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LETTERATURA: TEATRO: I MAESTRI: Il teatro amaro di de Roberto19 Luglio 2018
di Ercole Patti Quello di Federico de Roberto per il teatro fu un lungo e tenace amore non corrisposto. Di lui infatti è stato recitato soltanto l’atto unico Il rosario mentre ha scritto e riscritto parecchie commedie e drammi. Questo suo commovente attaccamento per il teatro per il quale evidentemente non era tagliato, viene fuori in maniera finora inedita da un interessante carteggio con Sabatino Lopez che il figlio Guido Lopez pubblica nell’ultimo numero dell’Osservatore politico e letterario. Si tratta di una lunga serie di lettere che de Roberto scrisse a Lopez dal 1897 al 1926 talvolta con intervalli di anni fra l’una e l’altra. I due scrittori erano diventati amici nel 1894 quando Lopez fu trasferito a Catania come professore di italiano all’Istituto Tecnico. In quell’ultimo scorcio dell’Ottocento i due si riunivano con altri amici nel ristorante Umberto I e spesso si incontravano con l’allora cinquantaquattrenne Giovanni Verga (infatti fra le lettere derobertiane a Lopez ce ne sono parecchie di Verga). Ma veniamo al calvario teatrale dell’autore dei Viceré. In una lettera del ’98 de Roberto annunzia all’amico che è in procinto di rifare il dramma che lui stesso ha ricavato dal suo romanzo Spasimo. Questo dramma ebbe una vita travagliatissima. Fu dato in lettura a Giovanni Pozza allora autorevolissimo critico teatrale del Corriere della Sera. Non si conosce il responso del Pozza ma dopo varie vicissitudini Spasimo non fu mai rappresentato. Frattanto su suggerimento dello stesso Lopez, de Roberto sviluppa per le scene uno dei suoi racconti dei Processi verbali: cosi nasce Il rosario. Il lavoro di perfezionamento al dramma Spasimo continua a prenderlo molto. Lopez gli suggerisce dei tagli e Federico gli scrive: « Ho furia di approntarlo. Almeno so come correggerlo. Tutto deve essere più rapido. La lettura di Dumas che proseguo mi gioverà moltissimo; adesso sento come bisogna scrivere il dialogo ». Nel 1899 Spasimo il cui titolo è stato cambiato in Zakunine dal nome del protagonista arriva nelle mani di Ermete Zacconi che accetta di interpretarlo ma richiede ulteriori tagli e cambiamenti. Il dramma si arena a causa del mancato accordo fra l’autore e l’attore. Per un po’ di anni de Roberto sembra essersi messo l’animo in pace col teatro. Ma ecco che in una lettera del 1911 annunzia a Lopez di avergli mandato due copioni: uno è ricavato dal suo romanzo La messa di nozze e reca il titolo L’anello ribadito, l’altro è l’atto unico scherzoso Il cane della favola desunto da una sua novella apparsa sulla « Nuova Antologia ». L’autore ne è soddisfatto. Scrive all’amico: « Mi pare che possa reggersi, è un lavoro leggero col quale potrei esordire alla mia tenera età (aveva 50 anni) dopo aver fatto qualcosa di meglio in altre forme d’arte. Il Cane potrebbe venire rappresentato nella medesima sera dell’Anello ». Più tardi fa una nuova stesura dell’Anello ribadito, la intitola La strada maestra e la dà a leggere a Marco Praga direttore della compagnia del Manzoni. Verga dopo aver letto la commedia aveva avanzato qualche dubbio; de Roberto vorrebbe fare nuovi cambiamenti e rimaneggiamenti fino a far perdere la pazienza a Praga che aspetta il copione definitivo. « Sono stato sempre mediocre frequentatore delle scene di prosa. Il meccanismo dell’opera drammatica mi pareva fino a poco tempo addietro come ai bambini quello dei balocchi, qualcosa di misterioso. Poi che cosa mi ha aperto gli occhi? La lettura di alcune commedie francesi moderne del Donnay, del Bernstein, dell’Hervieu, del Mirbeau » scrive nel febbraio del 1912 e il 10 marzo seguente: «Ho finito. Non so se vada bene, molto meglio di prima mi pare indubitabile ». Dopo alcune settimane di nuovi ritocchi legge il copione alla compagnia Praga al completo sul palcoscenico del Manzoni. Ma l’aria non gli piace, evidentemente l’accoglienza dopo tutti quei rinvii e rifacimenti gli sembra fredda. Riparte subito e con una lettera da Roma ritira il copione. Più tardi La strada maestra è presentata a Virgilio Talli che neanche lui si mostra molto convinto. (La commedia presentata ad altri capocomici non sarà mai rappresentata). Talli invece mostra un certo interesse per II rosario del quale aveva sentito parlare. Senza averlo letto si impegna di metterlo in scena. Si iniziano le prove. Per attenuare l’aspra drammaticità dell’atto Talli pensa di abbinarlo allo scherzoso Il cane della favola. Alla vigilia della recita Roberto è a Milano in preda alla febbre; va a consumare i pasti a casa dell’amico Lopez dove prova il conforto di un calore familiare in attesa del debutto teatrale. Quel debutto fu un disastro. Il pubblico del Manzoni che aveva accolto assai tiepidamente lo scherzoso Cane della favola beccò, rumoreggiò e interruppe II rosaio. Il terzo giorno Talli lo tolse dal cartellone. Da allora, de Roberto vivente, non fu più rappresentato nulla di suo (tranne una edizione siciliana dal Rosario curata da Martoglio nel 1919). Ma nonostante questa grave delusione ecco che dieci giorni dopo l’insuccesso del Manzoni in una lettera all’amico annunzia un nuovo dramma La prova del fuoco. Elogiando l’ultimo successo di Lopez La nostra pelle gli scrive: « La lettura della Nostra pelle durante la lavorazione della Prova del fuoco mi ha scoraggiato. Io non so a che cosa riuscirò con questo nuovo tentativo, ma temo purtroppo di fare una cosa grigia e pesante. Ad ogni modo siccome ho la ferma intenzione di lavorare per il teatro cosi sarà quel che sarà — e a suo tempo giudicherai ». Purtroppo neanche della Prova del fuoco si sentì più parlare. Nel 1915 Annibale Ninchi manifestò l’intenzione di portare sulla scena La strada maestra che due anni prima aveva preso in considerazione ma poi aveva abbandonato l’idea. Anche stavolta la cosa va a monte. Nel 1916 de Roberto annunzia a Lopez di avere scritto un nuovo dramma II groviglio; poi gli cambia il titolo e lo chiama La tormenta. Nel 1917 La tormenta cambia ancora titolo e si chiama Tutta la verità. Talli, a cui il copione era stato dato, interrompendo a metà le prove, non se la sentirà di metterlo in scena. Si conclude così la tormentata e commovente storia della attività teatrale di Federico de Roberto il quale per eccesso di scrupolo rifaceva continuamente i suoi drammi, li torturava, cambiava e ricambiava dialoghi e titoli. Da queste lettere c’è da pensare che la sua accanita passione teatrale fu per lo scrittore siciliano assai più forte di quella letteraria che pure gli aveva dato parecchie soddisfazioni e gli aveva fatto scrivere un gran libro come I Viceré. Mi ricordo la figura di de Roberto per la via Etnea a Catania tra il 1922 e il ’27 anno della sua morte. Camminava assorto e distratto guardando verso l’alto attraverso il vetro del monocolo, con la bombetta buttata all’indietro. Negli ultimi tempi sofferente di flebite usciva con le scarpe slacciate e certe volte i suoi cappotti avevano le fodere delle tasche tirate fuori e lasciate a penzoloni come le avevano messe a casa per riporle negli armadi a difesa delle tarme.
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