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LETTERATURA: STORIA: I MAESTRI: Baldassarre e Carolina28 Marzo 2015
di Piero Chiara Ben poco è stato scritto, e ben poco ormai si scriÂverĂ , sull’internamento degli italiani in Svizzera tra l’autunno del 1943 e la primaveÂra del 1945. Qualche ringraziamento ufficiale alla ConÂfederazione, due o tre libri usciti negli anni immediatamente successivi e subito dimenticati, qualche commemoÂrazione dopo dieci e dopo vent’anni, alcuni articoli di giornale e gli incontri presÂsochĂ© casuali di ex internati che non disdegnano di ricorÂdare quei tempi poco gloÂriosi, sono quanto è rimasto della fuga in Svizzera di cirÂca quarantamila italiani, miÂlitari e civili, ai tempi dell’ultima guerra. Fuga, esodo o diaspora, come venne chiamato il feÂnomeno a seconda dei gusti, che ebbe i suoi varchi piĂą praticati nel tratto di confine tra il Lago Maggiore e il Lago di Como, con una punÂta di preferenza tra le colÂline che da ViggiĂą digradano al Mendrisiotto, e in partiÂcolare nei dintorni del valico doganale di Gaggiolo, dove passarono per primi, l’11 setÂtembre 1943, venti prigionieÂri inglesi evasi dai campi itaÂliani, seguiti il giorno dopo da novanta senegalesi, anche essi provenienti dai campi di concentramento aperti alÂla proclamazione dell’armistizio. La sera di quello stesÂso giorno, dal vicino valico della Cantinetta sopra Ligornetto, entrava in formazione chiusa tutto il reggimento « Savoia Cavalleria »: 15 ufÂficiali, 642 sottufficiali e solÂdati, 316 cavalli, 9 muli. SeÂguivano 8 autocarri, 2 autoÂmobili, 2 motofurgoncini, una motocicletta, 32 biciclette, 4 carrette e 4 barrocci che porÂtavano, fra l’altro, un pacco di sigari toscani, 30 bottiÂgliette d’inchiostro, 2 pompe da bicicletta, un lucchetto, 31 ferri da cavallo, 14 forÂme di parmigiano, 13 sacchi di fagioli e 17 sacchi di macÂcheroni. Le armi erano in proporzione: 744 fucili, 19 mitragliatrici, pistole, baionetÂte, sciabole e piĂą di 70.000 cartucce.  *  Per tutto il mese di setÂtembre continuò, a ritmi alÂterni, l’afflusso dei militari e dei civili, con la media di un civile ogni tre militari; ma ai primi di ottobre il pasÂsaggio si ridusse a un filo sottile che durò tutto il temÂpo della guerra, mutando soÂstanza e qualitĂ a seconda degli eventi. Disertori, disperÂsi, renitenti di leva, ebrei, antifascisti, soldati della ReÂpubblica di Salò, partigiani della Repubblica dell’Ossola, qualche ladro o delinquente che trovava comodo spacciarÂsi per perseguitato politico, e infine, nei primi mesi del 1945, i fascisti e i loro ausiÂliari. Ci furono, fra i numerosi stranieri che si mescolarono agli italiani nel cercare in Svizzera quel riparo che l’ItaÂlia invasa da due parti non poteva piĂą offrire, 7 indiaÂni, 13 turchi, 5 svedesi, 3 taiÂlandesi e un abissino: il prinÂcipe Ghiorghis Silasci, cugiÂno del Negus. Era costui un bel giovane, nero come il carbone, che raccontò alle guardie la sua storia: arrestato nel 1937 ad Addis Abeba dopo l’attentaÂto a Graziani, insieme alla figlia del Negus, a ras Imru e ad altri notabili, fu porÂtato in Italia. Durante la guerra venne confinato a Torino con la principessa sua parente, che morì di tisi nel 1942. Dopo l’8 settembre 1943 pensarono di metterlo piĂą al sicuro nel campo di concentramento di Cesano Boscone, dal quale invece gli era riuscito di fuggire doÂpo tredici mesi. Tenendosi il viso coperto e camminando prevalentemente di notte, si era diretto verso il confine svizzero. Capitato a Luino nel pomeriggio del 5 genÂnaio 1945, un « passatore » lo condusse sui monti e lo infilò in Svizzera tra Dumenza e il Pianazzo. Solo e sperduto sotto la neve che cadeva abbondantemente, vaÂgò per i pianori finchĂ© vide le luci di un paese: Astano, i cui abitanti, esterrefatti alÂla sua apparizione in quella sera di vigilia dell’Epifania lo scambiarono per Baldassarre, uno dei tre Re Magi in arrivo da lontani paesi, ma vedendo che Gaspare e Melchiorre non sopravvenivano coi cammelli, e soprattutto che il nero viandante non portava oro nĂ© incenso nĂ© mirra, lo consegnarono alle guardie di confine. * A guerra finita, dalle parti di Gaggiolo, venne eretta una cappella votiva con una lapide che  ricorda al passante il transito doloroso di tanti fuggiaschi in cerca di salvezza. I promotori dell’iniziativa, dei superstiti nei quaÂli non si erano spenti i sentimenti di gratitudine verso la provvidenza divina e la Confederazione Svizzera (che a quell’epoca furono per molti una cosa sola e indistinÂguibile) , pensarono a far colÂlocare la costruzione vicino al margine della strada, apÂpena al di lĂ del confine italiano, bene in vista, così che i passanti vi si potessero soffermare pensosi e reveÂrenti. Ma nessuno degna d’uno sguardo il tabernacolo e la lapide, rimasti soffocati e naÂscosti dalle stazioni di riforÂnimento sorte in questi ultiÂmi dieci anni oltre confine e allineate per chilometri e chilometri una dopo l’altra, con le pompe sempre attive nell’erogare benzina agli itaÂliani, che in lunghe code acÂcorrono giornalmente a riemÂpire i serbatoi delle loro macÂchine, a comprare sigarette, caffè, cioccolata e quant’altro è tollerato dalla tabella doÂganale e dall’occhio annoiato delle guardie di Finanza. Dietro le pompe sorgono i condomini, con i negozi e le autorimesse, che fanno ormai di ogni valico un grande emporio e un mercato permaÂnente. Un fiume di « frontaÂlieri » vi transita mattino e sera andando e tornando dal lavoro, migliaia di macchine sostano e ripartono col serÂbatoio pieno. Il piccolo vaÂlico d’una volta, con le due case dei doganieri solitarie e divise dal cancello che si apriva poche volte al giorno, è diventato un ganglio pulÂsante di vita e di denaro; e la cappelletta, nascosta dieÂtro le nuove castrazioni e tra i cespugli irrorati di benÂzina, nessuno piĂą la scorge nĂ©, scorgendola, vi si avvia. La lunga fila dei profughi che è passata dal Gaggiolo col suo carico di paura e di speranza, gli inglesi, i seneÂgalesi, il « Savoia CavalleÂria », i renitenti, gli ebrei, gli uomini politici del vecÂchio antifascismo, i ministri scaduti, il principe Silasci e tutti gli altri d’ogni colore e d’ogni razza, chissĂ se ancoÂra ricordano, dopo quasi trent’anni, queste umili terre della loro salvezza, chissĂ in quale piega del mondo sono finiti! Per richiamarli tutti ad un convegno almeno ideale, biÂsognerebbe riprendere un vecchio libro che ben pochi hanÂno letto, specialmente in ItaÂlia: il volume ormai ingialÂlito che pubblicò nel 1946 il colonnello ticinese Antonio Bolzani, riportandovi, con poche frange descrittive, i suoi rapporti di servizio. UfÂficiale d’altri tempi il BolzaÂni, ormai scomparso da anÂni, che si scandalizzava per ben poco in quei frangenti. « Cito il caso — scrive in una delle sue pagine — di un ufficiale che, subito dopo il suo arrivo al Campo di Lamone, ha domandato dove poteva trovare una stiratrice per far stirare i pantaloni; e ancora il caso di quattro giovanissimi ufficiali che ho sorpreso a Gudo, fra mille altri soldati italiani, inglesi, sudafricani, a giocare alle carte con biglietti d’ogni taÂglio sul tavolo. Ma la granÂde maggioranza, — continua il colonnello — vorrei dire la quasi totalitĂ , è formata da bravi giovani senza guiÂda, senza orizzonte… ». E’ una delle poche divagaÂzioni o giudizi che il bonacÂcione si concede, perchĂ© il suo stile è stringato, militaÂresco, come si può vedere piĂą avanti, dove annota: « AlÂl’alba del 4-4-45 la Signora Carolina vedova fu Costanzo Ciano, nata Pini, di LivorÂno (26-5-83) collaressa delÂl’ordine supremo della SS. Annunziata, ha varcato clanÂdestinamente il confine svizÂzero nella localitĂ di Gaggiolo-Stabio ». Anche lei. E sono gli ultiÂmi arrivi, i segni della fine. La grande bufera sta per avviarsi alle estreme convulÂsioni. Il colonnello chiude il libro e la storia incomincia, in silenzio, a comporre fatti e figure sullo sfondo, per quel che riguarda l’internamento degli italiani in Svizzera, del valico doganale di Gaggiolo.
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