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LETTERATURA: TEATRO: I MAESTRI: Pirandello è un’altra cosa30 Luglio 2016
di Jean François Revel Di recente Carpendras constatava con tristezza che nessun libro italiano figurava fra i dieci libri più venduti in Italia. « Insomma abbiamo rinunciato, ed è abbastanza naturale che sia così », proseguiva, « ad avere una voce in capitolo nel mondo delle idee ». Il quadro è troppo pessimista e un rapido sguardo alla storia della cultura italiana nel secondo dopoguerra può bastare a confermarlo. Ma il quadro riflette e perpetua l’ossessione di molti intellettuali italiani, nata da un diciannovesimo secolo che è stato effettivamente un po’ fiacco: secondo loro la cultura italiana moderna non sarebbe ancora riuscita a integrarsi nella cultura europea, a diventare veramente internazionale, a riacquistare l’importanza che essa aveva in Europa al tempo di Goldoni. Ma Pirandello? Si può obiettare a questo punto. Di fronte a questo nome l’interlocutore italiano farà un gesto che significa: « Questa è un’altra cosa, non c’entra ». Spiegherà poi che il pirandellismo è una invenzione parigina, che Pirandello in qualche modo è riuscito a sfuggire all’Italia. Del resto la sua gloria all’estero riposa soltanto sulle sue commedie, mentre quello che conta (c’era da aspettarselo) sono i romanzi e le novelle. Entra in gioco uno strano meccanismo, per il quale, non appena uno scrittore italiano raggiunge quella risonanza internazionale tanto desiderata, egli si « disitalianizza », per così dire, agli occhi dei suoi compatrioti. Bisogna riconoscere, però, che nel caso di Pirandello questo atteggiamento non è del tutto ingiustificato. Se esiste uno scrittore solitario, nella sua vita privata come nella sua opera di creatore, è proprio lui. Nonostante Pi- randello si richiamasse cortesemente ai narratori della sua Sicilia, come Verga o Capuana, gli italiani sentono bene che egli non è un prodotto della evoluzione della letteratura italiana. Pirandello non è il culmine di niente e non contribuisce a nessuno sviluppo successivo. Come Kafka, comincia e finisce con se stesso e riesce a paralizzare ogni imitatore, a uccidere nell’uovo ogni discepolo. Nelle sue opere teoriche e critiche pubblicate per la prima volta in Francia in questi giorni (presso l’editore Denoël) Pirandello distingue nettamente fra i creatori e gli adattatori: i primi creano lo « stile delle cose », i secondi lo « stile delle parole ». Pirandello oppone dunque Dante a Petrarca, Machiavelli a Guicciardini, l’Ariosto al Tasso e (sottinteso) se stesso a D’Annunzio. Soltanto gli autori che hanno lo « stile delle parole » appartengono alla « civiltà letteraria ». E facile parlarne e farli parlare. Al contrario coloro che hanno lo « stile delle cose » non sono collegati a nessuno e si distaccano da tutto: Dante va in esilio, Machiavelli al confino. Quanto a Pirandello, condannato a vivere per anni con una pazza che nel delirio della gelosia finirà per accusarlo di relazioni incestuose con sua figlia e lo obbligherà ad allontanare la povera ragazza dalla sua stessa casa, la felicità gli è negata; come a quella società siciliana che divora se stessa, irrigidita nella sua tragicità, nella quale egli stesso è imprigionato e della quale egli non riesce, né come uomo né come scrittore a scongiurare i malefici. E appunto perché questa società malata è incurabile Pi- randello si innamora della menzogna che in essa si incarna e presenta uno specchio metafisico a questa eternità provinciale nella quale gli uomini sono condannati a capirsi tanto meno quanto più si parlano e a distruggersi quanto più cercano di salvarsi. Si vede dunque chiaramente che l’intenzione iniziale di Pirandello non era affatto quella di ricollocare « la cultura italiana in seno alla cultura universale ». « I problemi dell’epoca in cui vive non esistono per colui che crea », questa è la convinzione di questo innovatore, assoluta- mente reazionario in politica del resto, e che, al momento buono, esalterà Mussolini. Il rifiuto della sua epoca è dimostrato anche dal fatto che Pirandello non si interessò mai alla funzione sociale del teatro. I problemi cui si interessava sono quelli del rapporto fra l’autore e i suoi personaggi, fra personaggi e attori, fra il regista e il testo della commedia, mai quelli del rapporto fra pubblico e avvenimento teatrale. Brecht ha subordinato tutta la sua riforma del teatro alla trasformazione del rapporto fra pubblico e interpreti; Pirandello invece ha scritto drammi che possono essere recitati davanti a « uno nessuno e centomila » (per riprendere il bel titolo di uno dei suoi romanzi). Se « il teatro nel teatro », cui egli ricorre così spesso crea una « estraniazione », essa ha lo scopo di liberare l’autore, non lo spettatore. A queste originalità, Pirandello ne aggiunge un’altra: questo scrittore di teatro, forse il più grande, con Cecov, della prima metà del nostro secolo, ha scritto la sua prima commedia a cinquant’anni. Non solo, ma sfidando tutte le teorie sulla non separabilità della forma e del contenuto, egli ha tratto la maggioranza delle sue commedie dalle sue novelle o dai suoi romanzi. Travasando i contenuti dagli uni agli altri con una rapidità febbrile, egli ha scritto ventotto commedie dal 1916 al 1924. La storia dei « Sei personaggi » che insistono presso lo scrittore perché egli li « termini » corrispondono a una esperienza vissuta. Nel bel saggio « Pirandello » (ed. Georges Denoël), Praué dimostra il carattere quasi medianico dell’atto creatore in Pirandello, che si paragona a un « albergo aperto a tutti ». Pieno dei suoi personaggi prima di scrivere, Pirandello viene abbandonato subito dopo da essi e dalle loro commedie « alle quali si sente divenuto estraneo »; così come la gloria ne farà, dirà più tardi: « Un estraneo a se stesso ». Fino al punto clic, in una delle sue ultime commedie « Quando si è qualcuno », rappresenta il suo caso sotto la veste di un personaggio reso anonimo dalla sua stessa celebrità, personaggio le cui frasi vengono rappresentate con un: XXX. Bel preludio al suo funerale, che egli vorrà come è noto senza corteo, senza il seguito degli amici, desiderando andare al crematorio « col cocchiere e il cavallo ». Contrariamente alle sue ultime volontà le sue ceneri non sono state sparse al vento; esse si trovano ad Agrigento, là dove, come scrive magnificamente « in una notte della mia infanzia, caddi come una lucciola sotto un gran pino solitario in una campagna di olivi saraceni, sulla cresta di un altopiano di terra azzurra sopra il mare africano… ». 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