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LETTERATURA: I MAESTRI: Ricordo di Giovanni Ansaldo13 Gennaio 2018
di Indro Montanelli Se è vero che ci sono delle morti liberatorie, quella di Ansaldo lo è. Mi chiedo che martirio deve essere stato, per quest’uomo massiccio e orgoglioso, l’inesorabile decadimento fisico e intellettuale che il morbo di Parkinson gl’infliggeva. Più che soffrirne, Ansaldo se ne vergognava, e gli ultimi anni li ha vissuti da sepolto vivo, rifiutando anche le visite degli amici più cari. Non voleva essere compatito, e per oltre mille giorni e mille notti ha seguitato a morire in silenzio e da solo: una fine del tutto in carattere col suo carattere. Il personaggio era di tale qualità da esimerci da epitaffi convenzionali. L’unico omaggio che possiamo rendergli è quello di una spassionata testimonianza al di fuori delle polemiche di cui egli fu per tutta la vita il provocatore e l’oggetto. Perché Ansaldo è stato una delle più grandi figure del giornalismo di tutt’i tempi, e non soltanto italiano; ma anche delle più controverse. Ha avuto molte facce, che forse erano solo delle maschere. Per sapere cosa ci fosse sotto, sarebbe occorso penetrare nella sua intimità, di cui egli ha tenuto le porte sbarrate a tutti, compresi — credo — la moglie e i figli. Il cliché a cui è sempre rimasto più o meno fedele è quello del grande borghese ottocentesco, di cui ricalcava scrupolosamente i modi e anche i difetti. Vestiva abiti scuri e tagliati male, portava il panciotto e il colletto duro anche d’estate, e non ricordo di averlo mai visto senza il cappello e la mazza. Alto e quadrato come un armadio, portava a spasso se stesso come il proprio monumento. Eravamo in pochi a dargli del tu, e sempre lo pronunciavamo come se fosse un lei. Non era bello da vedersi, con quella nuca da campione di lotta libera, e la bocca a squarcio coi denti disposti in linea orizzontale come quelli dei pescecani. Spesso il primo approccio non era gradevole: restava distante, ammantato di diffidenza e di sarcasmo. Solo a tavola si scioglieva, ammansito dal piacere del cibo e del vino perché era un mangiatore e bevitore gagliardo: e allora quella brutta bocca si trasformava in una cateratta di deliziose e sorprendenti battute, di eleganti aneddoti, di paradossi sfolgoranti che testimoniavano, oltre tutto, una cultura storica e letteraria di alta qualità. * Dai primi contatti si ritraeva l’impressione di un totale e assoluto cinismo di stampo guicciardiniano, riscattato soltanto — e non bastava — da un’intelligenza lucida e vigile. E quest’impressione è diventata il definitivo giudizio di molti. Egli stesso la suggeriva, e non si stancava di fornirle pretesti per rafforzarla, anche quando il rapporto si tramutava in amicizia: un sentimento cui si abbandonava di rado, e mai interamente. Conservo alcune sue lettere che, se le pubblicassi, potrebbero fornire materia per istruirgli un processo post mortem. Mi scriveva spesso, su dorsi di buste incollati insieme, per sottolineare la sua avarizia, ch’egli considerava una delle virtù teologali del vero borghese; e Dio sa dove ne trovasse il tempo, con tutti gli articoli che sfornava giornalmente. Scriveva a penna con una calligrafia bellissima, ma illeggibile. E non mi nascondeva la sua riprovazione perché gli rispondevo a macchina. Lo trovava inurbano, disdicevole al mio decoro e al suo. Mi dicono ch’era così anche a vent’anni, e anzi mi hanno raccontato una storia che, anche se non è vera, gli somiglia, e quindi è comunque degna di essere creduta. In un caffè di Genova, dove usava sostare a bere il « cappuccino », vide a più riprese una ragazza che gli piacque e a cui finì per interessarsi. Ma non glielo disse, e nemmeno glielo dimostrò. Discretamente la seguì, s’informò, venne a sapere come si chiamava e dove abitava. E alla fine si rivolse al parroco del rione incaricandolo di parlare al padre della ragazza. Il padre accettò un colloquio con Ansaldo. E questi rivolse la parola alla sua futura sposa solo dopo averle infilato nel dito l’anello di fidanzamento. Non gliene ho mai chiesto conferma perché con lui certi discorsi non si potevano nemmeno intavolare. Ma varie volte mi ha ripetuto che l’amore è una di quelle cose che una persona seria può anche fare, ma di cui non può né deve discorrere nemmeno col suo oggetto. * Aveva debuttato al Lavoro di Genova, un quotidiano provinciale che solo grazie ai suoi articoli acquistò un rango nazionale. E fu la sua epoca d’oro. Con lo pseudonimo di « Stellanera », Ansaldo seguitò a combattere il fascismo anche dopo la marcia su Roma. Era rimasto l’ultima voce dell’opposizione, e fino al delitto Matteotti seguitò a mordere, deridere, corbellare il regime con un coraggio, un brio, una rigorosità di argomentazione, uno sfavillìo di trovate che incutevano rispetto anche ai più truculenti squadristi. Smobilitò solo quando lo sbatacchiarono al confino. E qui riferisco la sua versione, dolente di non poterne riprodurre anche l’accento genovese: « Era un martirio all’italiana, il confino. Vitto e alloggio gratis, e anche un piccolo stipendio per compensarci della fatica di parlar male del duce che non ce ne lesinava i pretesti. Io mi ci sarei trovato benissimo, se non fosse stato pieno di antifascisti. Li sopportai per alcuni mesi. Poi un giorno li adunai e gli dissi che, ora che li avevo conosciuti, non mi restava che rivolgere domanda di grazia al fascismo e mettermi ai suoi ordini ». Non so se andò proprio così. Comunque, a adoprarsi a per la sua liberazione fu Ciano che gli ottenne il condono e gli affidò la direzione del suo giornale, II Telegrafo di Livorno. Ancora una volta la modestia del quotidiano, non impedì ai suoi articoli di acquistare risonanza nazionale, anche perché Ciano diventò poco dopo ministro degli esteri, e si supponeva che quegli articoli fossero ispirati da lui. Ma debbo dire che Ansaldo non fu mai il servo sciocco del suo benefattore finché fu vivo e potente, né il suo traditore quando decadde e morì. Ne seguiva le direttive, ne parlava con rispetto, ma non gli permise mai di accorciare le distanze e di dargli del tu, come usavano i gerarchi coi loro subordinati. E dopo la liberazione, quando gli affidarono Il Mattino di Napoli, fece inserire nel contratto una clausola che esplicitamente lo esentava dal dovere di denigrare il defunto regime, e specialmente Ciano. * Sul finire della guerra, fui addirittura sbalordito quando seppi che aveva accettato di tenere alla radio una rubrica di smaccata propaganda bellicista intitolata « Cronache del regime ». Ansaldo aveva previsto la disfatta prima ancora che la guerra fosse dichiarata e era stato fra coloro che più avevano spinto Ciano a cercare d’impedirla. Ora non capivo perché si esponesse a quel modo, accettando un incarico che lo qualificava come oltranzista agli occhi, cioè agli orecchi di tutti. E corsi a Livorno apposta per chiederglielo. Mi rispose asciutto: « Per conservare un po’ di rispetto di me stesso ». E cambiò discorso. Forse fu per sottrarsi a una scelta troppo difficile che poco prima del 25 luglio si fece richiamare alle armi come colonnello, giusto in tempo per farsi arrestare dai tedeschi e deportare in Polonia. E quando dopo due anni rientrò, ad attenderlo al Brennero trovò la polizia di Parri. Longanesi ed io dovemmo lavorare mesi e mesi, con l’aiuto di Paolo Rossi, per farlo liberare. Così Ansaldo aveva chiuso la parabola del ventennio con tre prigioni: quella fascista, quella tedesca e quella antifascista. La sua intelligenza gli era servita solo a sbagliare regolarmente tutte le « entrate ». Si ritirò in una casetta di campagna che aveva a Pescia, e fu per lui una buona stagione, la migliore dopo i tempi del Lavoro. Sotto la regia di Longanesi scrisse Il vero signore e Il ministro della buona vita, le sue cose più belle. E chissà quante altre avrebbe potuto darcene, se fosse rimasto lì a fare il Sainte-Beuve dell’Italia giolittiana, com’era nella sua vera vocazione e nei suoi mezzi. Ma quando gli offrirono II Mattino, malgrado le nostre esortazioni non resistette; e fece male. Ansaldo è sempre stato un cattivo direttore: concepiva il giornale solo come una cornice dei suoi articoli, nei quali regolarmente lo affogava. Ma di questo appunto aveva bisogno: di un giornale da inondare. Eppoi gli piaceva il titolo e l’autorità, sebbene non se ne sia mai servito per i suoi personali interessi: questo cinico intriso di avarizia non ha mai preso una « bustarella » ed è morto povero. Credevamo che a Napoli sarebbe naufragato. Invece ci s’inserì benissimo, forse perché quella è l’ultima città italiana che ancora consenta di diventare un « personaggio » a chiunque ne abbia la stoffa, e ad Ansaldo ne avanzava. Piacque la sua imponente e autorevole figura di « notabile » umbertino. Piacque la sua socievolezza, la sua convivialità, la sua brillante aneddotica, cui l’ambiente fornì ampio materiale per rinnovarsi. Piacque la sua prosa, forse più che per i suoi pregi per i suoi difetti, cioè per quegli svolazzi che arieggiavano Scarfoglio. Ma piacque soprattutto il suo atteggiamento di scetticismo e di sfiducia verso tutti e tutto, quel suo concepire l’Italia come un Paese destinato a fare solo da palcoscenico di una eterna pantomima, in cui Pulcinella, che si travestisse da totalitario o da democratico, restava sempre Pulcinella. * Era sincero? Credo che non lo sapesse nemmeno lui. Ansaldo aveva bisogno di non credere in nulla, perché solo così poteva in qualche modo giustificare la sua conversione al fascismo. Nel Paese di Pulcinella l’impegno ideologico non ha senso: l’unico regime che gli convenga è quello autoritario e poliziesco corretto dalle « raccomandazioni », com’era stato appunto quello di Mussolini: retorico e pagliaccesco, ma a misura di un’Italia che non ne meritava di migliori. E si capisce che se le cose stavano così, aveva avuto ragione lui ad abbandonare la lotta per la libertà e la democrazia. Ma sebbene sostenesse la sua parte da grande attore, mi è sempre rimasto il dubbio che in fondo a lui covasse il rimpianto di « Stellanera », del polemista battagliero, del moralista rigoroso e inflessibile nella difesa di certi valori. Anche lui sentiva che, se lo fosse rimasto, Dio sa che libri e pamphlets avrebbe potuto darci. E cercava di consolarsene ripetendosi e ripetendoci che in un Paese come il nostro non ne valeva la pena. Era in fondo un personaggio patetico, molto migliore della sua maschera di cinico. Ma possiamo dirlo solo ora che la morte gliel’ha tolta dal viso.
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