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LETTERATURA: I MAESTRI: Western di cose nostre

6 Novembre 2018

di Leonardo Sciascia
[dal “Corriere della Sera”, mercoledì 26 agosto 1970]

Un grosso paese, quasi una città, al confine tra le provin­ce di Palermo e Trapani. Ne­gli anni della prima guerra mondiale. E come se questa non bastasse, il paese ne ha una interna: non meno sanguinosa, con una frequenza di morti ammazzati pari a quella dei cittadini che cadono sul fronte. Due cosche di mafia sono in faida da lungo tempo. Una media di due morti al mese. E ogni volta, tutto il paese sa da quale parte è venuta la lupara e a chi toccherà la lupara di risposta. E lo sanno anche i carabinieri. Quasi un giuoco, e con le regole di un giuoco. I giovani mafiosi che vogliono salire, i vecchi che difendono le loro posizioni. Un gregario cade da una parte, un gregario cade dall’altra. I capi stanno sicuri: aspettano di venire a pat­ti. Se mai, uno dei due, il capo dei vecchi o il capo dei giovani, cadrà dopo il patto, dopo la pacificazione: nel suc­chio dell’amicizia.

Ma ecco che ad un punto la faida si accelera, sale per i rami della gerarchia. Di soli­to, l’accelerazione ed ascesa della faida manifesta, da par­te di chi la promuove, una volontà di pace: ed è il momento in cui, dai paesi vicini, si muovono i patriarchi a in­tervistare le due parti, a riu­nirle, a convincere i giovani che non possono aver tutto e i vecchi che tutto non posso­no tenere. L’armistizio, il trat­tato. E poi, ad unificazione av­venuta, e col tacito e totale assenso degli unificati, l’elimi­nazione di uno dei due capi: emigrazione o giubilazione o morte. Ma stavolta non è così.

I patriarchi arrivano, i dele­gati delle due cosche si incon­trano: ma intanto, contro ogni consuetudine e aspettativa, il ritmo delle esecuzioni conti­nua; più concitato, anzi, e im­placabile. Le due parti si ac­cusano, di fronte ai patriar­chi, reciprocamente di slealtà.

Il paese non capisce più nien­te, di quel che sta succeden­do. E anche i carabinieri. Per fortuna i patriarchi sono di mente fredda, di sereno giu­dizio. Riuniscono ancora una volta le due delegazioni, fan­no un elenco delle vittime de­gli ultimi sei mesi e « questo l’abbiamo ammazzato noi », « questo noi », « questo noi no » e « noi nemmeno », ar­rivano alla sconcertante con­clusione che i due terzi sono stati fatti fuori da mano estra­nea all’una e all’altra cosca. C’è dunque una terza cosca segreta, invisibile, dedita allo sterminio di entrambe le co­sche quasi ufficialmente esi­stenti? O c’è un vendicatore isolato, un lupo solitario, un pazzo che si dedica allo sport di ammazzare mafiosi dell’una e dell’altra parte? Lo smar­rimento è grande. Anche tra i carabinieri: i quali, pur rac­cogliendo i caduti con una certa soddisfazione (inchiodati dalla lupara quei delinquenti che mai avrebbero potuto in­chiodare con prove), a quel punto, con tutto il da fare che avevano coi disertori, aspettavano e desideravano che la faida cittadina si spe­gnesse.

I patriarchi, impostato il problema nei giusti termini, ne fecero consegna alle due cosche perché se la sbrigassero a risolverlo: e se la svignarono, poiché ormai nessuna delle due parti, né tutte e due assieme, erano in grado di garantire la loro immunità. I mafiosi del paese si diedero a in­dagare; ma la paura, il sen­tirsi oggetto di una imperscrutabile vendetta o di un mici­diale capriccio, il trovarsi im­provvisamente nella condizio­ne in cui le persone oneste si erano sempre trovate di fronte a loro, li confondeva e intor­bidiva. Non trovarono di me­glio che sollecitare i loro uo­mini politici a sollecitare i ca­rabinieri a un’indagine seria, rigorosa, efficiente: pur nu­trendo il dubbio che appunto i carabinieri, non riuscendo ad estirparli con la legge, si fossero dati a quella caccia più tenebrosa e sicura. Se il gover­no, ad evitare la sovrappopo­lazione, ogni tanto faceva spar­gere il colera perché non pens­are che i carabinieri si dedi­cassero ad una segreta elimi­nazione dei mafiosi?

Il tiro a bersaglio dell’igno­to, o degli ignoti, continua. Cade anche il capo della vec­chia cosca. Nel paese è un senso di liberazione e insieme di sgomento. I carabinieri non sanno dove battere la testa. I mafiosi sono atterriti. Ma subito dopo il solenne fune­rale del capo, cui fingendo compianto il paese intero aveva partecipato, i mafiosi perdono quell’aria di smarrimento, di paura. Si capisce che sanno da chi vengono i colpi e che i giorni di costui sono contati. Un capo è un capo anche nella morte: non si sa come, il vecchio morendo era riuscito a trasmettere un segno,  un indizio; e i suoi sono arrivati a scoprire l’identità dell’assassino. Si tratta di persona insospettabile: un  professionista serio, stimato; di carattere un po’ cupo, di vita solitaria; ma nessuno nel paese, al di fuori dei mafiosi che ormai sapeva­no, l’avrebbe mai creduto ca­pace di quella caccia lunga, spietata e precisa che fino a quel momento aveva consegnato alle necroscopie tante di quelle persone che i carabinieri non riuscivano a tenere in arresto per più di qualche ora. E i mafiosi si erano anche ricordati della ragione per cui, dopo tanti anni, l’odio di quell’uomo contro di loro era esploso freddamente, con lucido calcolo e sicura esecuzione. C’entrava, manco a dirlo, la donna.

Fin da quando era studen­te, aveva amoreggiato con una ragazza di una famiglia incer­tamente nobile ma certamen­te ricca. Laureato, nella fer­mezza dell’amore che li lega­va, aveva fatto dei passi pres­so i familiari di lei per arri­vare al matrimonio. Era stato respinto: ché era povero, e non sicuro, nella povertà da cui partiva, il suo avvenire pro­fessionale. Ma la corrispon­denza con la ragazza conti­nuò; più intenso si fece il sen­timento di entrambi di fronte alle difficoltà da superare. E allora i nobili e ricchi parenti della ragazza fecero appello alla mafia. Il capo, il vecchio e temibile capo, chiamò il gio­vane professionista: con pro­verbi ed essempli tentò di con­vincerlo a lasciar perdere; non riuscendo con questi, passò a minacce dirette. Il giovane non se ne curò; ma terribile impressione fecero alla ragaz­za. La quale, dal timore che la nefasta minaccia si realiz­zasse forse ad un certo punto passò alla pratica valutazione che quell’amore era in ogni caso impossibile: e convolò a nozze con uno del suo ceto. Il giovane si incupì, ma non diede segni di disperazione o di rabbia. Cominciò, eviden­temente, a preparare la sua vendetta.

Ora dunque i mafiosi l’ave­vamo scoperto. Ed era condan­nato. Si assunse l’esecuzione della condanna il figlio del vecchio capo: ne aveva il di­ritto per il lutto recente e per il grado del defunto padre. Furono studiate accuratamen­te le abitudini del condanna­to, la topografia della zona in cui abitava e quella della sua casa. Non si tenne però conto del fatto che ormai tutto il paese aveva capito che i ma­fiosi sapevano: erano tornati all’abituale tracotanza, visibil­mente non temevano più l’ignoto pericolo. E l’aveva ca­pito prima d’ogni altro il con­dannato.

Di notte, il giovane vendi­catore uscì di casa col viatico delle ultime raccomandazioni materne. La casa del profes­sionista non era lontana. Si mise in agguato aspettando che rincasasse; o tentò di en­trare nella casa per sorpren­derlo nel sonno; o bussò e lo chiamò aspettandosi che com­parisse ad una data finestra, a un dato balcone. Fatto sta che colui che doveva essere la sua vittima, lo prevenne, lo aggirò. La vedova del ca­po, la madre del giovane de­legato alla vendetta, sentì uno sparo: credette la vendetta consumata, aspettò il ritorno del figlio con un’ansia che do­lorosamente cresceva ad ogni minuto che passava. Ad un certo punto ebbe l’atroce rive­lazione di quel che era effet­tivamente accaduto. Uscì di casa: e trovò il figlio morto davanti alla casa dell’uomo che quella notte, nei piani e nei voti, avrebbe dovuto es­sere ucciso. Si caricò del ra­gazzo morto, lo portò a casa: lo dispose sul letto e poi, l’in­domani, disse che su quel let­to era morto, per la ferita che chi sa dove e da chi aveva avuto. Non una parola, ai ca­rabinieri, su chi poteva aver­lo ucciso. Ma gli amici capi­rono, seppero, più ponderata­mente prepararono la ven­detta.

Sul finire di un giorno d’estate, nell’ora che tutti stavano in piazza a prendere il primo fresco della sera, seduti davanti ai circoli, ai caffè, ai negozi (e c’era anche, davanti a una farmacia, l’uomo che una prima volta era riuscito ad eludere la condan­na), un tale si diede ad av­viare il motore di un’automo­bile. Girava la manovella: e il motore rispondeva con vio­lenti raschi di ferraglia e un crepitio di colpi che somiglia­va a quello di una mitraglia­trice. Quando il frastuono si spense, davanti alla farmacia, abbandonato sulla sedia, c’era, spaccato il cuore da un colpo di moschetto, il cadavere del­l’uomo che era riuscito a se­minare morte e paura nei ran­ghi di una delle più agguer­rite mafie della Sicilia.

 

 


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Invito tutti a non inviarmi più libri in lettura. Per mancanza di tempo, e dall'11 novembre 2013 anche di salute, non posso più accontentare nessuno. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Chiedo scusa.
Bart