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MUSICA: I MAESTRI: Joan Baez. Siamo un fallimento glorioso2 Gennaio 2013
di Romano Giachetti New York, settembre Joan Baez doveva rimediare alla frattura di sĂ© personaggio pubblico e personaggio privato. Doveva far tutt’uno del suo mondo di pacifista, espresso in canzoni e giorni di prigioÂne, e della sua vena sottile di ragazza del nostro tempo che ama le cose e gli uomini e vorrebbe trovare poesia per far partecipi gli altri del suo amoÂre totale. Come Bob Dylan, l’altro canÂtore della protesta dei giovani, ha riÂtrovato recentemente il filone del suo « americanismo » in un ritorno alla teÂmatica popolare del West, così Joan Baez, in un’apparente battuta d’arreÂsto, riflette sulle condizioni del suo Paese oggi, e trova un istante di proÂfondo raccoglimento nel suo turbolenÂto inseguire un ideale che a molti, in grande amarezza, pare ora svanire alle soglie di un fallimento collettivo. Joan Baez ha conseguito tutto questo in un libro disarmante e insieme spietato che esce con il titolo Daybreak. Daybreak: l’aurora, lo spuntar del giorno. Ma sembra un meriggio inolÂtrato. Il tono che lo percorre è come la piega del sorriso della cantante: ora ironico, ora stupefatto, ora intimorito, e sempre forte. C’è forza e bellezza, senza dubbio, in queste pagine; c’è uno stridente candore che deturpa il tentativo letterario in sĂ©, tanto che alÂcuni lettori di professione se ne sono adombrati e hanno battuto i piedi, per non saper leggere nella chiave adatta. C’è la stizzosa malattia di questo decennio; ci sono le ingenuitĂ di chi non vuol crescere mentre intanto si porta dentro, senz’avvedersene, la sconfitta della maturitĂ . Joan Baez non ha reÂticenze, non vuole e non sa averne; mette in pubblico i suoi dolori, le sue gioie, e par che dica: « Eccoci qua, siaÂmo forse storti ma siamo così, non giudicateci, amateci come noi vi amiaÂmo ». Tom Wicker, un noto columnist del New York Times che fruga quotidiaÂnamente nelle vicende americane dalÂla sua sede di Washington, all’indomani dei fatti di Chicago scrisse amaraÂmente: « Eppure sono i nostri ragazzi che la polizia bastona ». Sono gli stessi ragazzi che balzano, sapientemente tratteggiati, dalle pagine migliori di Joan Baez: quando dicono no alla guerra, quando si rifiutano di andare sotto le armi, quando vengono condanÂnati a cinque anni di prigione, quando cercano nel folklore americano le canÂzoni che, per non essere sospette di modernismo opportunista, meglio esprimono il loro sarcasmo e la loro protesta. Ma certo, queste cose le sapevamo. Ma le sapevamo male, in modo distorÂto. Si fa presto a dire che è quasi logiÂco che in un periodo di prosperitĂ i figli della borghesia si stancano delÂl’assenza di una sfida vera da parte della societĂ , e quindi passano al boiÂcottaggio della stessa. Di fronte ai « miraggi » di una ragazza come Joan Baez, un’analisi del genere sembra fredda e superficiale. A Chicago, queÂsti ragazzi sono stati definiti fascisti o fanatici comunisti. E’ ovviamente una semplificazione. In realtĂ i meno squiÂlibrati, quelli che in definitiva contaÂno, approdano a dimostrazioni simili dopo essersi arroccati piĂą volte, gli anÂni passati, in ricerche disperate di una propria identitĂ in un mondo che a paÂrer loro tende sempre di piĂą ad apÂpiattirli in una massa uniforme. Allora? Condannarli e passare oltre? Dopo la morte di Robert Kennedy, il solo che desse loro speranza, questi giovaÂni si trovano oggi di fronte al muro Nixon-Humphrey. Che cosa scapperĂ fuori dalla loro sconfitta del momenÂto? Domani lo sapremo. Oggi, intanto, Joan Baez scrive: « Ci manca il tempo. Finora siamo stati un fallimento glorioso. L’unica cosa che è stata un fallimento anche piĂą grande dell’organizzazione della non-violenza è stata l’organizzazione della violenÂza ». E la cantante-scrittrice continua riaffermando la sua fede nel pacifismo ad oltranza, nella forza dell’amore, e cita Gandhi, Budda, Cristo. Ma da doÂve viene, questa ragazza « dal corpo sottile di danzatrice » che ieri non sapeva nemmeno di essere bella, e che la propria bellezza l’ha scoperta « a forza di rinunce »? Figlia di uno scienziato che « per un momento pensò di vedere in un ente come l’UNESCO la soluzione a uno dei problemi piĂą gravi dell’umanitĂ , quello della fame », ereditò dal padre la carnagione bruna, messicana, che la isolò subito di cittĂ in cittĂ , di ghetto in ghetto, finchĂ© non trovò nel miscuÂglio di razze della California il modo di « avvicinare la gente ». La madre, che imparò ad amare assai presto, le portò nel sangue l’irruenza della Scozia e dell’Irlanda, oltre a una dose noÂtevole di buon senso. Ma, vero o no, artificiosamente costruito nel tentatiÂvo di fare poesia o fatto reale che dĂ connotati da donna precoce, è dell’aÂmore che Joan Baez parla soprattutÂto quando descrive la sua famiglia, quel padre distratto dalla scienza e dalla religione, quella madre che non esita a seguirla in prigione quando « si tratta di dare coraggio ad altre madri che altrimenti non appoggerebbero i loro figli che non vogliono andare in Vietnam e poi tornare in forma di teÂlegramma ». L’amore, un amore quasi perverso, romanzesco, d’altri tempi, è anche il lievito che la lega « da sempre » all’uoÂmo che l’ha fatta, si può dire, nel penÂsiero pacifista, nella ribellione ai canoÂni (perfino) della vita pubblica, Ira Sandperl, l’ebreo che un giorno capitò sulla sua strada e la avviò alle dottriÂne orientali. Strano essere, questo Ira che lei teneramente ama, e mai al di lĂ del sentimento. Anche lui rimbalzaÂto dal cuscino protettore di una famiÂglia borghese tutta calore e sicurezza, anche lui alla ricerca di « un modo piĂą bello di essere vivi ». Un giorno la va a trovare in classe, quando lei non ha che sedici anni, e siccome l’insegnante è in ritardo, comincia a far lezione lui, a modo suo, rispondendo alle domande degli altri studenti. Si possono anche immaginare, quelle domande: sulla guerra e la pace, il patriottismo e l’uÂmanitĂ . Cacciato lui dalla scuola, lei lo segue, e lo seguirĂ sempre, tra un conÂcerto e l’altro, tra un volo e l’altro, tra un’avventura sentimentale e l’altra («E’ così difficile, per una donna coÂme me, mescolare il sesso all’amore »). Joan e Ira non si raggiungeranno mai come uomo e donna. Ira si sposa anche, diverse volte, con donne che « lo detestano ». Ma la sua figura sbiÂlenca, da predicatore risecchito dai digiuni e dalle illusioni, è in un certo senso simbolica. In lui non si fa fatica a rintracciare la rivolta beatnik degli Anni Cinquanta, e perfino il grano delÂla droga, che pure Joan respinge per altri motivi. Siamo di fronte a ciò che qualcuno ha definito « la diabolica riÂvincita dell’Asia che, oppressa dalla forza materiale dell’America, si vendiÂca inquinando le acque del protestanÂtesimo con le lusinghe del pensiero orientale ». L’operazione dare-avere tra Asia e America è nota. Ma lampanÂte appare ora, nelle pagine di Daybreak, il debito che il pacifismo ameriÂcano ha contratto con il gandhismo, piĂą che con lo zen-buddismo di un deÂcennio fa. Eppure si tratta di una guerra, la guerra dei pacifisti, combattuta non solo nella resistenza passiva e nella violazione delle leggi, cioè nei modi che infuriano l’America, oggi sempre di piĂą propensa alle soluzioni di forza, ma con le armi che costituiscono il faÂscino e la debolezza del movimento: le armi della meditazione. Joan Baez così ne scrive: « Ciò che intendiamo per meditazione è in fondo molto semÂplice da spiegare. E impossibile da faÂre. Intendiamo fare attenzione. Fare attenzione, ma non concentrarsi; stare immobili, ma allo stesso tempo laÂsciarsi andare.. Smetterla di recitare, di fantasticare. Guardare con i propri occhi. Anche se io non so cosa ci sia da vedere. Ascoltare con i propri orecÂchi tutto quanto è vivo. Forse si può anche sentire, quanto è vivo… Non aspettarsi nulla. Quando si aspetta qualcosa, si è delusi, si è delusi… ForÂse ci si accorgerĂ che abbiamo solo questo momento. Tutto qui: un moÂmento. Gli altri momenti sono giĂ pasÂsati. Quelli futuri possono non arrivaÂre mai ». Il fascino della meditazione ha ragÂgiunto anche altri strati della vita, baÂsta pensare ai numerosi guru che aprono scuole di meditazione, qui, in ogni cittĂ . Ma sono ricette plebee, è ovvio: come le sedute di terapia colletÂtiva attraverso le quali la stessa Joan Baez è passata (e una ne descrive con il tocco, quasi, dell’osservatore di coÂstume). Ci sono anche i monaci vietÂnamiti che, la testa rasata, le fragili spalle coperte di ruvida stoffa arancio, arrivano a comunicare la scoperta dell’indistruttibilitĂ dell’essere umano. Un grande fascino, indubbiamente, lo esercitano soprattutto su chi è prediÂsposto all’evasione (Daybreak contieÂne a intermittenze regolari certi capiÂtoletti del tutto inutili, intitolati « SoÂgno » che i recensori non mancheranÂno di bollare; e inoltre, Joan Baez sembra attratta in modo particolare dal « sogno ad occhi aperti »), ma certo, la conclusione a cui non si può fare a meno di arrivare è che esiste una proÂfonda contraddizione tra questo modo di pensare e i fini pratici che il moviÂmento pacifista si prefigge. Di qui la constatazione di una ineviÂtabile debolezza. Di qui la spiegazione delle dimostrazioni violente, giocate nelle mani degli agitatori di professioÂne che si impegnano nello sgretolaÂmento del movimento di resistenza passiva. Di qui, certamente i fatti di sangue, le colluttazioni, le bombe laÂcrimogene, i morti, la polizia che reaÂgisce. PerchĂ© un fatto è certo, e cioè che non si può pensare, oggi, di traÂsformare un gigante come l’America con la sola forza della meditazione (« alle droghe non ci sono arrivata e forse non ci arriverò mai », scrive Joan Baez, « perchĂ© preferisco la forza dell’immaginazione ai reagenti chimici »), e quando allora si sente il bisogno di scendere in piazza o di andare in prigione, si compiono atti di forza e si rinuncia, consapevolmente o no, alla catarsi della meditazione. « La rivoluÂzione fatta e non voluta », ha definito tutto questo un articolista anonimo su un giornale dell’Illinois. Ma si potrebÂbe anche definire: « La rivoluzione voÂluta e non fatta ». D’altra parte, questo « amore di raÂgazza che corre libera tra le erbe alte di una natura non contaminata dalla civiltĂ industriale » (e corre incontro a coloro che piĂą ama, i ragazzi che giocano sull’equivoco eroico del rifiuÂto, le bambine che conservano « una purezza di farfalla », le ragazze che afÂfrontano la vita, sesso compreso, senÂza le tergiversazioni della morale corÂrente, gli uomini dotati del « grano poetico della pazzia »), e questa mediÂtazione che la rende debole come indiÂviduo sociale, quando nel contempo s’arrabatta a voler trasformare proÂprio questa societĂ , hanno dato a Joan Baez l’altissima qualitĂ del suo canto, che rimane ancora, anche dopo aver letto Daybreak, la sua espressione piĂą genuina. Incerta agli inizi tra l’impegno della canzone di protesta e il colore della rapsodia dialettale, Joan Baez trovò ben presto la vena che ancora l’accomÂpagna: una vena fatta di ballate ingleÂsi classiche (quelle per esempio racÂcolte nell’Ottocento da Francis James Child), di liriche folkloristiche delle piĂą poetiche, delle cosiddette broadside ballads, dal formato dei volantini diÂstribuiti agli angoli delle strade dai menestrelli cari alla memoria popolaÂre, e poi di ballate composte dai primi pionieri da questa parte dell’oceano, e infine di spirituals negri, di inni reliÂgiosi, di ninne-nanne. Il suo repertorio comprende oggi quanto di meglio si conosca nel campo della musica popoÂlare in lingua inglese e alcune tra le piĂą famose composizioni moderne che ricalcano i modelli passati. A volte la cantante impugna con la sua chitarra i motivi di un episodio di attualitĂ , a volte sembra riprendere il filo del diÂscorso dell’antica leggenda anglosassoÂne. Il suo, però, rimane un modo perÂsonalissimo di interpretazione. Spesso si unisce a Bob Dylan, e allora, in quel binomio, è l’America piĂą pensosa che canta: se di Dylan non ha, Joan Baez, nĂ© la forza inventiva nĂ© la granÂde scaltrezza musicale, ha però l’eleÂmento che a lui manca, una « luminoÂsa innocenza », come qualcuno ha scritto. In Daybreak, tutto questo viene diÂmenticato a vantaggio dell’annotaÂzione semi-distratta delle cose di tutti i giorni. Ma, a parte i meriti e i demeÂriti del libro, rimane il fatto che il diaÂrio aggiunge un pugno di consapevoÂlezza alla tortuosa protesta della gioÂventĂą di oggi, specialmente quando l’autrice scrive: « Ed eccoci qui, noi tutti, in attesa alle soglie della distruÂzione, con tutto che congiura contro noi viventi perchĂ© non possiamo vedeÂre, presto, il sole sorgere ». E piĂą avanti conclude: « Ti imbarazzerebbe davvero troppo, lettore, se ti dicessi che ti amo? ». Questo tono è stato criÂticato come « un pasticcio mancato di infantili ambizioni poetiche ». Come non essere d’accordo, al giorno d’oggi, quando la tavolozza del letterato sfoÂdera di solito tinte ben piĂą cupe? Ma come non capire che se vogliamo radÂdrizzare le cose del mondo dobbiamo fare i conti anche con questa smisuraÂta ingenua ambizione di semplicitĂ ? Joan Baez può anche essere consideraÂta una scrittrice di scarso rilievo: coÂme rappresentante della sua generaÂzione va ascoltata. __________ Accetto il rischio La mia vita è una goccia di cristallo. Come posso descrivere il modo con cui Marisa coglieva fiori nella valle? Il suo golf era rosato come il tramonto, e le sue scarpette di vernice rossa scivolarono sul dorso erboso della collina. Stanotte ho pianto a lungo Joan Baez Letto 3528 volte.

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