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LETTERATURA: STORIA: Dal monastero di Palma

20 Ottobre 2018

di Leonardo Sciascia
(dal “Corriere della Sera”, martedì 27 gennaio 1970]

« Stavano tutte le Sorelle radunate in ricreazione, e ragionandosi del Signore, si disse come fra breve si sarìa detto da lui: Ductus est Jesus in desertum. Alla qual cosa si commosse un comune sentimento di volere seguire spiritualmente il Signore in una di quelle bestie che trovò il Signore in quel bosco solitario. Sicché vi fu chi disse: io sono stata per l’addietro Capretta errante in ogni male, bensì cambierò mia sorte seguendo il Santo Romito come mansueta pecorella tacita, e paziente ad ogni mia ripugnanza… Altra rispose: ed io Madre, confesso essere stata nel male Lupo voracissimo; e voglio emendarmi seguendo il Santo Romito come umile Asinello, caricandomi di tante mortificazioni per quanto carico va questo giumento.

« A questa, Suor Maria Mad­dalena rispose: ed io, quando sono stata loquacissima Rana, tanto seguirò emendata il nostro buon Romito, fatta per suo amore muta e ritirata te­stuggine, facendo la mia ta­na nella terra vilissima del co­noscimento proprio, ove mi nasconderò ai Piedi di Gesù Cristo. Velenoso serpente io sono stata, altra soggiunse, e sarò per l’avvenire mesta Tortorella, piangendo ai piedi del Signore li miei peccati, unica causa della sua amara morte, escludendo nella mia viduità l’affetto di ogni altra creatura.

Confessò d’essere stata Volpe fugace, Maria Lanceata nostra sorella, e per seguire il Signore propose di divenire mansueto Coniglietto, il qua­le per suo naturale raccoglimento congiunge il capo coi piedi: così ella farà ritirando­li tanto in se stessa in un san­to raccoglimento fino a che giunti insieme questi due estremi, cioè il suo cuore e Dio, stia come dormendo cogli occhi serrati a tutto ciò che sta nel mondo.

«Qui si svegliò il Leone feroc­issimo del mio cuore, e per miracolo di Dio si compunse alquanto proponendo lasciar la sua ferocia con divenire Agnello, cambiando il suo ruggito in muto silenzio, por­tando il mio cuore ove Iddio lo vuole, che se egli mi meni al macello paziente vi andrò, sicut agnus ductus ad occisionem. Così seguirono tutte di mano in mano, destinandoci tutte vilissime bestie dietro il nostro Santo Romito. E fini­ta questa santa ricreazione, andò questo stuolo di devoti animali a riporsi unitamente all’ovile di Maria nostra Si­gnora… Così in santo fervore si diede principio alla nostra quaresima; e per isprone del nostro interno la Madre Ab­adessa ha fatto sopra que­llo alcuna visibile dimostra­zione, poiché avendoci porta­te tutte al giardino, trovam­mo in un devotissimo luogo nostro Signore in età di anni trenta, vestito come appunto andava per il mondo, stando sotto un albero mestissimo, seduto con una mano alla ma­scella e con l’altra tenendo un fazzoletto. Poiché essendo movibile, ora lo poniamo in luogo ora in un altro… e per la bellezza della faccia e for­ma corporale ci fa veramente versare molte lacrime… ».

*

E’ una pagina allucinante: e sui monasteri dice più di quello che potevano imma­ginare o intravedere Diderot e Manzoni; e di più tremendo. L’ha scritta Suor Maria Cro­cifissa della Concezione, del­l’ordine di San Benedetto, al secolo Isabella Tomasi. Si tro­va in un volume di sue let­tere spirituali pubblicato a Venezia nel 1711. E’ diretta al fratello Giuseppe Maria, chierico regolare, e porta la data del 5 marzo 1675.

Suor Maria Crocifissa scrive dal monastero di Palma Montechiaro, dove era entrata a quattordici anni e preso i voti a diciassette. Il padre, che fu poi detto il duca santo, aveva fatto edificare per lei il monastero: e vi entrarono poi altre tre sorelle e la ma­dre. Già era in fama di santi­tà lo zio, che giovanissimo era fuggito dal fidanzamento con la nipote del vescovo di Agri­gento e dai diritti di primo­genitura, lasciando quella e questi al fratello minore Giu­lio. Il quale, dopo avere avu­to otto figli dalla nipote del vescovo, investiva il figlio Ferdinando dei titoli e dei be­ni e con dispensa papale si separava dalla moglie: lui a far vita da romito, lei nel mo­nastero con le figlie. Giusta­mente dice Gioacchino Lanza Tomasi, nel bel libro (suo e del fotografo Enzo Sellerio) Monasteri e castelli siciliani che « l’esperienza mistica dei Tomasi di Palma è un episodio appartato nella storia di Sicilia… Un episodio estremamente vigoroso, condotto con caparbia tenacia ».

Per due generazioni, in quella loro remota terra di Palma, i Tomasi sono stati segnati da una vocazione mistica i cui effetti – sui loro corpi, sulle loro anime  – ci riempiono di spavento e di orrore più che le pagine di Sade e di Masoch. E, insieme un sentimento di rispetto, di venerazione, un senso di orrore misto a pietà dovevano provare quei loro poveri vassalli di Palma: ed è toccante l’episodio dei po­polani che volevano impedire alla duchessa madre di sepa­rarsi dal marito e di entrare nel monastero, sicché dovette farlo di mattina presto, prima dell’alba (Andrea Vitello, I gattopardi di Donnajugata).

E tuttavia, dal loro cupo e torbido misticismo si leva una ansiosa umiltà, una dedizione alla miseria e al dolore degli altri, una volontà di allevia­re e di servire. Il duca si sco­priva il capo quando parlava con qualsiasi persona, « ancor­ché menoma servente o fameglio della sua corte »; non gradiva gli atti di ossequio e, per dimostrarlo, una volta si mise in ginocchio di fronte a un vassallo che gli si era in­ginocchiato; non volle mai comprare schiavi; non amava che si scrivesse dei meriti della sua famiglia. Una can­tilena popolare, certamente ve­nuta fuori a Palma dopo la sua morte, enumera i suoi atti di carità, di amore verso i vas­salli: i due scudi lasciati nelle case degli ammalati, le noccio­le regalate ai bambini, il ge­neroso salario ai muratori, la dote alle orfane, la farina al­le famiglie povere… E ugual­mente ansiosa di servire era la figlia suor Maria Crocifis­sa che in convento voleva te­nere un ruolo più da conver­sa che da « signora » e tra le converse voleva essere seppel­lita.

Ma forse in questo loro far­si umili e servire, in questo loro costringersi alla tolleran­za e al rispetto, non c’era mi­nore sofferenza che nel fla­gellarsi a sangue, nell’incidersi le carni coi nomi di Cristo e di Maria, nel dormire sui sarmenti, nello strisciare la lingua a terra. Tant’è, però, che in quel secolo atroce esercitavano il loro potere incontrollato, le loro vaste prerogative, con un fervore di carità talmente inconsueto da restare memorabile nel popolo di quella ancora amara terra di Palma.

*

Quasi tre secoli dopo, Giuseppe Tomasi scriveva Il gattopardo. A quella greve esperienza mistica che due generazioni di suoi antenati avevano corso nel XVII secolo poteva guardare con spirito volteriano e stendhaliano: co­me ad una follia e come ad una di quelle storie di pas­sioni che Stendhal avrebbe fatto rilegare a « dorso ros­so ». Scoprendo in un arma­dio fruste e cilizi, Tancredi s’inquieta, «ebbe paura, an­che di se stesso ». Dice ad Angelica: « Andiamo via, ca­ra, qui non c’è niente di in­teressante ». Ma lui, Lampe­dusa, non ha paura. Ha bevuto in ben altre cantine, è di­staccato da ogni follia, da ogni passione, o almeno sem­pre pronto a contemperare la follia con la saggezza, la passione con lo scetticismo.

« In quella stanza Giuseppe Corbera, duca di Salina, si fustigava solo, al cospetto del proprio Dio e del proprio feu­do, e doveva sembrargli che le gocce del sangue suo an­dassero a piovere sulle terre per redimerle: nella sua pia esaltazione doveva sembrar­gli che solo mediante questo battesimo espiatorio esse di­venissero realmente sue, san­gue del suo sangue, carne del­la sua carne… ». Una espe­rienza mistica viene così tra­sferita nella sfera della più parossistica feudalità, si ro­vescia in quello che è appun­to il suo contrario: l’amore ai beni terreni, alle cose, alla roba.

Giuseppe Corbera è appun­to il duca santo. Così come la beata Corbera è suor Maria Crocifissa. E qui insorge uno dei piccoli problemi onoma­stici e toponomastici del Gat­topardo. Perché ha mutuato questo nome a quello della sua famiglia è evidente: i Cor­bera, famiglia estinta, erano stati signori di Santa Marghe­rita Belice, paese che nella fantasia di Giuseppe Tomasi si fonde a Palma Montechiaro. Ma perché chiamare con quel solo nome, Corbera, la beata Maria Crocifissa? Probabil­mente penso a quella Eufrosi­na Corbera che, amante di Marcantonio Colonna a Paler­mo e poi moglie di Lelio Mas­simo a Roma, provocò trage­die degne delle Cronache ita­liane di Stendhal. Non sen­za ironia, forse nella sua im­maginazione una figura della passione mistica sostituì la fi­gura della passione erotica.

 


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Bart