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LETTERATURA: I MAESTRI: Variazioni #10/109 Gennaio 2018
di Eugenio Montale Fu mai soldato Aristotele? Senza troppo rossore confessai di non saperlo quando mi accadde di leggere Soldier Aristotle played the taws (il soldato Aristotele giocava alle piastrelle), verso che appare in una delle più famose poesie di W. B. Yeats: Among School Children (Tra le scolare) In questa forma il verso si lesse in molte edizioni e ristampe, e non mi risulta che destasse obiezioni. Forse neppure l’autore vi fece caso. Solo più tardi l’errore di stampa fu rimosso e poté leggersi Solider Aristotle, il più solido Aristotele, e fu chiara la contrapposizione al verso precedente che dice: « Per Platone natura era una spuma sul paradigma astratto delle cose ». Mi sembra certo che la correzione abbia giovato alla migliore intelligenza del testo. Ma forse non sempre è così. A volte l’errore è mentale, appartiene al lettore, il quale poi, informato della coquille, resta deluso e continua a pensare al testo nella forma sbagliata. Un poeta di mia conoscenza scrisse: « Esiti a sommo del tremulo asse » (si trattava di una tuffatrice ritta sul trampolino) e il compositore scrisse: Esisti a sommo eccetera. Molti lettori preferirono la forma errata giudicandola più… esistenziale. A proposito di coquille che vuol dire conchiglia e anche refuso. In una pagina di Gide cadde la lettera a e la parola significò ben altro. Probabilmente, trattandosi di Gide, pochi lettori si avvidero del guasto. * Il musicista John Cage sostiene che i rumori della natura (usignoli, cornacchie e tubi di scappamento, orrende tempeste e suoni di clacson) sono più belli di ogni qualsiasi musica. Tra gli « utenti » della sua musica egli preferisce quelli che non abboccano più. Alcuni tra i più accreditati critici d’arte non si stancano di ripetere che l’arte è morta da un pezzo. Quel che sorprende è l’entusiasmo con cui parlano di questo decesso. Il commerciante, l’attore, l’operaio si preoccupano quando vien meno l’oggetto del loro lavoro. Il medico constata con qualche malumore il buon andamento della salute pubblica. Il pastore d’anime soffre quando deve ammettere che « non c’è più religione ». Resta inesplicabile il fatto che la presunta fine dell’arte sia motivo di alta soddisfazione per coloro che dovrebbero esserne (non senza profitto personale) i giudici e gli interpreti. Perché tali esperti continuano a occuparsi di ciò che non è? Io non credo che esista una congiura, una organizzazione internazionale dell’impostura. Penso che tutto avvenga nel modo più spontaneo. La generale contestazione di ogni idea ricevuti (anche la contestazione politica) è dovuta all’odio dell’uomo per se stesso. L’uomo non odia sé in quanto partecipe del genere umano: si odia in quanto individuo. Per questo si parla tanto di gruppo, di dialogo, di assemblea. Ciò che oggi unisce l’uomo è la paura: una paura che solo parzialmente ha motivi economici. Non a torto si afferma che l’orizzonte dell’uomo si è di molto allargato. Ma conviene una rettifica: si tratta dell’orizzonte del collettivo. Allargamento e annacquamento sono ormai (e forse da sempre) sinonimi. L’acqua alta che a Venezia si presenta settanta volte all’anno (cifra record) avviene in realtà, e in senso psicologico, dovunque e tutti i giorni. Non saranno certo deplorazioni come questa a fermarne la spinta ascensionale. * Un poeta comprensibile ha scarse probabilità di sopravvivenza. Installato, se tutto va bene, tra i classici, di lui resterà qualche verso, scelto tra i suoi peggiori, nelle antologie scolastiche. Diversa è la sorte dei poeti difficili o addirittura oscuri. Essi vanno incontro a lunghi periodi, talvolta a secoli di oblio, ma presto o tardi giunge il momento della loro resurrezione. Questo vale non solo per i criptici ma anche per i preziosi, i barocchi, per gli eccentrici di ogni genere. Ma non sempre è detto che tale alterna vicenda sia il destino di tutti gli oscuristi. Può accadere che fin dal loro apparire il plauso e la denigrazione camminino di pari passo: e questo è stato il destino invidiabile di Mallarmé. Da poco meno di un secolo si parla di lui e nulla fa presagire che scoliasti e postillatori abbiano intenzione di allentare la presa. I denigratori non sono quasi mai francesi sebbene in anni lontani non siano mancati neppure in Francia libellisti e mallarmofobi convinti. Ma è acqua passata e per l’Italia basterà il giudizio del Croce, il critico meno congeniale che il poeta potesse attendersi. Per conto mio, distratto ma convinto estimatore dell’Après midi d’un faune e del primo Mallarmé baudelairiano, ho sempre pensato che questo poeta sia da porsi tra gli astri dell’Art Nouveau e non a caso i primi suoi critici ricordarono Gustave Moreau e i preraffaeliti. E’ una notazione d’epoca e non ha nulla di diminutivo. Resta più facile questa collocazione dopo la comparsa di Valéry, di gusto più seccamente neoclassico, immerso in una tematica che ad alcuni parve bergsoniana. E forse un giorno i due poeti saranno visti in contiguità sebbene non siano della stessa generazione e presentino aspetti assai diversi. In questi giorni mi ha fatto ritornare a Mallarmé un volume piccolo ma di ben 150 pagine dedicato all’analisi di soli quattordici versi mallarméani: il famoso sonetto Le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui, una delle più splendenti e più dure pietre d’inciampo che Mallarmé abbia lasciato. Vi si parla di un cigno imprigionato dal ghiaccio che si è formato nel lago in cui il volatile (il poeta stesso) stava bordeggiando. La prima ondata di commenti ritenne che il cigno fosse prigioniero delle frustrazioni della vita. Poi fu corretto il tiro: il cigno era preda della « condizione esistenziale » o meglio ancora della « conoscenza, del Nulla ». Ora il giovane e acutissimo interprete Stefano Agosti (Le cigne de Mallarmé, ed. Silva) è andato molto più in là ed ha addirittura abolito il lago e il ghiaccio. Il poeta è sepolto in una tomba (lac secondo un certo etimo può significare fosso) e la brina, le givre, che la ricopre non è che la pietra tombale. E’ questo l’unico caso in cui l’etimo non dia luce, ma qui soccorre la memorizzazione di suoni affini (l’inglese grave, tomba). Fatta questa eccezione non c’è sostantivo o aggettivo in cui non avvenga la « sostituzione nominale » o l’adibizione di un significato metaforico (il collo del cigno diventerà, per esempio, l’orgoglio intellettuale). Quali i risultati di questa sorprendente operazione di chirurgia estetica? Senza dubbio una spiegazione del sonetto che elimina le contraddizioni di molti altri interpreti. E qui non resta che citare: « Ci troviamo di fronte a un caso di applicazione crittografica intensiva, tanto più riuscita quanto meno evidente ». […] « Il sonetto si presenta contrassegnato da una ferma volontà anticomunicativa ». E inoltre: « il componimento offre una nuova e cospicua testimonianza dell’ambizione mallarméana di una significazione totale dell’espressione letteraria ». In parole poverissime; la poesia di Mallarmé esprime paradossalmente un Nulla che trova il contrappeso nel suo farsi oggetto: un oggetto duro come un cristallo infrangibile, impenetrabile, un oggetto che è « la negazione dell’oggetto storico ». E se a questo punto il lettore resterà a bocca aperta non è colpa mia ma dell’argomento. Una domanda rivolgo a me stesso: le sostituzioni nominali furono calcolate, consapevoli o il poeta fu agito dall’oscura spinta del suo inconscio? E se fosse vera la seconda ipotesi non potrebbero darsi spiegazioni diverse e altrettanto persuasive? La domanda potrebbe sembrare irrilevante. Più d’ogni altro poeta Mallarmé ha giocato le carte dell’ambiguità. Spiegarlo è sempre contravvenire al suo profondo desiderio. Così può accadere che il cigno… poeta rifiuti la sopravvivenza dell’opera sua: e che l’uomo-poeta raggiunga la posterità per la forza della sua negazione.
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