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LETTERATURA: I MAESTRI: Ricordo di Lucio Piccolo19 Novembre 2012
di Alfredo Todisco Ho conosciuto Lucio Piccolo nella sua antica casa di Capo d’Orlando che, seminascosta fra giardini di arancio, domina dall’alto di un poggio solitario una splendida vista sul mare. Lo stesso mare che, poco lontano, bagna Tindari, che una nostalgica poesia di Quasimodo ha introdotto nel panorama della nostra poesia. « Tindari / mite ti so pensile sull’acque… ». Anche la casa di Lucio Piccolo è pensile sulle onde e anch’essa ha un posto nella nostra letteratura. Perché vi ha abitato e vi ha distillato i suoi versi raffinati e insieme carichi di odori terrestri il poeta ora scomparso; ma anche perché in quelle stanze remote e come sospese fuori dal tempo, Tornasi di Lampedusa, suo cugino primo, amava ritirarsi a lavorare sulle pagine del Gattopardo. Arrivai a Capo d’Orlando nell’inverno del ’63. Un inverno freddissimo. Mi accompagnava Vincenzo Tusa, che di tutti i soprintendenti che ho conosciuto è il più intelligente e cordiale, il quale ha tra l’altro il merito di recuperare, quando può, gli scavatori di frodo delle tombe di Selinunte e di trasformarli in guardiani. Quella mattina spirava il freddo del sud, solo in apparenza moderato, ma che pian piano entra nelle ossa per restarci. Il barone Lucio Piccolo di Calanovella accogliendoci sull’uscio ci fece entrare in una grande stanza al piano terra, del tutto sprovvista anche del minimo sentore di riscaldamento. La temperatura era da cella frigorifera. Il freddo degli ambienti interni sembra, si sa, anche più sconfortevole; ma ciò che fra quelle storiche pareti aggiungeva all’impressione di gelo era l’atmosfera da museo che vi dominava. Tutti gli arredi, dai divani rapés ai quadri di famiglia, alle panoplie appese alle pareti, alla profusione di piatti ispano-arabi allineati nelle teche (forse la raccolta più preziosa in mani private, che mandava in visibilio Vincenzo Tusa) avevano l’aria di discendere giù dai secoli. Parlavano di un mondo scomparso, in cui il suo abitatore dava l’impressione di viverci da contemporaneo. Allora sessantenne, magro, minuto, il disegno araldico del viso, Piccolo indossava un abito estivo, portava intorno al collo un foulard di seta col nodo che emergeva a jabot di sotto alla camicia aperta, che gli dava l’aria un po’ noncurante del signore di campagna. Ci sedemmo a conversare. Vincenzo Tusa che è siciliano e anche ben portante, reggeva il freddo con una certa longanimità in cui si mescolava anche il rispetto del figlio della campagna per il blasone. Io invece, abituato al surriscaldamento di Milano, avevo le labbra blu e le membra percorse da un leggero ma persistente tremito. Il mio ospite, che si muoveva a suo agio come fossimo stati in un delizioso tepidario, sembrava divertirsi allo spettacolo di un allobrogo che nel cuore del meridione sembrava più a disagio che se si fosse trattato del Polo nord. Ci sedemmo a parlare in un angolo, e il discorso girò intorno a quel tanto di destino comune che ha certamente legato Piccolo e Lampedusa. I quali, oltre che dal sangue, furono anche uniti dai loro interessi interiori. Simili e diversi, entrambi amavano i libri, le arti, la vita aristocraticamente appartata negli angoli della loro terra in cui affondavano più profondamente le loro radici. Sempre tentati di scrivere, ma sempre trattenuti dalla pigrizia, dal pudore e da un senso critico che nel loro animo sofisticato si tramutava nel gusto anche un po’ snobistico di distruggersi e di distruggere l’altro. E le rare volte che si scambiavano le loro carte con la speranza d’essere assolti, essi erano tratti quasi irresistibilmente a farsi censori affilatissimi l’uno dell’altro. Col volgere del tempo, questo reciproco persiflage finì a tramutarsi, tuttavia, in un mutuo stimolo. Quando Piccolo compose i suoi Canti barocchi, Lampedusa, toccato dalla magia di quei versi intessuti di echi e di risonanza della loro isola, mise da parte l’ironia e li mandò a Eugenio Montale il quale a sua volta conquistato da quel frutto così insolito e saporoso aiutò l’oscuro poeta di provincia a entrare di pieno diritto nella repubblica delle lettere. E quando nel 1954, i Canti barocchi furono presentati ad un convegno a San Pellegrino e Piccolo si portò dietro anche il cugino, da quel contatto ravvicinato col mondo dei letterati militanti Lampedusa prese lo stimolo a scrivere il capolavoro. La nostra conversazione si tenne per un po’ lontano dagli argomenti di attualità. Grazie anche a Tusa e a Casimiro Piccolo, fratello di Lucio, che passa la vita fra tele e pennelli, vogava nelle lontananze. Pareva che in quel piccolo mondo antico siciliano il calendario si fosse fermato e non per distrazione, ma per una specie di partito preso contro il tempo presente e il vorticoso affannare delle sue mode. Ma poi fu un’uscita di Casimiro Piccolo a farmi capire che in quella casa i due cugini esercitavano di proposito lo snobismo del non prendere in troppa considerazione l’oggi: quasi si trattasse di una gaucherie. Disse: «Io, quei pittori moderni che deformano non li posso proprio sopportare ». Pensavo alludesse, che so? a Picasso, a Léger, a Nolde. Invece si riferiva a Goya: al Goya delle immagini stravolte del suo periodo nero. Il barone Casimiro, quello che era avvenuto dopo il grande spagnolo non aveva ritenuto che meritasse di essere preso in considerazione. Poiché infieriva la polemica fra avanguardia e tradizione, fui tentato di chiamare Lucio Piccolo, che passeggiava nel passato come a casa sua e parlava di Dante come fosse un vien de paraître, a rispondere sulle nuove voghe che dirompevano in letteratura. Il nostro ospite non si mostrò spaesato, ma acuminò piuttosto la sua ironia. Disse: «Molti mi accusano di essere in ritardo, di essere un provinciale. Ma mi sembra che lo siano di più quelli che si affannano a inseguire le ultimissime mode, che sono poi mode ottantenni. Il mio non è un prodotto di imitazione, ma un prodotto autentico di quest’angolo di terra: antico e sempre nuovo. Le rivoluzioni che l’avanguardia oggi rincorre, io le conoscevo già trent’anni fa. In Italia tutto arriva trent’anni dopo». Ci fu un momento che io, sempre più surgelato, mi confortai. Fu quando udii provenire da una stanza contigua un tintinnio di bicchieri. Forse il barone, un po’ impietosito, mi offriva un tè o un ponce caldissimo. Entrò infatti un cameriere in livrea con un vassoio in mano. Ma invece di una bevanda caldissima mi fu messo davanti un artistico gelato non so più di quale raro frutto : una specialità della casata. Notando il mio sconcerto, il poeta mi disse sorridendo: « Sa, il freddo in questo paese torrido dura pochi giorni. Siamo attrezzati per l’estate. Non ci pare il caso di cambiare le nostre abitudini per così poco ». Letto 2048 volte.
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