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LETTERATURA: I MAESTRI: Variazioni #10/10

9 Gennaio 2018

di Eugenio Montale
[dal “Corriere della Sera”, domenica 26 luglio 1970]

Fu mai soldato Aristotele? Senza troppo rossore confessai di non saperlo quando mi ac­cadde di leggere Soldier Aristotle played the taws (il sol­dato Aristotele giocava alle piastrelle), verso che appare in una delle più famose poe­sie di W. B. Yeats: Among School Children (Tra le sco­lare) In questa forma il ver­so si lesse in molte edizioni e ristampe, e non mi risulta che destasse obiezioni. Forse neppure l’autore vi fece caso. Solo più tardi l’errore di stam­pa fu rimosso e poté leggersi Solider Aristotle, il più solido Aristotele, e fu chiara la con­trapposizione al verso prece­dente che dice: « Per Platone natura era una spuma sul pa­radigma astratto delle cose ».

Mi sembra certo che la cor­rezione abbia giovato alla mi­gliore intelligenza del testo. Ma forse non sempre è così. A volte l’errore è mentale, ap­partiene al lettore, il quale poi, informato della coquille, resta deluso e continua a pen­sare al testo nella forma sba­gliata. Un poeta di mia cono­scenza scrisse: « Esiti a som­mo del tremulo asse » (si trat­tava di una tuffatrice ritta sul trampolino) e il compositore scrisse: Esisti a sommo ecce­tera. Molti lettori preferirono la forma errata giudicandola più… esistenziale.

A proposito di coquille che vuol dire conchiglia e anche refuso. In una pagina di Gide cadde la lettera a e la parola significò ben altro. Probabil­mente, trattandosi di Gide, po­chi lettori si avvidero del guasto.

*

Il musicista John Cage so­stiene che i rumori della na­tura (usignoli, cornacchie e tubi di scappamento, orrende tempeste e suoni di clacson) sono più belli di ogni qual­siasi musica. Tra gli « utenti » della sua musica egli preferi­sce quelli che non abboccano più. Alcuni tra i più accredi­tati critici d’arte non si stan­cano di ripetere che l’arte è morta da un pezzo. Quel che sorprende è l’entusiasmo con cui parlano di questo deces­so. Il commerciante, l’attore, l’operaio si preoccupano quan­do vien meno l’oggetto del loro lavoro. Il medico consta­ta con qualche malumore il buon andamento della salute pubblica. Il pastore d’anime soffre quando deve ammette­re che « non c’è più reli­gione ».

Resta inesplicabile il fatto che la presunta fine dell’arte sia motivo di alta soddisfa­zione per coloro che dovreb­bero esserne (non senza pro­fitto personale) i giudici e gli interpreti. Perché tali esperti continuano a occuparsi di ciò che non è? Io non credo che esista una congiura, una orga­nizzazione internazionale del­l’impostura. Penso che tutto avvenga nel modo più spon­taneo. La generale contesta­zione di ogni idea ricevuti (anche la contestazione politica) è dovuta all’odio del­l’uomo per se stesso. L’uomo non odia sé in quanto parte­cipe del genere umano: si odia in quanto individuo. Per questo si parla tanto di gruppo, di dialogo, di assemblea. Ciò che oggi unisce l’uomo è la paura: una paura che solo parzialmente ha motivi eco­nomici. Non a torto si affer­ma che l’orizzonte dell’uomo si è di molto allargato. Ma conviene una rettifica: si trat­ta dell’orizzonte del collettivo.

Allargamento e annacquamen­to sono ormai (e forse da sempre) sinonimi. L’acqua al­ta che a Venezia si presenta settanta volte all’anno (cifra record) avviene in realtà, e in senso psicologico, dovun­que e tutti i giorni. Non sa­ranno certo deplorazioni co­me questa a fermarne la spin­ta ascensionale.

*

Un poeta comprensibile ha scarse probabilità di sopravvivenza. Installato, se tutto va bene, tra i classici, di lui re­sterà qualche verso, scelto tra i suoi peggiori, nelle antolo­gie scolastiche. Diversa è la sorte dei poeti difficili o ad­dirittura oscuri. Essi vanno incontro a lunghi periodi, talvolta a secoli di oblio, ma presto o tardi giunge il mo­mento della loro resurrezione. Questo vale non solo per i criptici ma anche per i pre­ziosi, i barocchi, per gli ec­centrici di ogni genere. Ma non sempre è detto che tale alterna vicenda sia il destino di tutti gli oscuristi. Può ac­cadere che fin dal loro appa­rire il plauso e la denigrazione camminino di pari passo: e questo è stato il destino in­vidiabile di Mallarmé. Da po­co meno di un secolo si parla di lui e nulla fa presagire che scoliasti e postillatori abbia­no intenzione di allentare la presa.

I denigratori non sono qua­si mai francesi sebbene in an­ni lontani non siano mancati neppure in Francia libellisti e mallarmofobi convinti. Ma è acqua passata e per l’Italia basterà il giudizio del Croce, il critico meno congeniale che il poeta potesse attendersi.

Per conto mio, distratto ma convinto estimatore dell’Après midi d’un faune e del primo Mallarmé baudelairiano, ho sempre  pensato  che questo poeta sia da porsi tra gli astri dell’Art Nouveau e non a caso i primi suoi critici ricor­darono Gustave Moreau e i preraffaeliti. E’ una notazione d’epoca e non ha nulla di di­minutivo. Resta più facile que­sta collocazione dopo la com­parsa di Valéry, di gusto più seccamente neoclassico, im­merso in una tematica che ad alcuni parve bergsoniana. E forse un giorno i due poeti saranno visti in contiguità seb­bene non siano della stessa ge­nerazione e presentino aspet­ti assai diversi.

In questi giorni mi ha fat­to ritornare a Mallarmé un volume piccolo ma di ben 150 pagine dedicato all’analisi di soli quattordici versi mallarméani: il famoso sonetto Le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui, una delle più splendenti e più dure pietre d’inciampo che Mallarmé ab­bia lasciato. Vi si parla di un cigno imprigionato dal ghiac­cio che si è formato nel lago in cui il volatile (il poeta stesso) stava bordeggiando. La prima ondata di commenti ritenne che il cigno fosse pri­gioniero delle frustrazioni del­la vita. Poi fu corretto il tiro: il cigno era preda della « con­dizione esistenziale » o meglio ancora della « conoscenza, del Nulla ». Ora il giovane e acu­tissimo interprete Stefano Ago­sti (Le cigne de Mallarmé, ed. Silva) è andato molto più in là ed ha addirittura abolito il lago e il ghiaccio. Il poeta è sepolto in una tomba (lac secondo un certo etimo può significare fosso) e la brina, le givre, che la ricopre non è che la pietra tombale. E’ que­sto l’unico caso in cui l’etimo non dia luce, ma qui soccorre la memorizzazione di suoni affini (l’inglese grave, tomba). Fatta questa eccezione non c’è sostantivo o aggettivo in cui non avvenga la « sostituzione nominale » o l’adibizione di un significato metaforico (il collo del cigno diventerà, per esem­pio, l’orgoglio intellettuale).

Quali i risultati di questa sorprendente operazione di chirurgia estetica? Senza dub­bio una spiegazione del so­netto che elimina le contrad­dizioni di molti altri interpre­ti. E qui non resta che cita­re: « Ci troviamo di fronte a un caso di applicazione crit­tografica intensiva, tanto più riuscita quanto meno evi­dente ». […] « Il sonetto si presenta contrassegnato da una ferma volontà anticomu­nicativa ». E inoltre: « il com­ponimento offre una nuova e cospicua testimonianza del­l’ambizione mallarméana di una significazione totale del­l’espressione letteraria ». In parole poverissime; la poesia di Mallarmé esprime parados­salmente un Nulla che trova il contrappeso nel suo farsi oggetto: un oggetto duro co­me un cristallo infrangibile, impenetrabile, un oggetto che è « la negazione dell’oggetto storico ». E se a questo punto il lettore resterà a bocca aper­ta non è colpa mia ma del­l’argomento.

Una domanda rivolgo a me stesso: le sostituzioni nomina­li furono calcolate, consape­voli o il poeta fu agito dall’oscura spinta del suo inconscio? E se fosse vera la se­conda ipotesi non potrebbero darsi spiegazioni diverse e al­trettanto persuasive? La do­manda potrebbe sembrare ir­rilevante. Più d’ogni altro poe­ta Mallarmé ha giocato le car­te dell’ambiguità. Spiegarlo è sempre contravvenire al suo profondo desiderio. Così può accadere che il cigno… poeta rifiuti la sopravvivenza del­l’opera sua: e che l’uomo-poeta raggiunga la posterità per la forza della sua nega­zione.

 


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