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LETTERATURA: STORIA: Dal monastero di Palma20 Ottobre 2018
di Leonardo Sciascia « Stavano tutte le Sorelle radunate in ricreazione, e ragionandosi del Signore, si disse come fra breve si sarìa detto da lui: Ductus est Jesus in desertum. Alla qual cosa si commosse un comune sentimento di volere seguire spiritualmente il Signore in una di quelle bestie che trovò il Signore in quel bosco solitario. Sicché vi fu chi disse: io sono stata per l’addietro Capretta errante in ogni male, bensì cambierò mia sorte seguendo il Santo Romito come mansueta pecorella tacita, e paziente ad ogni mia ripugnanza… Altra rispose: ed io Madre, confesso essere stata nel male Lupo voracissimo; e voglio emendarmi seguendo il Santo Romito come umile Asinello, caricandomi di tante mortificazioni per quanto carico va questo giumento. « A questa, Suor Maria Maddalena rispose: ed io, quando sono stata loquacissima Rana, tanto seguirò emendata il nostro buon Romito, fatta per suo amore muta e ritirata testuggine, facendo la mia tana nella terra vilissima del conoscimento proprio, ove mi nasconderò ai Piedi di Gesù Cristo. Velenoso serpente io sono stata, altra soggiunse, e sarò per l’avvenire mesta Tortorella, piangendo ai piedi del Signore li miei peccati, unica causa della sua amara morte, escludendo nella mia viduità l’affetto di ogni altra creatura. Confessò d’essere stata Volpe fugace, Maria Lanceata nostra sorella, e per seguire il Signore propose di divenire mansueto Coniglietto, il quale per suo naturale raccoglimento congiunge il capo coi piedi: così ella farà ritirandoli tanto in se stessa in un santo raccoglimento fino a che giunti insieme questi due estremi, cioè il suo cuore e Dio, stia come dormendo cogli occhi serrati a tutto ciò che sta nel mondo. «Qui si svegliò il Leone ferocissimo del mio cuore, e per miracolo di Dio si compunse alquanto proponendo lasciar la sua ferocia con divenire Agnello, cambiando il suo ruggito in muto silenzio, portando il mio cuore ove Iddio lo vuole, che se egli mi meni al macello paziente vi andrò, sicut agnus ductus ad occisionem. Così seguirono tutte di mano in mano, destinandoci tutte vilissime bestie dietro il nostro Santo Romito. E finita questa santa ricreazione, andò questo stuolo di devoti animali a riporsi unitamente all’ovile di Maria nostra Signora… Così in santo fervore si diede principio alla nostra quaresima; e per isprone del nostro interno la Madre Abadessa ha fatto sopra quello alcuna visibile dimostrazione, poiché avendoci portate tutte al giardino, trovammo in un devotissimo luogo nostro Signore in età di anni trenta, vestito come appunto andava per il mondo, stando sotto un albero mestissimo, seduto con una mano alla mascella e con l’altra tenendo un fazzoletto. Poiché essendo movibile, ora lo poniamo in luogo ora in un altro… e per la bellezza della faccia e forma corporale ci fa veramente versare molte lacrime… ». * E’ una pagina allucinante: e sui monasteri dice più di quello che potevano immaginare o intravedere Diderot e Manzoni; e di più tremendo. L’ha scritta Suor Maria Crocifissa della Concezione, dell’ordine di San Benedetto, al secolo Isabella Tomasi. Si trova in un volume di sue lettere spirituali pubblicato a Venezia nel 1711. E’ diretta al fratello Giuseppe Maria, chierico regolare, e porta la data del 5 marzo 1675. Suor Maria Crocifissa scrive dal monastero di Palma Montechiaro, dove era entrata a quattordici anni e preso i voti a diciassette. Il padre, che fu poi detto il duca santo, aveva fatto edificare per lei il monastero: e vi entrarono poi altre tre sorelle e la madre. Già era in fama di santità lo zio, che giovanissimo era fuggito dal fidanzamento con la nipote del vescovo di Agrigento e dai diritti di primogenitura, lasciando quella e questi al fratello minore Giulio. Il quale, dopo avere avuto otto figli dalla nipote del vescovo, investiva il figlio Ferdinando dei titoli e dei beni e con dispensa papale si separava dalla moglie: lui a far vita da romito, lei nel monastero con le figlie. Giustamente dice Gioacchino Lanza Tomasi, nel bel libro (suo e del fotografo Enzo Sellerio) Monasteri e castelli siciliani che « l’esperienza mistica dei Tomasi di Palma è un episodio appartato nella storia di Sicilia… Un episodio estremamente vigoroso, condotto con caparbia tenacia ». Per due generazioni, in quella loro remota terra di Palma, i Tomasi sono stati segnati da una vocazione mistica i cui effetti – sui loro corpi, sulle loro anime – ci riempiono di spavento e di orrore più che le pagine di Sade e di Masoch. E, insieme un sentimento di rispetto, di venerazione, un senso di orrore misto a pietà dovevano provare quei loro poveri vassalli di Palma: ed è toccante l’episodio dei popolani che volevano impedire alla duchessa madre di separarsi dal marito e di entrare nel monastero, sicché dovette farlo di mattina presto, prima dell’alba (Andrea Vitello, I gattopardi di Donnajugata). E tuttavia, dal loro cupo e torbido misticismo si leva una ansiosa umiltà, una dedizione alla miseria e al dolore degli altri, una volontà di alleviare e di servire. Il duca si scopriva il capo quando parlava con qualsiasi persona, « ancorché menoma servente o fameglio della sua corte »; non gradiva gli atti di ossequio e, per dimostrarlo, una volta si mise in ginocchio di fronte a un vassallo che gli si era inginocchiato; non volle mai comprare schiavi; non amava che si scrivesse dei meriti della sua famiglia. Una cantilena popolare, certamente venuta fuori a Palma dopo la sua morte, enumera i suoi atti di carità, di amore verso i vassalli: i due scudi lasciati nelle case degli ammalati, le nocciole regalate ai bambini, il generoso salario ai muratori, la dote alle orfane, la farina alle famiglie povere… E ugualmente ansiosa di servire era la figlia suor Maria Crocifissa che in convento voleva tenere un ruolo più da conversa che da « signora » e tra le converse voleva essere seppellita. Ma forse in questo loro farsi umili e servire, in questo loro costringersi alla tolleranza e al rispetto, non c’era minore sofferenza che nel flagellarsi a sangue, nell’incidersi le carni coi nomi di Cristo e di Maria, nel dormire sui sarmenti, nello strisciare la lingua a terra. Tant’è, però, che in quel secolo atroce esercitavano il loro potere incontrollato, le loro vaste prerogative, con un fervore di carità talmente inconsueto da restare memorabile nel popolo di quella ancora amara terra di Palma. * Quasi tre secoli dopo, Giuseppe Tomasi scriveva Il gattopardo. A quella greve esperienza mistica che due generazioni di suoi antenati avevano corso nel XVII secolo poteva guardare con spirito volteriano e stendhaliano: come ad una follia e come ad una di quelle storie di passioni che Stendhal avrebbe fatto rilegare a « dorso rosso ». Scoprendo in un armadio fruste e cilizi, Tancredi s’inquieta, «ebbe paura, anche di se stesso ». Dice ad Angelica: « Andiamo via, cara, qui non c’è niente di interessante ». Ma lui, Lampedusa, non ha paura. Ha bevuto in ben altre cantine, è distaccato da ogni follia, da ogni passione, o almeno sempre pronto a contemperare la follia con la saggezza, la passione con lo scetticismo. « In quella stanza Giuseppe Corbera, duca di Salina, si fustigava solo, al cospetto del proprio Dio e del proprio feudo, e doveva sembrargli che le gocce del sangue suo andassero a piovere sulle terre per redimerle: nella sua pia esaltazione doveva sembrargli che solo mediante questo battesimo espiatorio esse divenissero realmente sue, sangue del suo sangue, carne della sua carne… ». Una esperienza mistica viene così trasferita nella sfera della più parossistica feudalità, si rovescia in quello che è appunto il suo contrario: l’amore ai beni terreni, alle cose, alla roba. Giuseppe Corbera è appunto il duca santo. Così come la beata Corbera è suor Maria Crocifissa. E qui insorge uno dei piccoli problemi onomastici e toponomastici del Gattopardo. Perché ha mutuato questo nome a quello della sua famiglia è evidente: i Corbera, famiglia estinta, erano stati signori di Santa Margherita Belice, paese che nella fantasia di Giuseppe Tomasi si fonde a Palma Montechiaro. Ma perché chiamare con quel solo nome, Corbera, la beata Maria Crocifissa? Probabilmente penso a quella Eufrosina Corbera che, amante di Marcantonio Colonna a Palermo e poi moglie di Lelio Massimo a Roma, provocò tragedie degne delle Cronache italiane di Stendhal. Non senza ironia, forse nella sua immaginazione una figura della passione mistica sostituì la figura della passione erotica.
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