|
TEATRO: I MAESTRI: Peter Handke. Il principe scambiato20 Aprile 2014
di Giorgio Zampa Mi ero proposto di farlo da tempo, non ne avevo avuto mai il coraggio: quelle quattrocentocinquanta pagine, fitte, di formato superiore al normale, mi spaventavano. Mi decisi nei giorni scorsi e fu più dura del previsto: a parte la minuzia del racconto, l’accanimento nella discussione di particolari quasi invisibili, la scrittura piena di inutili solecismi, di battute berlinesi, falsamente veloce (non è vero che il parlato «scorre» meglio), falsamente cordiale, disinvolta, da avvocatone che vuol fare vedere come si lavora, mi fece cadere più volte il malloppo di mano. Ma l’interesse per il fatto era tale, che arrivai in fondo. Affidato a un traduttore che lo trattasse a dovere, intervenendo con potature e spuntatine, questo « protocollo di una leggenda moderna », intitolato Il principe Kaspar Hauser, redatto da Hans Scholz (editori Hoffmann und Campe), potrebbe interessare anche da noi, anzi, avere successo: che materia, quante stranezze, che variazioni meravigliose. Debbo dire chi fu Kaspar Hauser? A Norimberga, nel 1962, gli dedicarono una mostra; in Ansbach, una cittadina a pochi chilometri dalla patria di Dürer, da decenni un museo intitolato a lui attira gente da ogni parte del mondo; la sua tomba, sempre in Ansbach, a distanza di un secolo e mezzo dal misterioso omicidio, è meta di pellegrinaggi. Ancora vivo, a vent’anni, era uno dei mirabilia della Germania, storici, scienziati, poeti, filosofi, psicologi. alienisti, occultisti, criminalisti, politici, lo facevano oggetto di studio, il popolo parteggiava con passione per questa o quella versione relativa alle sue origini; chi lo voleva un impostore, chi vittima nobilissima di intrighi drastici. Lo paragonavano a Maschera di Ferro, rievocavano le vicende dei Demetri, lo volevano figlio di Napoleone; la voce più diffusa lo diceva con sicurezza prole di Stefania di Béauharnais, figlia di Giuseppina, data in sposa, nel 1806, per ragion di Stato, dal suo imperiale padrino all’erede al trono del Baden, Karl von Zahringer. Venuto alla luce nel 1812, l’infante sarebbe stato rapito e sostituito con un lattante nato lo stesso giorno e morto subito dopo lo scambio. Motivo del ratto? Evitare al pargolo legittimo una fine violenta, per veleno o altro. Queste le dicerie, prive, sembra, di ogni fondamento. I fatti che si conoscono con certezza si riferiscono alla comparsa improvvisa, per le vie di Norimberga, il 26 maggio 1828, di un ragazzo sui sedici-diciassette anni, vestito di panni non suoi, con una specie di cilindro in capo e in mano una lettera indirizzata al comandante di un reggimento di cavalleria. Il giovanetto, cui un documento accluso alla lettera attribuiva il nome di Kaspar Hauser, non era in grado di parlare né di intendere; camminava male, come se non avesse mai usato le gambe, e, sebbene di costituzione normale, addirittura robusta, non poteva compiere il più piccolo sforzo. Tutte le ricerche rivolte a fare luce sulle sue origini non dettero risultati: a ogni domanda che gli si rivolgesse, Kaspar replicava con una sola frase, in dialetto, apparentemente l’unica che conosceva: « Vorrei essere un cavaliere, come fu mio padre ». Il caso interessò in una maniera che oggi diremmo morbosa. Mentre distinti cittadini si offrivano di allevare ed educare quello che dal popolo era chiamato l’uomo della foresta, polizia e magistratura di Stati anche non interessati direttamente alla vicenda conducevano indagini frenetiche. Quando, nel 1828, Kaspar subì un attentato (il suo sviluppo intellettuale era stato rapidissimo, parlava da persona normale, scriveva come qualsiasi ragazzo della sua età, rivelando vocazione per il disegno e la pittura), la città provvide a farlo custodire giorno e notte da due guardie armate. Precauzione insufficiente: il 15 dicembre 1833 il trovatello, che nel frattempo era stato assunto come scritturale dal tribunale di Ansbach, attirato in un parco deserto, fu pugnalato da uno sconosciuto e morì due giorni dopo, senza avere dato agli inquirenti nessun indizio sull’assassino. La leggenda del principe scambiato, che già allora si era formata, fornendo ai cantastorie un soggetto che il pubblico non si stancava di ascoltare, prese a correre per tutta l’Europa: inutile citare le opere che ispirò, da Verlaine a Trakl, da Hofmannsthal a J. Wasserman. Ancora quest’anno ha offerto nome e protagonista al lavoro più originale, forse, apparso sulla scena tedesca: Kaspar di Peter Handke. Del giovanissimo autore austriaco si dette qui notizia lo scorso inverno, quando a Milano fu rappresentato quel pezzo di bravura che è la Publikumsbeschimpfung, (Ingiurie al pubblico). Si elogiò l’ingegno verbale, le risorse naturali che permettevano di variare all’infinito, con effetti a volte sorprendenti, un materiale limitato. Feci riserve sulla serietà di quella dichiarata aggressione agli spettatori, giudicandola un gioco di società più che una vera provocazione. Con il Kaspar, andato in scena a Francoforte, Oberhausen e Brema, se mi è lecito giudicare dalla lettura, direi che le riserve precedenti possano essere in gran parte sciolte: fossi un regista, mi butterei subito su un testo così limpido, solido, intelligente, pieno di interesse sul piano verbale e su quello pantomimico, freschissimo e tragico, irritante, divertente, concreto nella sua astrazione. (Ma piuttosto che affrontare un impegno come questo, si preferirà ammannire tartes au pommes del vecchio e del nuovo continente, non importa se ricamate di muffa). Credo che Handke abbia letto il volume di Scholz: più di un indizio starebbe a confermarlo. Ma il suo Kaspar ha poco a che fare con quello storico. Il nome adottato si richiama tanto al trovatello di Norimberga quanto all’arlecchino austriaco, il Kasperl. Tra mobili di scena disposti a caso, come abbandonati durante un cambiamento, appare un personaggio che stenta a camminare, a coordinare gesti, a trovare un rapporto con lo spazio intorno; incapace di articolare una parola. Tre suggeritori invisibili cominciano a fargli pervenire, attraverso microfoni, i loro messaggi, a spiegargli la natura e la funzione del linguaggio, in termini che ricordano il Wittgenstein del Tractatus. Al Kaspar-che-parla si affianca un alter ego che mostra di avere preso alla lettera le regole dei suggeritori, un fanatico dell’ordine e della precisione. E poco dopo ne compaiono altri cinque, sei identici, per stringere intorno al parlante una gabbia sempre più fitta di luoghi comuni, di banalità, di pseudoverità, di princìpi così detti morali. Moltiplicato, deformato e imprigionato dalla parola, dal mezzo espressivo cui aveva affidato la sua ragione d’essere, la sua verità, Kaspar comincia a dubitare di quelle che poco prima aveva creduto certezze, ricade nei dubbi dai quali si era liberato, balbetta: « Io… sono… soltanto… per caso: io… ». Il sipario si chiude sugli schiamazzi, i berci, le risate, i gorgogli dei Kaspar che gli stanno addosso. Un testo di una sicurezza, di una qualità che da un pezzo non capitava di trovare; non per nulla, oltre a quello di Wittgenstein, la critica ha fatto i nomi di Karl Kraus e di Nestroy. Letto 2160 volte.
Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. |
![]() |
|||||||||