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LETTERATURA: PITTURA: I MAESTRI: Beardsley. Un cuore d’educanda14 Luglio 2015
di Gabriele Baldini La fama di Audrey Beardsley, creÂsciuta enormemente negli ultimi anÂni, anche presso di noi, non fosse altro che per la riabilitazione dell’art nouveau, è legata soprattutto alle sue famose illustrazioni del Ricciolo rapito del Pope, della Salome del Wilde e delle annate delle riviste deÂcadenti The Yellow Book e The SaÂvoy. Ma c’è da proporre anche un Beardsley scrittore, importante proÂprio per il suo valore di integrazione del Beardsley grafico. L’artista morì a ventisei anni nel 1898, e non potĂ©, per ragioni materiaÂli, lasciar molti scritti, tanto piĂą che la sua lussureggiante opera di diseÂgnatore scorciò anche il pochissimo tempo che gli fu prescritto. E quando, a sei anni dalla morte, l’editore John Lane pubblicò una cosiddetta edizione delle sue « opere letterarie complete », si vide che oltre le prinÂcipali, e giĂ famose, come il racconto Under the Hill (Sotto la collina, o meglio, sciogliendo il sottinteso: SotÂto il monte di Venere), e The Ballad of the Barber, c’era solo una manÂciata sparuta di aforismi, di poesie, di lettere. La Ballata del Barbiere — una saÂdica allegoria del movimento decaÂdente inglese, dettata in versi squisiÂti e torniti secondo la piĂą collaudata tradizione — ha trovato il suo posto nelle antologie, ora persino scolastiÂche. Ma per Under the Hill l’acclimatamento nella cultura ufficiale non specializzata fu difficile. Iniziato nel 1894, il racconto non fu mai terminaÂto, e quando se ne pubblicarono quatÂtro capitoli in The Savoy (1896), una metĂ quasi del manoscritto fu costretÂta a restare inedita. L’edizione inteÂgrale e postuma, del 1907, si rassegnò a circolare solo privatamente, per l’audacia di alcuni passaggi erotici. E del resto questi erano tutti espunti e mascherati anche nell’edizione Lane delle « opere letterarie ». Ora il testo di Under the Hill è accessibile a tutti, addirittura in paÂperback — a sconsacrare l’antico ostraÂcismo — nell’antologia Aestethes and Decadents, a cura di Karl Beckson (New York, Random House) e a nesÂsuno verrebbe in mente di sequestrarÂlo, credo, anche se è sintomatico che l’opera veda la luce negli Stati Uniti e non in Inghilterra. GiacchĂ© non solo quel che sembrava allora pornografia è ora amministrato dallo scrupolo fiÂlologico (di per se stesso garante), ma è stato largamente diffuso, oltre che dalla letteratura di piĂą specchiaÂta reputazione — che l’ha reso asettiÂco — anche da quella di consumo, e soprattutto dalla pubblicitĂ , dalla « nostra pubblicitĂ quotidiana », in specie da quella che s’interessa a proÂpagandare i prodotti intesi alla puliÂzia corporale (saponi, bagni spuma, crema o anche soltanto rasoi elettriÂci), che è andata a frugare nell’intiÂmitĂ del corpo umano molto piĂą adÂdentro che non il discreto educato Beardsley. Anche gli occhi casti dei bambini, oggi, in specie alla televisione, deliÂbano distrattamente certe combinazioÂni beardsleyane divenute ormai moÂneta corrente per la « persuasione ocÂculta ». Difatto, le perversioni dello scrittore consistono soprattutto in una sorta di elencazione e descrizione miÂnuziosissima di parti segrete: ma non è proprio la loro funzione che l’inteÂressa. Tanto che viene in mente Whitman: si tratta di una analoga combiÂnazione di inibizione e sfrenatezza. Il titolo originale dell’opera — coÂme avverte il Beckson — era La StoÂria di Venere e Tannhauser: oltre l’opera giovanile di Wagner, il racÂconto metteva a frutto letture attente di Swinburne e di William Morris. Ma è chiaro che Beardsley non aveÂva la mano a mandare avanti coerenÂtemente una narrazione, e il framÂmento, presto impantanatosi, ci preÂserva solo una analisi infinitesimale del cerimoniale per la toletta di VeÂnere (con raffinatezze rubate al PoÂpe), la sontuosa cena che segue con la sua metamorfosi in festino e, poi, in orgia, nonchĂ© le effusioni private di Venere e del poeta Tannhauser, le abluzioni mattutine d’entrambi, il « petit dĂ©jeuner », programmi di balli e di concerti e persino una esecuzioÂne dello Stabat Mater di Rossini, evoÂcata per il sottile brivido di empieÂtĂ che può produrre la mescolanza non solo del sacro e del profano, ma dell’erotismo col misticismo: ma sono tutti mezzi piĂą per ritardare che per afferrare l’occasione: Beardsley non è Tallement de RĂ©aux. Il titolo del racconto prometteva di ricoprire tutt’intera la materia svolÂta da Wagner — in cui erano giĂ quelÂle misture, anche lì non operanti per eccesso di candore e d’ottimismo — ma Beardsley si arrestò alla scena preliminare del Venusberg, e al BacÂcanale che vi si svolge, aggiunta di Wagner alla partitura originale poco meno che vent’anni dopo da che l’opera circolava, per la famosa edizione parigina del 1861. In altre parole Beardsley, oltre che rassegnarsi e anche un po’ abbandonarsi alla propria impotenza, dovette fare qualche calcolo sulla pĂ tina che l’incompiutezza avrebbe acquistata al suo testo che, così, si sarebbe allineato civettosamente con altri famosi « torsi » letterari inglesi, come I racconti di CanÂterbury del Chaucer, la Regina delle Fate dello Spenser e l’Iperione del Keats. Difatto, non si può immaginaÂre alcuna continuazione a quanto ci è stato lasciato. La favola comincia a stuccare proprio nel momento in cui s’interrompe. Beardsley, genio minore, ma di sorvegliatissima misura, intese che scoÂraggiare la sazietĂ era la sola soluzioÂne che mantenesse una qualche freÂschezza al racconto, senza contare che era anche la sola a cui egli potesse riÂsolversi. La prosa è preziosa, screziaÂta, lavorata al cesello, al bulino, e insieme è semplice, chiara, tersa, trasparente: curiosamente insieme soÂvraccarica e anemica. Se i temi fanÂno pensare alla nostalgia per Petronio, lo stile richiama la nostalgia per i segreti ormai perduti dello stile di sir Thomas Malory (XV sec.) del quale Beardsley aveva splendidamente ilÂlustrato, a vent’anni, La morte d’ArtĂą. Venere e Tannhäuser — ma nessuno s’aspettava di piĂą — sono solo maÂnichini anche nella versione integraÂle: men che i loro sentimenti, non conosciamo nemmeno i loro gesti. Ma delle loro vesti sfarzose e del pesante rituale che s’accompagna all’indossarle e allo sporgliarsene non c’è riÂsparmiato nulla. Le famose illustrazioni dell’autore commentano, bensì, e condizionano la lettura, ma in questo caso credo che stèntino ad adeguarsi ai valori della pagina: sono, infatti, e proprio dal punto di vista grafico, troppo affastellate e come acÂcavallate, e di tutto il cĂ none figuraÂtivo del Beardsley ci offrono forse l’unico esempio di disordine e persiÂno di abborracciamento. Non furono pensate e attuate — con qualche ecÂcezione, naturalmente — nello stesso stato di grazia con cui fu elaborata e poi pensata la prosa. Anche come scrittore, Beardsley è troppo scaltro e addottrinato perchĂ© il clima di tanÂto delicate perversioni non aspetti il commento grafico e venga evocato luÂcidamente solo dalla scelta mai diÂstratta e approssimativa dei vocaboli spremuti da un lessico sovrano esperÂto di monelle e insieme sapienti inÂcrostazioni dal latino dall’italiano dal francese dallo spagnolo e dal tedesco (un tedesco piĂą viennese che prusÂsiano). Alle orge, oltre i protagonisti, e il loro corteggio, prendon parte esseri deformi e animali domestici e non, soprattutto immaginari: nanerottoli infami, immondi gnomi, eunuchi turÂpemente gonfi, sfasciumi di mezzaÂne col triplo mento e la veletta, berÂtucce e cocorito, sĂ tiri sfingi e unicorÂni. Ma tutto con grande ordine, come dirottato da un melanconico coreograÂfo senza energia: niente ridda, nienÂte strida ma solo fruscio sommesso di sete e damaschi, scandito da pĂ lpiti di tulle. Se il Beardsley grafico è in bianco e nero — inchiostro di china: qualcoÂsa che cerca di bilanciarsi tra il rigoÂre delle piĂą lavorate acqueforti di DĂĽrer e la sommessa melodia borgheÂse delle silhouette settecentesche — il Beardsley prosatore è a colori, anÂche se smorzati e di palude: vengono in mente FĂĽssli e Gustave Moreau. Letterariamente, potĂ© influenzare, nella sfera piĂą frivola e superficiale, Ronald Firbank, ma anche, anticipanÂdo una problematica piĂą scottante, poÂtĂ© penetrare nell’officina linguistica di Joyce e incoraggiarne il gioco, il rovello verbale. D’altra parte, il nuoÂvo successo di Beardsley si può spieÂgare in molti modi: anzitutto che le faÂtali scadenze che cancellano man maÂno tutto quanto si deposita, il ridicolo, di goffo e anche soltanto di buffo, in codesta sorta di rabeschi giĂ tanto alÂla moda. Poi saranno anche da metÂter nel conto le ambiguitĂ , o meglio le polivalenze sessuali che oggidì tanÂto insaporiscono i mass media: il piaÂcere, direi, dello sdilinquimento di per se stesso, cui ora va tolto ogni significato negativo o comunque limiÂtativo, perchĂ© gli va tolto qualsiasi siÂgnificato tout court. Ripetere che tutto questo rientra nella riabilitazione dello stile floreale, è superfluo. Sarebbe forse piĂą utile vedere quanto rientri, invece, nel nuovo interesse per l’« industrial deÂsign », per « Kunsthandwerk », per l’arte applicata. GiĂ si son viste vaÂriazioni sui modelli beardsleyani neÂgli atĂ©liers della moda parigina e nesÂsuno ha mai messo in dubbio i loro saldi imparentamenti con la « haute couture ». La proposta è legittima e investe valori autentici, ma avvieÂne col sottinteso di declassare, in qualÂche modo, il prodotto, chĂ© il suo siÂgnificato artigianale è preponderante. Forse l’ala della grande arte non fu smossa perchĂ©, curiosamente, la perÂversione di Beardsley è frutto di canÂdore, innocente e impotente insieme. Artisti contemporanei o comunque aggiranti il campo di Beardsley come Arnold Boeklin o Gustav Klimt porÂtarono nella loro perversione una conÂsapevolezza, una accettazione delle ulÂtime conseguenze della sfida che viviÂfica la loro espressione oltre il segno: in essi si sente l’esultanza se non proÂprio di essersi dannata l’anima, d’esÂsersi fatta almeno amica la gorgòne e assicurati i favori della bellezza medusea. In Beardsley, anche e proprio nei piĂą spericolati disegni pornografici, le falloforie insieme fantastiche e realiÂstiche per la Lisistrata di Aristofane, palpita un cuore d’educanda. Quel che lo limita come artista è la rinunzia al rischio. E anche le sue prose, del resto guÂstosissime, non sfuggono al sospetto d’alcunchĂ© di goliardico: ma in un clima intirizzito da fine di carnevale, con troppe voglie rientrate. Letto 1561 volte.

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