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LETTERATURA: I MAESTRI: Variazioni #9/106 Gennaio 2018
di Eugenio Montale Ho dodici anni, sto vestendomi in fretta perché fra poco arriverà l’onnibus a cavalli che deve portarmi all’Istituto Vittorino da Feltre. scuola per ragazzi di famiglie benestanti. Forse mio padre è un « abbiente » ma di questo non abbiamo mai parlato. A quest’ora dev’essere sveglio anche lui e infatti eccolo apparire in vestaglia con la papalina in testa e in bocca un sigaro Cavour semispento. E’ già caldo, e lui si sventola con un numero del Caffaro, il solo giornale ammesso in casa. « Devo parlarti » dice. « Sì papà ». « Figlio mio, finora non ti ho mai detto nulla dei tuoi doveri perché sei un ragazzo che ha la testa a posto. Ma ora devo affrontare un argomento difficile che riguarda la tua personalità ». « La mia… ». « … personalità, sì. Sto passando dai doveri ai diritti. Tu hai diritti, figlio, dei quali non ti rendi conto. Tu devi essere te stesso, capisci? ». « Ma io lo sono, babbo ». « Lo sei ma non te ne rendi conto, questo è il guaio. Quando parlo mi dai ragione, quando ti rimprovero non reagisci. Tu non puoi mai essere in torto, capisci?, perché io ho quarant’anni e tu dodici. Mi spiego meglio: non mi hai mai insultato, la tua pagella scolastica piena di ottimi voti non è fatta certo per rallegrarmi. Si direbbe perfino, lo dico con un certo rossore, che tu hai un vero rispetto per me… tuo padre. Dove andremo a finire? Non ho sentito mai dalla tua bocca una parola di protesta. Mi giungono anche notizie sconfortanti. Tra quelli che hanno preso a pedate monsignor Baravalle, rettore del tuo Istituto, non figura il tuo nome. Monsignore è piuttosto disgustato. Non si aspettava nulla di simile. Ha parlato di… di… lassismo, parola che deve avere un brutto significato. Che cosa sarà di te? ». « Ma io… se verrà un’altra occasione ». « E’ difficile che il caso si ripeta. Ricordati che tu devi riempirti la testa di diritti, devi essere un pallone, una mongolfiera di pretese e di esigenze. Ricordati che chi ti ha messo al mondo non l’ha fatto per sentirsi dire sì papà; ricordati che nella vita c’è il prima e il dopo e che il dopo ha sempre ragione. Tu sei il mio dopo, figlio mio, un dopo che deve schiacciarmi, annientarmi. Vedi, sto piangendo. Insultami, figlio, non negare al tuo vecchio padre, indegno di te, questa soddisfazione. Pietà, figlio mio, pietà di me! ». A questo punto alzo la testa e guardo il grande orologio che segna l’ora, il giorno, il mese e l’anno. Sono le 9.30 del 12 marzo 1970. Evidentemente tutto è stato un sogno. * « Perché la storia della letteratura? »; è questo il titolo di un piccolo libro pubblicato dagli editori Guida di Napoli. (L. 1300). Ne è autore Hans Robert Jauss filologo romanzo dell’università di Costanza, la prefazione e l’ottima versione sono di Alberto Vàrvaro. Secondo lo studioso tedesco il ciclo delle grandi storie letterarie è tramontato dalla stagione che produsse le opere di Gervinus e di Scherer, di De Sanctis e di Lanson. Dopo di allora questa scienza (ammesso che di scienza si tratti) non ha più saputo rinnovarsi. Oggi « soltanto negli scaffali della borghesia colta si trovano ancora storie letterarie che in mancanza di un più acconcio dizionario della letteratura vengono a volte sfogliate, soprattutto per cercare risposte ai quiz letterari ». Le ragioni della decandenza di questo « genere » (la storia letteraria) sono molteplici e non possono identificarsi con l’esaurimento dello storicismo idealistico. Da noi il Croce negò sempre la possibilità di una simile storia, non potendosi trovare un filo conduttore che congiunga le opere di poesia, monadi senza finestre. Era però possibile il trattamento monografico, ma anche qui sorgono difficoltà. Tutto il resto (la letteratura non creativa) poteva andare sommerso nel calderone delle varie storie del costume, dei fatti, degli eventi sociali. Ma non è un fatto l’opera d’arte? (A suo tempo sorgeranno le obiezioni dei nuovi formalisti). La filosofia dei distinti, che assegnava all’arte un posto e un confine invalicabili spiega largamente questo rifiuto. Tuttavia è esistita una forma di storicismo non idealistico che ha tentato l’impossibile impresa (basti pensare all’opera monumentale del Talne che Jauss non nomina); ed anche in questo caso il risultato non muta: restano le opere singole, non resta affatto un’indicazione che suggerisca ulteriori sviluppi. Siamo di fronte a una presunta scienza che non fa progressi. Positivisti e idealisti hanno avuto in comune la fede in uno sviluppo univoco e irreversibile della civiltà umana. Non hanno ignorato il problema del male, ma hanno creduto che il tempo cammini in un senso unico e che ciò che vien dopo sia strettamente legato a ciò che è accaduto prima. Le infinite differenze che corrono tra positivismo e idealismo (marxista o non marxista) appaiono irrilevanti all’uomo di media cultura. I due grandi movimenti credono che attraverso il peggio si vada verso il meglio e questo è sufficiente a conferir loro un colore d’epoca, di stagione. E la stagione che stiamo attraversando non ha più questa fede. Rifiutata o almeno accantonata la teleologia progressista, gli uomini hanno sostituito il pensiero astratto con l’occhio. E sono sorte molteplici scienze o pseudoscienze che studiano l’uomo come un oggetto. L’indagine non ha più un fine ma basta a se stessa. Non si tratta di dire che cos’è l’uomo, ma come è fatto l’uomo e come si comporta. Tra i fatti dell’uomo, tra i suoi prodotti, è anche l’arte. Come nasce l’arte? Se essa produce oggetti che hanno una loro identità e non possono uscirne sarà forse possibile creare una scienza dell’arte che abbia il crisma dell’obiettività. Ho detto forse e non senza ragione. * Il problema che Jauss pone, e con lui tanti altri, è questo: è possibile che l’antistoria ossia la civiltà post-romantica crei una storiografia letteraria che sia una metastoria, un insieme di modelli tagliati qua e là, verticalmente, nel decorso dei secoli e tali da esigere una continuazione, un rapporto col futuro dell’arte? Il tentativo di studiare un’evoluzione delle forme letterarie è stato compiuto dai formalisti russi e in seguito dagli strutturalisti, una scuola oggi internazionale. Secondo Jauss simili tentativi hanno solo la apparenza dell’obiettività. Non porteranno a un nuovo tipo di storia astorica. Per uscire da un vicolo chiuso bisogna mettersi dal punto di vista della ricezione dell’opera, ossia del pubblico. L’opera importante è quella che s’affaccia su un « orizzonte d’attesa », che risponde a una domanda, sia pure inconsapevole. Raggiunto tale scopo l’opera morirà, sostituita da altre ragioni di dare-avere, ma potrà rinascere qualora sia avvenuto un ribaltamento dell’attesa, cioè del gusto. In arte non esiste un tempo ma molti tempi e un discorso critico puramente sincronico non ha alcun senso. Sorge facile l’obiezione: l’appagamento dell’attesa non sarebbe forse ciò che volgarmente si chiama il successo? E il successo non è in diretto rapporto con l’industria culturale? Dove lo metteremo dunque questo orizzonte d’attesa, dove allogheremo questa metastoria in un sistema economico fatto apposta per stuzzicare orizzonti di attesa? Vien fatto di pensare al nostro Tilgher che studiava il « problema centrale » di opere che non si apersero mai su alcun orizzonte. E sarebbe forse ingiusto perché Jauss ammette una pluralità di orizzonti e di ricezioni giustificando così il caso non raro di grandi scrittori praticamente non letti da nessuno. Chi giustifica simili scrittori? Il gusto personale di pochi eletti, gli happy few che vivono nella metastoria senza forse saperlo. Ma a questo punto si riaffaccia la soggettività, ciò che non era nei voti, e il cerchio si chiude. * FIGURE L’anafora sarebbe una lungagnata? Con l’uso è scomparso anche il significato. E lo zeugma? Un imbroglio della vista o delle dita del linotipista. Non certo un reuma. Quando apparve il nome Nietzsche uno scorrettore fu licenziato.
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