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LETTERATURA: I MAESTRI: Variazioni #8/104 Gennaio 2018
di Eugenio Montale Nel Novecento pubblicato da Garzanti il teatro ha la parte della Cenerentola. Un intero capitolo è dedicato a Pirandello e l’acutissimo interprete è Giovanni Macchia. Tutti gli autori di teatro che sono venuti dopo appaiono raggruppati in una nota che occupa mezza pagina; e non è detto che proprio tutti meritassero tanto onore. La rivista Il dramma (ed è spiegabile data la sfera dei suoi interessi) se ne lamenta; ma non sfugge a Enrico Falqui che il teatro è pressoché assente in quasi tutti i « manuali » sinora pubblicati in Italia. Chi vuol saperne di più deve cercare libri di specialisti, e non ne mancano anche se ispirano limitata fiducia. I loro autori (non tutti) hanno passato la vita ad assistere a « prime rappresentazioni », ne hanno scritto sui loro giornali e poi hanno raccolto in più volumi i loro rendiconti. Così hanno fatto Marco Praga e Renato Simoni in libri oggi poco consultati. Forse non era teatrologo di mestiere il quasi dimenticato Tonelli, autore di un panorama del teatro italiano moderno che si arresta al primo decennio del secolo; né si può dimenticare quanto ha fatto in modo più organico Silvio d’Amico. Tuttavia siamo sempre allo stesso punto: il teatro stenta a entrare nel dominio della letteratura. Stenta anche fuori d’Italia: non credo che molti francesi leggano le cronache del Sarcey. Nei nostri manuali scolastici i nomi sono due o tre: Goldoni e Alfieri, forse Metastasio se vi si parla del melodramma di corte. I grandi poeti hanno lasciato qualche tragedia: Foscolo, Manzoni. Se ne discorre parcamente nei capitoli a loro assegnati. I critici che non sono « drammatici » professionalmente hanno fatto qualche incursione nel recinto proibito: Croce ha amato Schiller, Ibsen e Becque, non il bellissimo teatro di Kleist. L’Ibsen di Slataper resta una sorpresa, ma Serra, Cecchi ed altri hanno trascurato il teatro. Gobetti, morto giovanissimo, fece in tempo ad accorgersi di Pea e Lodovici, dei quali fu anche editore. Ma gli ammiratori di Pea (siamo rimasti in pochi) non sono uomini di teatro e trascurano Rosa di Sion e Prime piogge. Nelle storie delle moderne letterature straniere si notano analoghe dimenticanze. Nel mirabile libro del principe Mirskij le commedie dei grandi narratori russi sono più nominate che discusse e si rileva con sorpresa il successo europeo del teatro di Cecov. Addirittura nel cestino sono buttate commedie che in Italia e altrove hanno trovato consensi di pubblico e di critica. Tutto è diverso nei paesi che possono vantare un siècle d’or della tragedia: Inghilterra, Spagna, Francia. Ma il secolo d’oro del teatro italiano è venuto più tardi ed è stato il melodramma romantico. Le tragedie (è un’osservazione tutt’altro che peregrina) sono come i funghi: dove ce n’è una ne troverete altre. Leggendo il teatro elisabettiano ci si rende conto che accanto a Shakespeare hanno lavorato uomini di talento poco inferiore al suo. Il teatro di stile, il teatro che trae alimento da una secolare retorica, trionfa quando altri generi letterari (scoperti e codificati più tardi) sonnecchiano o attendono di nascere. I grandi tragedi non hanno conosciuto il problema dell’originalità e non si sono preoccupati di usare un linguaggio accessibile a tutti. I grandi inglesi, lasciando a mestieranti gli intermezzi buffoneschi dei loro lavori, non si sono mai abbassati al gusto di un quasi inesistente « pubblico », anzi hanno tentato di alzarsi ai più alti livelli dell’espressione. Il pubblico è probabilmente un’invenzione moderna, è il prodotto di un tempo che tutela i diritti d’autore ma è indifferente al valore degli artefatti. Non è dunque probabile che esista una congiura mondiale per scacciare il teatro dall’orto concluso della letteratura. In quell’orto, che poteva essere un’arena o un’agorà tragici greci erano entrati da padroni. Ma oggi tutto è diverso, i tragedi sono diventati « autori », associati, consorziati, e l’arte teatrale ha interessi non diversi da quelli di altre arti più agibili, più « concorrenziali ». Il teatro è diventato puro spettacolo, ma esistono mezzi spettacolari (la vita stessa) molto più efficaci e infinitamente meno dispendiosi. * Che il futuro debba essere ineluttabilmente, migliore del passato e del presente è una opinione che ha attraversato indenne l’illuminismo, il positivismo, lo storicismo ideali stico e il marxismo. Il suo vero significato fa ricordare la storiella dell’uomo che cadde da un’impalcatura e si rialzò dicendo: Be’, tanto dovevo scenderne. Il peggio si risolverebbe sempre nel meglio? La storia non lo dimostra; le storie delle infinite manipolazioni umane, sì. L’uomo fa molte più cose di prima; ma ch’egli sappia di più è altamente opinabile. Il sapere ch’era una volta il patrimonio delle Universitates medievali è uscito fuori da quegli studi, ne è uscito dalla Controriforma in poi e le università d’oggi dovrebbero decidersi a darsi un altro nome. Questa la tesi che Pietro Piovani illustra in un piccolo libro: Morte (e trasfigurazione?) dell’Università (Guida Editori, Napoli). Piovani è titolare della cattedra di filosofia morale dell’università partenopea, dirige un’importante collezione di libri filosofici e il suo penultimo libro Conoscenza storica e coscienza morale (ed. Morano) fa pensare che posto al bivio tra la teleologia trionfalistica dello Spirito e le teurgie della Catastrofe egli stia fermo al problema dell’individuo. Come lo risolva è affar suo; anzi è molto probabile ch’egli non pensi neppure alla possibilità di risolverlo. La filosofia per lui è ricerca, ma una ricerca che si pietrifichi in un concetto sarebbe la fine nonché del pensiero, del mondo stesso. Al mondo invece, e al mondo della scuola in cui egli vive, Piovani guarda con estremo interesse. La sclerosi delle istituzioni universitarie, impotenti fin dal giorno in cui scuola e cultura cessarono di essere sinonimi, è da lui analizzata nel modo più persuasivo. Ma egli non è un fanatico del « tanto peggio tanto meglio », non crede che la distruzione sia di per sé un fatto positivo. Accetta come fatale la morte delle università ma non pensa che una nuova cultura possa rinascere come un fungo dalle rovine della scuola di ieri. Le infinite ramificazioni della Scienza (divinità cui egli rende un giusto ma prudente omaggio) potranno trasformare le scuole in modo oggi poco prevedibile. Tuttavia, una volta che milioni o miliardi di uomini siano provvisti del famoso pezzo di carta che renda possibile la così detta elevazione dei diseredati, non per questo potrà morire la cultura inutile, la cultura vera, che non sarà più totalizzante ma comprensiva, umana, non meccanica e utilitaria. Come e quando questo possa avvenire il filosofo non dice, né lo potrebbe. Ma alla scuola di tutti i giorni, alla scuola per tutti egli guarda con una preoccupazione che mi sembra giusta. Dove troveremo i maestri, anzi egli dice i missionari, da preporre all’insegnamento di base, quello che sarà offerto a moltitudini sinora tenute fuori da ogni istruzione? In modo più crudo — e qui mi sovrappongo al Piovani — come evitare che il posto, l’impiego di insegnante (il meno appetibile dai giovani più dotati) cada in mano agli incapaci, agli sprovveduti, agli analfabeti di ritorno che già oggi sono folla, sono massa? La mia opinione personale è che questo pericolo non sarà evitato. Per fortuna è quasi certo che cultura e scuola continueranno a correre su binari non destinati a incontrarsi. * In questi tempi di travestimenti e truccature d’ogni genere il travesti teatrale sta passando un brutto quarto d’ora. Non so spiegarmene le ragioni. Io non ho mai veduto lo « spartito » del Boccaccio di Franz von Suppé ma sono convinto che in esso la parte dell’autore del Decameron sia prevista e scritta per voce di contralto. Quando ascoltai il Boccaccio (sono passati più di cinquant’anni) una donna, Jole Baroni, trionfava in questo ruolo. Ma a Firenze, pochi giorni or sono, Boccaccio abbandona il travesti e si presenta come tenore. Non è un fatto nuovo: qui alla Scala abbiamo visto nel Faust di Gounod che il giovinetto Siebel (mezzo soprano o contralto) si trasforma in tenore. Poco danno perché la parte è insignificante. Riccardo Strauss e l’ultimo grande poeta che abbia amato e compreso il melodramma, Hugo von Hofmannsthal, dettero vesti maschili e voce di contralto al meraviglioso personaggio di Ottavio, nel Cavaliere della rosa. E per fortuna qui non sembrano possibili sostituzioni. Che cosa si può pensare dell’avversione dei teatranti al travesti? Non credo che uno scrupolo di verosimiglianza possa essere giustificabile. Il melodramma è il regno dell’assurdo. E non si dica che mancano le voci adatte. Non occorrono grandi voci per il Boccaccio. La verità è che solo direttori e musicisti di venerabile età potrebbero assicurare una certa sopravvivenza alle operette che deliziarono i nostri padri. La TV italiana si cimentò con la Vedova allegra (1905) e la scelta degli artisti fu disastrosa. Boccaccio è del 1879, posteriore di undici anni al Mefistofele di Boito; segno che fino a quel tempo l’opera seria e l’operetta potevano coesistere in pace. Quanto al Suppé, non so se potrà più interessare. Nato a Spalato, studente a Padova, dapprima medico, poi musicista, non giunse mai a parlare correttamente il tedesco. Modesto racimolo della grande civiltà asburgica, egli parla un linguaggio che al nostro duro orecchio può sembrare futile. È tutta colpa sua?
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