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LETTERATURA: I MAESTRI: Variazioni #6/1030 Dicembre 2017
di Eugenio Montale Sono del tutto privo di quelle esperienze che con palese eufemismo possono anche definirsi come « sociali ». Mai fui cacciato in galera o in un campo di concentramento, mai ho sofferto la tortura, le mie braccia non portano tatuaggi o numeri di riconoscimento e mai mi è accaduto di rifugiarmi all’estero mutando lingua e nazionalità. Mi è mancata anche la disgrazia o la fortuna di essere ebreo. Nessuno dei miei familiari e appena uno o due dei miei amici sono finiti nelle camere a gas. L’unica vera e importante seccatura che mi ha dato il fascismo (a parte dieci anni di disoccupazione, peraltro non inoperosi) è stata quella d’impedirmi di diventare un narratore. Avevo a disposizione il tempo, non la materia. Accumulo l’esperienza ma non so inventare. Nei cosiddetti anni ’30 l’incomunicazione di massa, oggi fiorentissima, non aveva ancora toccato il suo zenit. Entro certi limiti e con la dovuta prudenza si poteva ancora parlare. L’argomento maggiore verteva sulla possibilità o speranza di parlare più e meglio dell’ipotetico tempo di un postfascismo. Parleremo, si diceva, quando avremo riconquistato la libertà. Nel frattempo scorsero gli anni e nella prima metà dei ’40 la libertà ci fu concessa, un po’ per merito nostro, ma molto di più perché altri avevano agito per noi, naturalmente non mossi da sola pietà per il nostro stato. Venne allora a mancarci ogni possibilità di speculare sul poi e sul domani. Eravamo liberi, ma come e perché, e che cosa avremmo fatto della nostra libertà? Furono avanzate diverse ipotesi. La libertà non esiste in natura, l’animale è sempre necessitato e l’individuo (l’uomo) non è nemmeno pensabile se non in rapporto ad altri individui. L’uomo realizza se stesso negandosi come tale e sommergendosi nel conglomerato sociale. La libertà non è l’arbitrio, non è l’autosufficienza dello schiavo Epitteto, ma la accettazione (di che cosa?). Oh, semplicemente di quello che accade, di quello che c’è. Che poi non fosse la stessa cosa l’essere e l’esserci, è ipotesi che sfiorò la mente solo di pochi pazzi. Su questo punto —su quello che c’è — idealisti storicisti e filosofi del materialismo dialettico, furono tutti d’accordo. L’uomo è un animale economico e come tale deve agire e pensare, il contraccolpo fu immediato anche nel mondo dell’espressione, dell’arte. Un tempo la libertà dell’arte era garantita (entro certi limiti) dai regimi autoritari, autocratici. La Russia ebbe una grande letteratura sotto il dispotismo degli Zar, non sotto quello della democrazia coatta. Nell’Europa che oggi si dice libera, già da tempo i filosofi avevano ammesso la libertà dell’arte pia pure (non tutti) assegnandole una sezione distinta e alquanto subalterna nella piramide ascensionale dello Spirito. Ma ora altre necessità urgevano. L’arte diventava produzione e consumo e doveva quindi rassegnarsi a una subordinazione ben più grave L’accettazione stessa, l’abbiamo visto, era una forma di libertà maggiore. La libertà del l’artista era stata una lunga e faticosa conquista dell’Illuminismo. Ma ora il serpente del progresso si mangiava la coda e questo lo avevano già detto Goethe, Burkhardt e altri prima che venisse a informarcene col suo fumoso talento Teodoro W. Adorno. Ora l’arte doveva affermarsi come funzione, ma negarsi come essenza. L’arte non aveva ragione di esistere se non come impiego di materiali. L’arte è un gesto che coinvolge (chi?), e non altro. Al limite, l’arte la fa il recipiente (sic), non il produttore. Forse per la prima volta nei millenni che conosciamo meglio la letteratura e la poesia, ch’erano state sempre la matrice delle altre arti « belle », passarono alla retroguardia e cedettero le armi. I primi a buttarsi sul « materiale » furono gli artisti ex-figurativi I musicisti non tardarono a mettersi al passo. Il materiale ch’essi hanno a disposizione è infinitamente maggiore. Essi possono manipolare non solo tutti i suoni e i rumori che si producono in natura, ma anche tutte le musiche seppellite negli archivi musicali. E nemmeno importa spingersi tanto addietro. Recentemente il compositore Stockhausen rimescolò una trentina di inni nazionali attraverso filtri, dosaggi, modulazioni di frequenza e largo impiego di elettronica mi-se in pubblico certi Hymnen che destarono furore di entusiasmi e dissensi. Basta leggere qualche scritto di questo musicista e di altri per accorgersi che non siamo affatto in presenza di un bluff. E’ gente che fa sul serio. Anzi non manca chi considera il nominato Stockhausen come un reazionario perché in lui sopravviverebbe qualche cosa che fa ancora pensare alla musica. L’odio di questi uomini per l’arte è profondo e significativo. Ma non tutti sembrano avvedersi di essere piuttosto le vittime che gli araldi di un nuovo tempo. Se ne accorgeva invece Adorno e se ne avvede il giovane Mario Bortolotto che rischia di diventare, ma speriamo di no, il nostro Adorno nazionale. Chi voglia saperne di più può dare un’occhiata al n. 30 della bella rivista Il Verri diretta e fondata dall’intrepido amico Luciano Anceschi. E’ un fascicolo interamente dedicato alla nuova musica. * Si può supporre che gli inventori dell’antimusica abbiano avuto una vita piuttosto facile e agiata. Ma esistono casi del tutto opposti. C’è chi da una vita difficile, anzi tragica, ha tratto il desiderio di non distruggere nulla, se non il male. C’è chi uscito dall’inferno ha reso più lucido il suo sguardo, più pura l’aspirazione a una vita spoglia di ogni compromesso e di ogni viltà. E’ quanto è accaduto a Edith Bruck, autrice di un libro che non dovrebbe passare inosservato: Le sacre nozze, pubblicato da Longanesi. Tutte le infamie che a me (a noi) furono risparmiate toccarono in sorte a questa giovane donna che nata in Ungheria e più precisamente là dove s’intersecano Ucraina, Slovacchia e Ungheria, ha conosciuto la vita dei lager, ha raggiunto nel ’48 Israele, la sua terra promessa, ed è oggi in Italia, dove vive, una delle nostre più interessanti scrittrici. Non so fino a che punto la vita dell’Eva che incontriamo nel libro sia una perfetta sosia dell’autrice. Ma il motivo di fondo dell’opera, il rifiuto della violenza, l’anelito a una libertà che non è possibile perché nessuno veramente la vuole, accomuna certamente la donna inventata e la donna reale. Sarebbe fare un torto al libro darne uno scarno riassunto. Dire che la diciottenne Eva sbarcata a Haifa, in Israele, sposa un imbecille, schiavo di una feroce madre, poi riesce a liberarsene, si sposa ancora con un americano abulico e forse invertito che vede in lei poco più che un « numero » da circo equestre, e infine si lascia amare, e forse ama, un lenone che vuol vivere alle sue spalle vendendola a provvisori clienti; dire tutto ciò e aggiungere che in ultimo Eva si avvelena con i barbiturici e nemmeno muore, lasciandoci così in dubbio sul suo futuro non è certo un invito a leggere questo racconto. Quel che conta non è l’intrigo ma la verità del quadro e dei molteplici personaggi, e l’adamantina purezza di sentimento che anima il libro da capo a fondo. Edith Bruck è troppo bruciata dalla vita per indulgere ad ogni compromesso col suo ipotetico lettore; non scrive quel che si dice un romanzo e può raggiungere una quasi chirurgica crudeltà con l’uso di un bisturi che somiglia appena a una penna. Si esprime nella lingua d’uso ma non si può mai dire che la sua lingua sia usata, logora. Eccelle nel dialogo ma lascia che la composizione si formi da sola, per aggregazione. Ciò non le riesce ininterrottamente perché il ricorso al flashback rallenta l’interesse anche se ci fa meglio comprendere il difficile itinerario di una vita soffocata fin dalla nascita; e inoltre la tecnica adottata rende con allucinante verità i fatti narrati ma non li fa scorrere nel tempo. In un certo senso siamo perfettamente all’opposto della letteratura « di memoria ». Qui tutto vive in un eterno presente, forse necessario in una narrazione che ha per argomento non tanto un personaggio e nemmeno una folla di comprimari quanto il destino di una stirpe condannata a una perenne immobilità storica. Una immobilità che sottende, sempre fermissima, tutta una geenna di crudeltà, di guerre e di persecuzioni. * C’è troppo rumore nel mondo? Si potrà vivere quando mostruosi aerei supersonici contenenti quattrocento viaggiatori passeranno sul cielo delle città? Forse no, ma non è detto che il rumore sia sempre inutile. Tempo addietro ero con altre tre persone. Nessuno di noi conosceva gli altri tre. La padrona di casa fece le presentazioni, ma fu chiamata al telefono. Vi restò, come tutte le donne, almeno dieci minuti. Ognuno dei quattro tentò di parlare, senza successo. Incombeva un silenzio infrangibile. Pensai allora che sarebbe molto utile una macchinetta individuale da portare addosso quasi nascosta, come un orologio. Un aggeggio a tasto produttore di rumori naturali, non però fisiologici. E’ vero che oggi c’è il mangiadischi, portatile e poco ingombrante. Tuttavia ricorrervi rivela l’intenzione e crea un imbarazzo anche peggiore del silenzio.
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