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LETTERATURA: MUSICA: I MAESTRI: Bob Dylan. Bob il menestrello torna al vecchio West1 Marzo 2016
di Claudio Gorlier Bob Dylan ha negato vigorosamenÂte, almeno in tempi recenti, che il suo pseudonimo rispecchia un atto di omaggio nei confronti di Dylan ThoÂmas, anche se in passato lo aveva fatÂto credere. Vedremo che ne dirĂ nella sua autobiografia, Tarantula, piĂą volÂte promessa e mai consegnata all’editoÂre Macmillan, e che dovrebbe uscire in giugno. Può anche darsi che si sia trattato di una scelta gratuita: il proÂfeta della gioventĂą americana, il canÂtore della protesta, non poteva acconÂtentarsi evidentemente di un nome baÂnale, borghese e anonimo come Bob Zimmerman. Ma Dylan, si riferisca o no a Thomas, costituisce un richiamo indicativo. Del poeta gallese, infatti, Bob ha ricalcato l’atteggiamento di « irregolare » e l’inclinazione a una forma espressiva tipicamente visionaÂria, in cui il dato realistico vale soltanÂto come punto di partenza, subito apÂpropriato dal simbolo e dall’immagine che lo supera e lo dilata, sia essa alluÂcinata e sanguigna o patetica e crepuÂscolare. Un’eco di Thomas si coglie anche nell’abbandono alla confessione che è caratteristico di una delle tante maÂschere di Bob Dylan: è il caso del braÂno autobiografico scritto per la copertiÂna di un album assai noto, The Times They Are A-Changing: « La cittĂ dove sono nato non conserva ricordi / salvo le sirene della nebbia che ululano / la nebbia piovigginosa / e le scogliere rocciose / non ho recato con me altre sensazioni / oltre le colline del Lago Superiore / la cittĂ in cui sono creÂsciuto è la sola / che mi ha lasciato con la sua ereditĂ di visioni / non era una cittĂ ricca / i miei non erano ricÂchi / non era una cittĂ povera e i miei non erano poveri / era una cittĂ moribonda / … Come si vede, un quadro abbastanza consueto della provincia monotona e un poco lugubre del Middle West, in un ricupero di ricordi di infanzia e di adolescenza tutt’altro che nuovo nella poesia americana del Novecento, con la propensione visionaria ma senza la forza dionisiaca di Thomas. E’ stata questa la tematica consueta di Bob Dylan almeno agli inizi, quanÂdo la sua carriera cominciò — nello stesso periodo e nello stesso modo di Joan Baez — con spettacoli per pochi in modesti cabarets, e la fama arrivò improvvisa grazie ai dischi di tutti gli Stati Uniti. Era all’incirca il 1960, e Bob Dylan aveva diciannove anni. Nel 1965 il supplemento del New York Times riportava i risultati di una inÂchiesta presso gli studenti di alcune UniversitĂ della Ivy League, le piĂą aristocratiche e chiuse, da cui appariÂva chiaro che Bob stava eclissando tutti gli idoli dei lettori americani. « Non me ne importa un fico dell’angst di Moses Herzog o delle fantasie personali di Norman Mailer », dichiaÂrava uno studente. « Ci interessa la minaccia di una guerra nucleare, il movimento per i diritti civili, il dilaÂgare della corruzione, del conformiÂsmo e dell’ipocrisia negli Stati Uniti, specie a Washington, e Bob Dylan è l’unico scrittore americano che si ocÂcupi di questi argomenti in un modo che significa qualcosa per noi ». CossicchĂ©, aggiungeva lo stesso intervistaÂto, Un’aspra pioggia cadrĂ , in senso letterario e in senso sociale, interessa di piĂą di un’intero volume di poesie di gente come Robert Lowell.
IL BOB « CALDO » DEGLI ANNI SESSANTA Affermazioni del genere possono sembrare sorprendenti sotto molti punÂti di vista. Intanto, vi si pone l’accento su Dylan come scrittore non meno che come cantante e autore di songs; in secondo luogo vi si ripudia un poeta del genere di Lowell, il cui imÂpegno politico e civile è ben noto, e la cui indignazione spesso ben piĂą radiÂcata e tragica di quella che traspare dai testi di Bob. Che cosa, dunque, i giovani americani (ma anche uomini di lettere e accademici, quale Richard Poirier, professore universitario e ispiratore, per così dire, della « PartiÂsan Review ») trovano o almeno troÂvavano nel Dylan « caldo » degli Anni Sessanta, sostituendolo a Salinger, a Bellow, a Mailer, e cioè agli scrittori piĂą affermati dei Cinquanta? La rispoÂsta è relativamente complessa. Intanto, Bob Dylan, a onta del suo apparente e calcolato primitivismo, della sua studiatissima istintivitĂ , si è imposto molto astutamente maschere svariate, allontanando da sĂ© quella oriÂginaria di ragazzo borghese di provinÂcia. In un luogo saggio apparso su Commentary, Ellen Willis scriveva alÂcuni mesi or sono che Bob Dylan reaÂlizza piĂą di chiunque l’equazione « ioÂaltro » di Rimbaud. Nelle diverse traÂsformazioni, la maschera di Dylan mantiene però la intensa soggettivitĂ , l’aggressiva tensione-scandita dal ritÂmo, accentuata dal disprezzo per la liÂnea melodica ridotta a pura traccia-peÂculiare della poesia beat, il suo stesso disprezzo per l’eleganza formale (e alÂlora si comprende che quanti vi si specchiano rinneghino Lowell). La maschera piĂą diretta e piĂą ovvia di Bob Dylan, o meglio ancora la sua uniforme, riconduce ancora una volta al mito ipotetico ma infallibile del weÂstern, o dell’incrocio tra uomo del west e vagabondo, il bum ripreso in narÂrativa da Kerouac o da Dahlberg. Qui, con deliberata attenzione, la messinÂscena di Dylan coincide e insieme si distingue da quella del beatnik. InfatÂti, il Dylan « ufficiale » porta i capelli lunghi e arruffati, come un eroe byroÂniano o come un cow-boy, i blue-jeans e gli stivaletti, le camicie variopinte che cinque o sei anni or sono anticipaÂvano il gusto hippy, ma il suo viso pallido e magro, non reca traccia di barba, e cioè dell’emblema naturale dell’intellettuale di avanguardia in America. Non a caso: raramente, infatÂti, l’eroe « positivo » del western ha la barba. Dylan ripropone dunque un grande archetipo americano, sin dai tempi della Frontiera, recuperato direttamente, egli è quell’eroe, non una copia. Altrettanto si può osservare della sua tecnica di compositore e di esecutore di folksongs. Anche se egli confessa il suo debito nei confronti di Woody Guthrie, il fortunato protagoÂnista della grande ripresa folk della canzone americana, Dylan va ben olÂtre la fase della riesumazione mimetiÂca, di quel tanto di ricostruzione che esiste in Guthrie o, poniamo, nel corÂrettissimo e nitido Pete Seeger. Egli trasferisce la tecnica del folksong in un contesto moderno: ne conserva inÂtatto il rituale che, come si sa, va celeÂbrato collettivamente (così accade negli hootenannies, le esecuzioni pubbliÂche, comuni in ogni campus americaÂno, ove il pubblico canta con l’esecutoÂre), ma costringe se stesso e l’ascoltaÂtore a penetrare direttamente nel cenÂtro stesso dei problemi piĂą urgenti. Dylan è diventato allora il piĂą aggresÂsivo e immediato e polemico commenÂtatore o cronista di un periodo estreÂmamente travagliato della storia ameÂricana, non un rievocatore se pure auÂtentico del passato, del « sogno ameriÂcano », dell’America innocente e inÂcontaminata. Quando si spiegava che per assumeÂre questa maschera egli si è liberato della vernice borghese e provinciale, si intendeva mettere a fuoco un processo per così dire riproducibile. Difatti, i suoi ascoltatori piĂą appassionati e parÂtecipi sono proprio dei borghesi, nei quali nasce la convinzione di poter faÂre altrettanto, esattamente come le boÂnarie spiegazioni del colonnello Glenn inducono l’americano medio a sperare di diventare, almeno con la fantasia, un coraggioso astronauta.
IO DISSI JOHN AMICO MIO A somiglianza dei menestrelli ottoÂcenteschi, Dylan prende lo spunto dalÂla cronaca, per collocarla poi su un piano generale e simbolico. La « piogÂgia » di una delle sue canzoni è la guerra atomica minacciata o temuta ai tempi della crisi di Cuba; Blowin’ in the Wind, il primo motivo davvero poÂpolare di Dylan, che raggiunse presto i juke-boxes dei piccoli ristoranti e persino delle stazioni di servizio sulle autostrade, e fu diffuso in versioni piĂą armonizzate — ad esempio da Peter, Paul e Mary — affrontava il tema delÂla rivolta dei negri, dei popoli del terÂzo mondo, delle minoranze perseguitaÂte, in una misura favolistico-epico-sentimentale; Masters of War polemizzava contro la guerra in chiave anarchiÂca, chiudendo su una nota agonistica, con la rivendicazione del proposito di sbarazzarsi appunto dei « signori della guerra ». Lo faceva, naturalmente, seÂguendo gli schemi tradizionali della ballata, con le sue iterazioni cantileÂnanti, i suoi dialoghi interni, il suo sdegno moralistico, la sua linea sovenÂte narrativa con una sorta di comÂmento o di esplosione finale; ma, sia nel testo sia nella parte musicale e nel canto, rifiutando i compiacimenti forÂmali. Equivaleva dunque alla polemica antiformalistica della poesia beat, alla reazione contro la letteratura del diÂsimpegno; lo rivelavano i testi, gremiÂti di echi della poesia populistica degli Anni Trenta, ma anche e soprattutto la voce rauca, l’insistenza sullo slang, la provocazione contenuta nella sfida a ciò che compiace l’orecchio. Scriveva Dylan nelle note pubblicaÂte sul rovescio di un album che pure introduce alla sua nuova maniera, Bringing It All Back Home: Le mie canzoni sono scritte tenendo a mente il borbottio del bollitore / un tocco di tutti i colorì angosciosi / … ho cessato di fare qualunque tentativo di ragÂgiungere la perfezione / … le mie poeÂsie sono scritte su un ritmo di distorÂsione antipoetica / con una linea meÂlodica, un ronron di vuota descrittivitĂ / vista a volte attraverso scuri ocÂchiali da sole / e altre forme di esploÂsione psichica ». Che egli sapesse bene a chi si apÂpuntava la polemica appare da talune esplicite allusioni, come quella piena di disprezzo per gli scrittori e critici abituati a far profezie, o come in Desolation Row: Il Titanio salpa all’alba / … Ezra Pound e T. S. Eliot si accapiÂgliano sulla plancia del capitano / mentre cantanti di calipso gli ridono in faccia e i pescatori tengono fiori in mano. La dissacrazione di una intera etĂ prelude al messaggio hippy, e Mr. Tambourine Man diverrĂ proprio un breviario hippy, sforzandosi di trasfeÂrire nel canto e nel ritmo l’estasi anÂnebbiata e sonnolenta dell’individuo in preda ai paradisi artificiali dell’LSD. Cambiano i tempi, declama Dylan, offrendo all’insofferenza un poco semÂplicistica dei giovani una sorta di inÂno, la sanzione del rifiuto delle giovaÂni generazioni. E di tanto in tanto, proprio per venire incontro non senza indulgenza alle inclinazioni piĂą suÂperficiali e correnti dei suoi ascoltatoÂri, si concederĂ delle parentesi di guÂsto schiettamente goliardico, come in I Shall Be Fee: « Il mio telefono suoÂnava, non voleva piantarla, era il PreÂsidente Kennedy che mi chiamava. / Disse, Bob, amico mio, di che cosa abÂbiamo bisogno per fare grande questo Paese? / Io dissi, John, amico mio, BriÂgitte Bardot ». Ma l’altra maschera, anch’essa sin dall’inizio, era quella del vagabondo, e lo abbiamo giĂ accennaÂto. Dylan diventava un Huckleberry Finn adulto, spintosi verso il West; colui che non può arrestarsi mai, che non trova una ragazza capace di riÂcambiarlo, e prosegue senza mĂ©ta, inÂvitando la donna interessata e meschiÂna, ironicamente, a « non pensarci soÂpra », perchĂ© va bene così: è il ritratto della misoginia che a suo tempo Fiedler individuò come uno dei caratteri prevalenti della cultura americana. FISCHIATO AL FESTIVAL DI NEWPORT SenonchĂ© a un dato momento la tenÂsione che tende il canto di Dylan si atÂtenua e si stempera. Non che egli sia stato mai impegnato in senso politico: non aveva forse invitato, piuttosto che seguire i leaders, ad andar dietro a parchimetri? Desolation Row — ha scritto non del tutto a sproposito la Willis — è il suo crepuscolo degli dèi. Dylan va in Inghilterra, ascolta i BeaÂtles, dai quali si scosterĂ poi quasi con ribrezzo secondo le sue stesse dichiaÂrazioni, e ritorna in America con il rock, che non ha nulla a che fare con il folksong, ma anzi vi contrasta, proÂdotto commerciale contro folklore poÂpolare e nativo. I suoi fedelissimi lo fischiano, sentendosi traditi, al festival di Newport. Giungiamo allora poco per volta al Dylan « freddo », in certo senso, con l’abbandono pressochĂ© totaÂle del canto politico e persino delle professioni care agli hippies. Di questo nuovo periodo nell’opera di Bob Dylan il documento piĂą tipico è l’album di due dischi che si chiama Blonde on Blonde. Dylan va a incidere i dischi a Nashville, e non soltanto perchĂ© vi si trovano dei grossi studi della CBS, gli stessi dove registrava Elvis Presley. Nashville nel TennesÂsee, infatti, è una delle capitali della country music, il filone al quale Dylan si indirizza, servendosi anche, per l’acÂcompagnamento, di un organico che comprende alcuni specialisti del geneÂre, da Charlie McCoy a Wayne Moss. La parte musicale diviene piĂą elaboraÂta, il canto di Dylan meno teso e ansiÂmante. Le composizioni durano il dopÂpio o il triplo delle precedenti: una, che occupa un’intera facciata (Sad Eyed Lady of the Lowlands) addiritÂtura piĂą di undici minuti. Dylan offre la mano alla poesia narrativa, alla balÂlata del Sud di mediazione inglese, alÂla poesia — si sarebbe tentati di dire — di Robert Penn Warren. Rimane l’elemento dialettale, la misura colloÂquiale, con una accentuazione dell’iroÂnia quasi per difendersi dal patetico che talvolta irrompe nei testi e nelÂl’andatura musicale. La polemica poliÂtica è virtualmente scomparsa: la country music risente di tanto in tanÂto, ma moderatamente, del rock. RITORNO AGLI EROI DELLE BALLATE DEL SUD E’ questa l’ultima maschera di DyÂlan, che riprende e amplifica una delle precedenti: il vagabondo (lo hobo, inÂtraducibile parola della Frontiera), il bandito gentiluomo (come Jesse JaÂmes, «amico dei poveri»), l’innamorato respinto che lamenta quanto sia alta la finestra dell’amata restìa a scendere. Ancora un passo e si arriva all’ultimo disco di Dylan, ora molto parco di apÂparizioni pubbliche, specie dopo il miÂsterioso incidente motociclistico che, secondo alcuni, lo aveva sfigurato. SiaÂmo al 1968: il disco si chiama John Wesley Harding, dal nome di uno deÂgli eroi delle ballate, e Dylan vi figura con gli accompagnatori di Blonde on Blonde. La conversione alla country music del Sud sembra ormai totale: come i pionieri, Dylan si è messo in marcia verso le terre inesplorate. Ma c’è di piĂą: in almeno una delle compoÂsizioni, I’ll Be Your Baby Tonight, egli si avvicina sensibilmente — diÂremmo sorprendentemente — a un geÂnere tutto particolare di country muÂsic piuttosto edulcorata e commerciale che ha la sua patria proprio a NashvilÂle, la Grand 0l’ Opry_, eseguita in pubÂblico e diffusa per radio in un curioso teatro tra manifestazioni di entusiaÂsmo e di adesione indescrivibile per chi non le abbia esperimentate di perÂsona. Ormai Dylan canta, nella ecceÂzione piĂą ovvia del termine, e ricorre a una dizione ben netta e intelligibile. L’unica canzone impegnata, I Pity the Poor Immigrant, pare soprattutto un lamento popolare di gusto fin de siecle. Abbandonato l’impegno civile caro a Greenwich Village, al campus univerÂsitario, ai quartieri dei bohèmiens caliÂforniani, Dylan si volge al filone ruraÂle, malinconico, solitario, dei grandi spazi del Sud e del Sud-ovest. Sulla coÂpertina di John Wesley Harding DyÂlan appare in vesti campagnole, con una sottile barba da adolescente timiÂdo, attorniato da un vecchio contadino e da due indiane. Egli è tornato dunÂque al grande serbatoio dei miti della vecchia America, alla riconciliazione col Buon Selvaggio, al consorzio col cercatore di piste o col dissodatore di terre vergini. In altri termini, al sogno americano della Frontiera, che, lo sappiamo beÂne, esiste soltanto nell’invenzione dei cronisti o degli scrittori sopraggiunti dopo per la sua consacrazione, nel folÂklore musicale o delle favole orali, ma che serve quale antidoto e romantico reagente alla realtĂ ambigua e irritanÂte dell’America di oggi.
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