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STORIA: I MAESTRI: La rivolta studentesca. Du-tschke Du-tschke6 Luglio 2013
di Carpendras (Manlio Cancogni) L’attentato a Rudi Rutschke ha fatto parlare, in GermaÂnia e fuori, di radicalizzazione della lotta politica, di ripreÂsa degli estremismi, di guerra civile e di altri pericoli. Ho l’impressione che si esageri. La democrazia tedesca, per deÂbole che sia, non è quella di Weimar. Quanto alla rivoluzioÂne credo che in sostanza sia ancora valido il giudizio poliÂtico espresso nel primo dopoguerra da un noto giornalista: in Germania il piĂą acceso sindacalista scatterĂ sempre suÂgli attenti davanti a un sergente dell’esercito o della poliÂzia. Non parliamo dunque della Germania, tema che si preÂsta a troppo vaghe generalizzazioni. Parliamo piuttosto delÂl’eco che l’attentato ha avuto nel mondo: anche in Italia. Così Rudi il rosso è entrato a far parte della mitologia riÂvoluzionaria giovanile, accanto a Mao, Giap, Fidel Castro, Ernesto « Che » Guevara. Non dobbiamo meravigliarci: la gioventĂą ha sempre avuto bisogno di idoli. Niente di strano quindi che la scelta sia ora caduta sul giovane rivoluzionario tedesco. E tuttaÂvia c’è qualcosa che non mi convince. Il movimento studentesco che in Italia e fuori si preÂsenta come avanguardia della rivoluzione, rifiuta, col sisteÂma, la democrazia rappresentativa, che considera una maÂschera ipocrita dell’autoritarismo, del classismo, della conÂservazione. In suo luogo auspica la democrazia diretta, quella cioè senza delega, dove ogni cittadino esprime perÂsonalmente la frazione di potere di cui dispone. E’ dunque, o almeno vorrebbe essere, un movimento liberatore da tutÂte le servitĂą, da tutte le « alienazioni », da tutte le rinunce; un movimento per l’uomo integrale. Non è una speranza nuova. L’ideologia che la ispira riÂsale almeno all’altro secolo. La sua prima applicazione praÂtica (finita in un disastro e in un massacro) si ebbe nella Comune di Parigi. L’ultima, anch’essa conclusasi tragicaÂmente, nella rivoluzione anarchica catalana nell’estate del ’36. Non voglio insistere sui lati negativi del libertarismo. E’ una vecchia polemica che riguarda i rivoluzionari. Mi limito a rilevare la contraddizione che c’è negli ammiratori di Dutschke che scandivano il suo nome nelle piazze d’EuÂropa. Essi sono contro l’autoritĂ , le istituzioni (rappresenÂtative o no) il potere; rifiutano di delegare ad altri la fraÂzione di esso che possiedono per natura, e misticamente acÂclamano un capo, dieci capi, una guida, dieci guide, si danno a loro in un accesso di entusiasmo. Mai come in questi tempi di eclissi delle ideologie e di lotta contro il culto della personalitĂ (la estrema degeneraÂzione del potere) si è così personalizzata la lotta politica. I giovani rivoluzionari adorano Mao, Castro, Guevara, DutÂschke. Odiano l’autoritĂ delle istituzioni, non quella delle persone. Ma quale delle due è piĂą pericolosa? Si dirĂ : « Non bisogna interpretare a questo modo gl’inÂgenui trasporti della gioventĂą: quei nomi sono soprattutto dei simboli ». Sta bene, ma io credo che la fede nel capo, l’adorazione per la guida, l’ispiratore, il profeta, sia lo sbocÂco inevitabile di ogni movimento libertario che distrugga l’autoritĂ dello Stato. Ed è naturale che sia così. Su che cosa si può reggere (abolito lo Stato e le sue inevitabilmente autoritarie istituÂzioni) una societĂ articolata in gruppi autonomi, tendenti all’autogoverno (è quella piĂą o meno chiaramente auspicaÂta dalla gioventĂą rivoluzionaria) se non sul prestigio, l’aÂscendente, l’autoritĂ morale dei piĂą attivi, del piĂą attivo, dei migliori, del migliore? Si ricordi ciò che accadde nella rivoluzione catalana del ’:ìG succeduta al putsch franchista. I comitati si sostituiroÂno ovunque al potere centrale; e di lì a poco, un uomo, spesso un avventuriero (piĂą attivo degli altri, certo) si soÂstituì dovunque ai comitati. Finì lo Stato centralizzato d’oÂrigine giacobina; rinacque quello « feudale », basato sull’inÂdipendenza dei singoli capi locali, legati al capo centrale da un rapporto di fiducia, di fede. Gli abusi, gli arbitri, le vioÂlenze, gli atti personali di autoritarismo, gettarono sulla repubblica un’ombra nefasta. Gli studenti italiani che dimostravano a Milano o a RoÂma per il collega tedesco ferito dall’attentatore nazista scandivano in coro: Du-tschke, Du-tschke. Ai nostri orecchi quell’invocazione ricordava tempi tristi. Pensavo: lo Stato, le leggi, le istituzioni rappresentative, la burocrazia, sono certamente cose orribili. Ma una volta scomparse, come vorrebbero questi giovani, chi ci salverĂ dagli arbitri, le prepotenze, gli abusi, le pagliacciate dei ras locali, dei compagni piĂą compagni degli altri, del ras dei ras, del grande compagno, e (trattandosi della Germania) del FĂĽhrer?
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