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LETTERATURA: I MAESTRI: Variazioni #4/1026 Dicembre 2017
di Eugenio Montale Il lieve tintinnio del collarino e un arpeggio vellutato, come uno sgranarsi di zampette sul muro che accompagna la via maestra annunciavano che il gatto Malfusso ci era  venuto incontro un buon tratto per guidarci alla casa di Erasmo, una sorta di maiÂson du pendu bianca anche sul far della sera, col fico rugginoso addossato da una parte e pochi alberi antropoÂmorfici ai quattro lati, dai quali venne poi sempre, alÂl’ora del crepuscolo, il luguÂbre gluglu delle tortore in gabbia. A sinistra e in basso il mare limaccioso e l’ammazÂzatoio. Ma di morti non c’eÂrano che i topolini di nido, schiacciati con la scopa sullo spiazzo d’ingresso dalla fida Maria Vulpius. La casa era piena di libri, di tende di broccato, di armi e di diploÂmi in cornice; a spiare oltre il fitto reticolo di fil di ferÂro delle feritoie si scorgeva solo qualche spicchio di luÂce, una scaglia d’albero, uno svariare d’ombre, e i suoni non mutavano che di poco, passando dallo sfrigolìo intermittente delle ultime cicale al fruscio più ampio e lontaÂno del mare. Un mare semÂpre inquieto, gonfio ma non grosso, che non si vedeva quaÂsi e non cambiava mai il reÂspiro, incurante delle lunaÂzioni. Si faceva tardi e Maria Vulpius, l’inarrivabile, tentaÂva invano di accendere il fuoco a pianterreno e di preÂpararci il ciupìn di scorpene e moscardini; la casa era tutÂta fumo e l’ospite s’indugiaÂva fino all’ultimo a massacraÂre l’angelica fiaba di Papageno sulla tastiera cariata di un vecchio pianoforte che dava un suono acido di spinetÂta. Tra il fumo i fregi dorati di alcune rilegature brillavano incuranti a sommergersi e il ritratto dell’Icaro caduto in fiamme resisteva ancora tra le bombe Sipe e le pistole automatiche. Appoggiato allo spiovente stratificato di alcuni Webster attendevo l’ora della cena e continuavo a riÂtardare l’ora della partenza. Se questi erano i pomerigÂgi, difficili a rammentarsi coÂme un sogno, altrettanto brevi scorrevano le mattine, dopo che Erasmo si era lasciaÂto cacciare dalla zanzariera nella quale dormiva sorridenÂte e disumano come un Dio in una nuvola bianca. SeguiÂvano curiosi riti, come il lanÂcio delle oche in mare per il bagno quotidiano e l’omaggio al fenicottero giunto un giorÂno a volo e rimasto poi apÂpollaiato per più di un mese su un comò, ad arrotarsi l’eÂnorme becco a serbatoio che gli tirava in basso il collo sotÂtile e la testina. Lo videro i ragazzi del paese e dissero senza sorpresa « oh, un perÂdigiorno ». Mangiava raramenÂte, spesso la notte, con un rumore di ciabatte che faceÂva rabbrividire; poi un bel mattino seppi (lo seppi dopo) aprì le ali e con un volo ferÂmo e dritto andò a trasferirsi in un convento di cappuccini a breve distanza. Del resto conviene dire che in quella casa piena di granÂdi ombre, in quella riserva di caccia dell’ultima storia che conta, la più sconosciuta (che non tutto, non tutto andasse in pezzi come le olive stritoÂlate lì dietro, a pochi passi, dal frantoio) la vita era alta, incorrotta, senza compromessi; e fu difficile e anche doÂloroso, dopo pochi giorni, riÂmettersi all’esistenza degli alÂtri, storcere con un dito l’aÂsticella della meridiana ferma per sempre sulla stessa ora e avviarsi lungo la scarpata prima della giornaliera appariÂzione del cardinale rosso porpora, con lo zucchetto in testa, le pantofole di marocchino e l’aquila d’oro al collo! Non avevo molte probabilità di svignarmela inosservato, mancava ancora una mezz’ora all’arrivo del diretto ma prima di questo c’era un omnibus in gran ritardo, inatteso al quale giunsi ad attaccarmi. Mi parve (ma fu certo un’illusione) di scorgere una fiamma rossa tra gli alberi e un gesto adirato, poi il treno imboccò un tunnel fuligginoso e dopo poco la loggia del Montorsoli si profilava contro un mare diverso, pieno di transatlantici. * La prosa che precede doveva figurare nel mio libro La bufera e altro che apparve nel 1956. Ma fu scritta ne ’43 e ora non so perché l’abbia esclusa da una raccolta dove pure compaiono due altri petits poèmes en prose L’argomento, nettamente reale, avrebbe potuto fornir materia a un più lungo ed elaborato elzeviro, o meglio ancora a un breve racconto, di quelli che sempre più raramente si leggono sulle pagine dei quotidiani. Ma una simile destinazione era da escludersi perché fino a quel tempo io non ero autore di nulla che potesse dirsi narrativo e non avevo alcuna intenzione di iscrivermi sotto quell’etichetta. Sarebbe mancato, inoltre, il destinatario, il giornale. Avevo già sulla coscienza un buon numero di prose, ma tutte di critica letteraria sparse in quotidiani di second’ordine o in riviste. A un grande quotidiano approdai solo dopo la liberazione di Milano e in quella nuova sede mi si fece intendere che lo Âspazio era ristretto e che la critica letteraria doveva entraÂre, almeno provvisoriamente, in quarantena. Sparì allora del tutto l’illusione che io potessi diventare un emulo di Aloysius Bertrand, un cesellatore di brevi gioielli in prosa « d’arte ». D’altra parte mi mancava la fantasia del narÂratore nato e non potevo conÂtare che su ricordi personali, su esperienze vissute. Non diÂsponevo certo del pozzo di San Patrizio avendo sempre condotto una vita appartata, dopo il ’40 semiclandestina. In compenso quelle poche meÂmorie erano andate lievitanÂdo e di giorno in giorno mi sembravano sempre più irreaÂli. Non potevo fonderle in un tutto omogeneo, in un conÂtinuo. Si rifiutavano di orgaÂnizzarsi secondo un ordine e una prospettiva. Dovevo laÂsciarle sorgere a piacer loro e così fu. Nacquero così i racconti non-racconti, le poesie nonÂ-poesia che anni dopo raccolsi sotto il titolo La farfalla di Dinard. Mi accorsi dopo che quel libro scritto a Milano afÂfondava parte delle sue radici in una città , Firenze, che io avevo guardato con gli occhi di uno straniero innamorato dell’Italia. Che poi il tentatiÂvo, del tutto involontario, avesse incontrato due handiÂcap prevedibili era ben chiaÂro. Gli occhi dello straniero mi erano inibiti dal fatto che io a Firenze dovevo lavorare e non contemplare; e lavorare in condizioni che mi rendevano italiano al cento per cento. Inoltre, la Firenze che mi interessava era in via di dissoluzione. Le inique sanzioni erano riuscite a svuotarla di gran parte delle sue reliquie viventi: degli uomini che avevano vissuto in quella città ore irripetibili. In sostanza io dovevo cibarmi di ricordi alimentati da precedenti ricordi di altri, di sconosciuti. Però entro questi limiti assai gravi io sono riuscito a dare, sia pure in poche pagine, non un capitolo ma due righe di un ipotetico libro che un giorno qualcuno dovrà decidersi a scrivere e porterà press’a poco questo titolo: Stranieri a Firenze Non è che tentativi del genere siano del tutto mancati; ma nessuno ch’io sappia è stato all’altezza dell’argomento. Il meglio l’ha fatto Emilio Cecchi, che però era emigrato a Roma sui trent’anni e non aveva il vantaggio di essere uno straniero. LA POESIA L’angosciante questione se sia a freddo o a caldo l’ispirazione non appartiene alla scienza termica. Il raptus non produce, il vuoto non conduce non c’è poesia al sorbetto o al girarrosto. Si tratterà piuttosto di parole molto importune che hanno fretta di uscire dal forno o dal surgelante. Il fatto non è importante. Appena fuori si guardano d’attorno e hanno l’aria di dirsi: che sto a farci? Letto 931 volte.

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