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MUSICA: I MAESTRI: Ildebrando Pizzetti. Prima la parola poi la musica14 Ottobre 2013
di Gioacchino Lanza Tomasi La musica nel suo corso storico è stata quasi sempre un’arte di consuÂmo, cioè essa si bruciava nell’occasioÂne da cui il pezzo musicale aveva tratÂto origine, e quasi mai l’opera seguiÂtava a circolare dopo la morte dell’auÂtore. Così si è andati avanti fino al roÂmanticismo quando è nata la musicologia pratica e scientifica, quando alcuÂne opere d’arte sono state cristallizzaÂte in quei costosi musei che sono gli enti lirici e sinfonici. Possibilmente le ultime generazioni dell’Ottocento speÂravano di trovare un posto definitivo in quei musei con la loro brava etiÂchetta, ma salvo rari casi (è facile preÂdizione per uno Strawinski) questo non è avvenuto. Al di fuori dell’ecceÂzionale, nel buono e nel relativamenÂte buono, il consumo musicale conÂtemporaneo s’è dimostrato ancor piĂą spietato di quello dell’arte aristocratiÂca; così alla scomparsa di Ildebrando Pizzetti è facile vaticinio prevedere un allestimento di quattro opere, o giĂą di li, nelle stagioni ’68-69, ma poi? Eppure Pizzetti una sua voce persoÂnale fra gli italiani del Novecento l’ha avuta, soltanto alla pari dei magÂgiori della sua generazione (Respighi, Casella, Ghedini, resiste meglio Mali- piero) egli è poco alla volta uscito dal consumo, malgrado l’ammirevole teÂnacia con cui fino all’ultimo ha confeÂzionato i suoi lindi melodrammi: a PizÂzetti, invece, si è preferita una medioÂcritĂ aggiornata. A questa situazione di fatto piĂą di un artista ha tentato di opporsi moÂstrando una duttilitĂ stilistica, Pizzetti non lo fece mai e i suoi apologeti l’adÂditano quale inconfutabile qualitĂ moÂrale. Questo travaglio, tutto moderno, dell’aggiornamento e della smerciabilità è un fatto antico, anteriore certo a Pizzetti: esso tormentò la vecchiaia di Verdi e la maturitĂ di Puccini. FeÂdele d’Amico ha sottolineato che proÂprio queste considerazioni etiche, « la parafrasi devota delle intenzioni d’auÂtore » hanno prodotto per quanto riÂguarda Pizzetti, il caso unico ed assurÂdo di un musicista il quale vien giuÂdicato al di fuori della storia e del tempo, basandosi su concetti di poesia « assoluta », sugli « eterni valori del cuore umano », il che significa appunÂto che la critica pizzettiana è lacunoÂsa quanto quella letteraria sulla SaÂcra Scrittura, che il critico pizzettiano fattosi apologista equivoca fra arte e messaggio. Innegabilmente la musiÂca di Pizzetti offre il destro piĂą d’ogni altra a questi equivoci: la sua musa è infatti letteraria non soltanto nel teatro ma anche nella musica pura (quella ch’io preferisco). Opere che indubbiamente meriterebbero di non esser tritate dalla civiltĂ dei consumi quali la Sonata per violino, il Trio, il Concerto dell’Estate sono costruite con lo stesso descrittivismo sentimenÂtale dei migliori momenti della sua liÂrica cameristica e della sua polifonia vocale, fra la quale (I Pastori, il ReÂquiem, il coro Per un morto) si trova quanto di meglio il Novecento sia riuÂscito a produrre in quella poetica che Pizzetti coltivò con tenace esclusiviÂsmo. E’ una poetica (occorre dirlo) senza alcun diaframma fra l’emozione verbale ed il famoso declamato, quinÂdi sorda alla maggior parte delle caÂtegorie di espressione propriamente musicali: l’edonismo acustico, l’artiÂficio tecnico, il distacco critico e paÂrodistico. Sono affermazioni d’altronde che si scovano subito negli scritti critici dello stesso Pizzetti, quelle che lo porÂtavano a distribuire terribili precetti fra i discepoli sull’affinitĂ tra il prete che dice Messa e l’artista che compoÂne, precetti esposti a volte con inteÂgralismo scostante: « Divertirsi è la parola che nella mia gioventĂą mi faÂceva montare il sangue alla testa e mi metteva in tutti i furori ». E distanza maggiore dal gaudente D’Annunzio sul cui immaginoso vocabolario lirico doveva alzarsi la fama di questo moÂralista di provincia non si potrebbe immaginare. Un antiedonismo concetÂtuale, quello pizzettiano, ammesso anÂche dai suoi ammiratori, quali Guido Maria Gatti, tradotto qui evidentemenÂte in un giudizio positivo che dall’etiÂco sconfina nell’artistico: « … in tutte le opere di Pizzetti non si trova una sola nota di comicitĂ , e tanto meno d’ironia… la commedia non trova riÂsonanza nel suo animo, senza dubbio a causa di quel certo che di edonistiÂco e di meccanico che è nella natura di essa », ed analoghe rampogne il noÂstro muoveva alla « musica pura » in quanto gratuita, ma sono osservazioÂni, tanto piĂą perchĂ© riverberate in precisi corrispettivi musicali, che laÂsciano abbastanza perplessa una geneÂrazione, quale la mia, che spera di far progredire il mondo piuttosto con l’aÂnalisi e la critica che con l’inflessibiÂlitĂ etica dei sermoni. Se l’antipizzettiano, quale ormai soÂno scopertamente dichiarato, trova il meglio della sua arte quando l’oratoÂria resti racchiusa in fatti musicali (abbiamo accennato alle opere corali, alle liriche, alla musica strumentale), il pizzettiano si batte evidentemente per il suo teatro, per il « prima la paÂrola e poi la musica » che ne sta alla base. Ci siamo riferiti alla « Querelle des bouffons », ma salutare in Pizzetti il riformatore del melodramma italiaÂno, come s’è fatto, ha significato avÂviare la tradizione italiana alla mala morte che le è toccata (la morte da sofÂfocamento), perchĂ© la riforma gluckiana non sacrificò le forme strofiche delÂla musica e quella di Pizzetti sì. Il tedio del declamato pizzettiano è stesso di quello della camerata fioÂrentina, l’orchestra sparisce in un fonÂdale inerte e ci restano soltanto le paÂrole del drammaturgo cui viene quasi sempre negata una catarsi vocale. E’ il motivo per cui da Fedra (1915) a Clitennestra (1965) si potrebbe al limite parlare di una intercambiabilitĂ musiÂcale: una pagina potrebbe esser spoÂstata da un’opera all’altra senza avÂvertire un salto stilistico, tanto la muÂsica si riduce a formulario drammatiÂco abdicando ai suoi mezzi di comuÂnicazione. Ed eccoti la critica pizzetÂtiana pronta a vedere nel suo profeta salvatore della tradizione italiana, il coraggio di un musicista che, agli albori del secolo, in piena temperie wagneriana osava rinunciare al sinfonismo per restare fedele alla vocalitĂ , quando in veritĂ si trattava di restar fedeli alla verbalitĂ . Ne consegue che i libretti hanno nel teatro pizzettiano una grande imporÂtanza, e se le mie preferenze fra tutte le opere vanno all’Assassinio nella catÂtedrale lo spiegherei coll’eccellenza poetica di T. S. Elliot, con il rispetto che il libretto mantiene ad una visioÂne problematica della fede (attualitĂ del testo se non della musica), con l’asÂsenza di quelle catarsi facili, commosÂse, all’italiana, da cui dipende l’insucÂcesso del Calzare d’argento su libretto del Bacchelli; le catarsi facili se le possono permettere i musicisti, Bellini o Verdi, il drammaturgo Pizzetti, no. Il dissidio che abbiamo avvertito nella critica pizzettiana è infatti cenÂtrato nell’insegnamento di Pizzetti stesso, cioè l’uomo e l’artista agivano con coerenza intellettuale e ferrea loÂgica. Le analisi musicali pizzettiane riÂcordate dal Gavazzeni ed altri sono in questo senso chiarissime: in Brahms egli conduceva l’allievo a distinguere fra poesia e manierismo sonatistico; ogni forma musicale era sospetta e gli pareva gratuita. E se a queste liÂmitazioni di poetica aggiungiamo quelÂle morali vediamo quanto il musicista sacrificasse l’arte alla giustizia, donde l’incomprensione per i francesi Debussy e Ravel: « Ma è questo, è proprio questo che l’arte dovrebbe darci? QueÂsto che noi dovremmo chiederle? SofÂfocare in noi la volontĂ di vivere?… » a proposito del PellĂ©as. Questo il pizzettismo, di cui nella sua lunga vita il Maestro stesso, e speÂcialmente nel teatro, si rese colpevole. Ma sarebbe ingiusto ignorare l’imporÂtanza storica, la luciditĂ intellettuale con cui questa poetica sorse prima della Grande Guerra. Alle origini infatÂti l’attivitĂ di Pizzetti si distingue poÂco da quella degli altri grandi della sua generazione; essa condivideva la contestazione polemica verso la vita musicale italiana all’inizio del secolo che fu propria di Malipiero e Casella: ostilitĂ verso la decadenza melodramÂmatica della scuola verista, ostilitĂ verso la tradizione sinfonica tedesca coltivata dalla generazione del Martucci, propensione al recupero di una antica tradizione italiana individuata nelle modalitĂ gregoriane, nei polifonisti, in Monteverdi. Quel che distingue Pizzetti e lo seÂparerĂ progressivamente dagli altri è che la contestazione giovanile fu il fine della ricerca non mezzo d’indagiÂne critica. Le fonti musicali remote fuÂrono per Casella e Malipiero un maÂteriale di studio quanto in seguito la politonalitĂ francese, le Kammermusik di Hindemith, il neoclassicismo strawinskiano. Per Casella e MalipieÂro, musicisti del Novecento, la cultura continuamente rinnovata avrebbe porÂtato all’indagine critica dei materiali. Per Pizzetti la cultura musicale itaÂliana del 1920 era uno stile definitivo, un linguaggio poetico assoluto ed auÂtosufficiente. Si rilegga quanto riporta Malipiero sul numero dell’« Approdo Musicale » dedicato a Pizzetti. Nel 1913 « a breve distanza dalla Pisanella, un grande avvenimento scosse la simpatica apaÂtia musicale parigina: ai Campi Elisi si varava il Sacre du Printemps di Igor Strawinsky. Ildebrando Pizzetti, presente alla rappresentazione, mi apÂparve disorientato e di questo non ci si deve meravigliare, perchĂ© si regge sulla breccia soltanto chi ha una perÂsonalità », ma soggiunge il malizioso collega: « sia essa ovattata o squillanÂte non importa ». La personalitĂ certaÂmente non mancava, ma Pizzetti l’avÂvolse fin da allora ben bene nella bamÂbagia; se nessun microbo strawinskiaÂno venne mai a turbarla la sua voce rimase poco squillante. Letto 4235 volte.

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