine crescente della vi­ta spirituale. Soltanto c’è da registrare una differenza: fi­losofia e religione hanno aper­to in modo clamoroso la crisi delle loro istituzioni mentre la politica finge di trovarsi anco­ra in un mondo composto e ri­conoscibile. Filosofia e religio­ne dubitano chiaramente di se stesse e non passa giorno che autorevoli rappresentanti del­le due famiglie non facciano delle denunce totali che sfio­rano lo scandalo.

*

La filosofia che ha mangia­to se stessa, la religione che decreta la vanità dell’idea di Dio dopo avere discusso sul­la morte della verità sono fat­ti che molti danno per sconta­ti ma così facendo non si fa che giustificare il giuoco delle ipotesi e delle sottili invenzio­ni. La politica non è ancora arrivata a questo limite e non c’è arrivata perché i suoi pro­blemi sono immediati e dipen­dono sempre dall’idea di po­tere. E’ pur vero che anche in questo senso c’è tutta una po­sizione che sostiene una sorta di rottura totale e invoca del­le scelte profetiche, rivoluzioni totali che, a ben guardare, so­no altrettante maschere e alibi nei confronti di quelli che so­no i problemi stessi della vita comune.

Si ha in ultima analisi l’im­pressione che, in assenza di una fede e privi di mezzi au­tentici di risoluzione, si sia ritenuto opportuno cedere a una lunga vacanza, al tentativo di gettare in accademia delle questioni che per loro natura non soffrono né divagazioni né di­lettazioni. Un osservatore disincantato e freddo potrebbe dire — bisogna pur ammetter­lo — che tutto il fenomeno è appena la prima conseguenza di un cedimento totale di quel­le che erano le regole di una morale comune, più o meno accettata o tollerata, fino allo scoppio dell’ultima guerra. La lunga fiera delle parole non avrebbe che questa fun­zione: cercare di nascondere fin dov’è possibile la gravità del naufragio di un certo tipo d’uomo. La politica da questo punto di vista è la parte mag­giormente esposta al fallimen­to e all’incredulità e, ancora, quella sottoposta più di ogni altra all’usura quotidiana del confronto dei fatti.

Ma non basta; questo giuocare al buio, questa finzione, questa accettazione dell’alibi non sono appannaggio soltan­to dei professionisti ma ven­gono più o meno liberamente condivisi dalla massa. Le ele­zioni funzionano, nonostante tutto una minima parte di spe­ranza viene riservata alle ri­sposte delle urne mentre sul fondo delle coscienze resta il dubbio che nulla muterà e che la sola salvezza verrà da un miracolo, da « qualcosa che non sappiamo ». Ecco un’al­tra contraddizione fragorosa fra la precisione tecnica dei programmi e l’attesa della co­munità basata su un atto mi­racoloso, su un intervento di natura non umana.

Né sembri da trascurare un altro particolare, vale a dire il contrasto fra le luci apoca­littiche di certe diagnosi e il tran-tran quotidiano delle pic­cole soluzioni. C’è un’enorme letteratura che per comodità viene classificata col nome del « maggio francese », ci sono ormai degli archivi ricchissimi di questa letteratura rivoluzio­naria ma, a ben guardare, fan­no parte dello stesso scaffale delle finte programmazioni. Cambia il registro, è diverso lo strumento ma fra chi predica la rivoluzione e chi sostiene le riforme non c’è poi troppa dif­ferenza: nella maggior parte dei casi abbiamo a che fare con gente che non crede fino in fondo a quello che dice. Da una parte c’è il ricorso all’ali­bi delle parole, dall’altra c’è il quadro dei problemi concreti. Questo spiega anche perché ben raramente si abbia il caso di gente che metta in pratica le proprie idee, perché nessu­no si senta moralmente obbli­gato a rendere diretta testimo­nianza della propria verità. La verità è stata sostituita da un’altra idea, quella dell’op­portunità. E per questo c’è una valida giustificazione, la vittoria dell’irrazionale sul ra­zionale, di ciò che ci viene dal di fuori su ciò che sta dentro di noi.

*

Chi sappia guardare fino in fondo nel proprio cuore finirà col fare una ben dolorosa con­statazione: quando non si cre­de più in nulla, quando ci si sia abituati al perpetuo frana­re delle proprie opinioni sa­rebbe ridicolo puntare sui tem­pi lunghi, così come sarebbe inutile fare dei sacrifici o pa­gare di persona. Tutte cose che appartengono a un codice da troppo tempo scaduto e che nessuno ha più il coraggio di proporre.

Resta il problema vero che è poi quello che nessuno pone più: il fallimento dell’uomo e il segreto, non confessabile bi­sogno di fare riferimento a qualcosa che ci superi e stia più in alto di noi. Fatto il de­serto di ogni ragione spiritua­le, resta un simulacro d’uomo, assetato di verità.

Resta questo fiume infinito di parole, questo ricchissimo mercato di pretesti quotidiani, di offerte da consumare subi­to e soprattutto rimane la que­stione del valore da dare alle nostre parole. Questione che fatalmente ne trascina un’al­tra: la parola può essere del­l’uomo o parola e silenzio sono soltanto di Dio?

A questa domanda tenta di rispondere un professore di letteratura ebraica dell’univer­sità di Strasburgo in un libro pieno di suggestioni (André Neher, L’exit de la parole, Du silence biblique au silence de Auschwitz, nelle edizioni del Seuil). La Bibbia viene pre­sentata con una nuova visio­ne non più soltanto come il li­bro della Parola ma anche co­me il libro del Silenzio. Il si­lenzio, questa categoria aboli­ta dalle nostre abitudini, sareb­be inoltre il punto d’arrivo, il « regno autentico del Verbo ». Proviamo a tener presente questa guida, ogni volta che ci tocchi di analizzare la crudele dittatura delle parole umane, l’arbitrio e l’alibi dei nostri discorsi e si avrà la riprova che il più delle volte, se non tutte, noi ci serviamo delle pa­role per nasconderci, per im­pedire la presenza di Dio, per metterci la maschera che ci li­beri dal dovere e dalle respon­sabilità.


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