|
MUSICA: I MAESTRI: La passione di Penderecki29 Giugno 2013
di Gioacchino Lanza Tomasi Roma, marzo Si può condividere o meno la stronÂcatura della Missa solemnis (T.W. Adorno) ma essa mette il dito nella piaga; amo la Missa solemnis e allo stesso tempo apprezzo la denuncia dell’equivoco che da un paio di secoli si annida in ogni composizione dichiaÂratamente sacra. Anche senza collega- menti sociologici, metodi d’indagine a vasto raggio, è innegabile che la musiÂca sacra da Beethoven a oggi è perÂmeata di retorica, una retorica che va ben oltre il ricorso alle forme consaÂcrate (fuga corale, polifonia a cappelÂla, gregoriano), ma si annida nelle stesse premesse del genere sacro, il quale a dir poco va trattato, e quel che è peggio è trattato, con spirito peÂdagogico e didascalico. Oratori e messe son spesso gran monumentoni bronzei con tanto di decoÂro e significato, retorici appunto in quanto restano al di sopra dell’individuo, Umile, piccolino e problematico; essi invece vogliono impersonare fatti collettivi, sono il perpetuarsi della RoÂma imperiale nel mondo moderno, diÂgnitĂ dello Stato, della religione, delÂl’ordine costituito. Non è detto che tutto ciò conduca inevitabilmente allo stile littorio, ma alla poetica di quello stile sì. Qual piĂą qual meno in questa celebrazione si danno la mano tanto il Verdi della Messa da Requiem e dei pezzi sacri che le fughe del Requiem tedesco, Honegger, Britten, PendereÂcki, — lo scrivo perchĂ© lo penso e senÂza intenti di provocazione. Il sacro ha una sua precisa prosopoÂpea e senza quella parrebbe a molti che la musica sacra mancasse al suo compito. I successi travolgenti e interÂnazionali ottenuti da una Giovanna d’Arco al rogo, un War Requiem, in ultimo dalla Passione secondo San Lu- va di Penderecki son lì a dimostrarlo, e la prova del nove sarebbe nel tonfo scaligero della Messa di Stravinskij: non si perdona l’artista Che fa il sacro senza esser sacro, e allora bisogna diÂre almeno ch’è mistico per non accuÂsarlo di esser blasfemo. A questo punto bisogna o ammetteÂre un’arte retorica o rifiutarsi di ascolÂtare l’oratorio dell’Ottocento e del NoÂvecento; d’altronde nel secondo OttoÂcento la retorica religiosa ha infuriato anche fuori del suo campo d’elezione, ed eccoti i gran monumentoni sacri e sinfonici di Bruckner e Mahler con i loro finali a maggior gloria di Dio. Fatte queste premesse, secondo le quali consiglierei vivamente di incluÂdere fra i capolavori di un’arte religioÂsa ottocentesca il Requiem di FaurĂ© e di espungerne tanti altri, passiamo alÂl’ascolto della Passione secondo San Luca di Penderecki, prima esecuzione a MĂĽnster in occasione del settimo centenario della cattedrale (1965) alla presenza dell’arcivescovo e del capiÂtolo. Qui come altrove nella sua produÂzione sacra, le convenzioni retoriche del genere sono state accettate da Penderecki senza scrupoli. Artista tecÂnicamente dotato egli ha assimilato le scoperte foniche dell’avanguardia alieÂnandole dalle loro premesse poetiche e servendosene quali effetti virtuosiÂstici e provocatori. Anche nella musiÂca d’intrattenimento — è il lato della sua produzione che preferisco — Penderecki individuo resta senza volto ed emerge soltanto il musicista funamÂbolo. E’ un funambolismo che può esser posto al servizio degli orrori della guerra (celebri i Threni alle vittime di Hiroschima) come dell’arte sacra. Se non cinico almeno Penderecki è spregiudicato, in quanto sa scegliere i soggetti piĂą adatti a ricevere la decoÂrazione sonora di cui sopra, soggetti di attualitĂ e nei quali la sua tecnica è destinata a elevarsi a monumento sulÂle ali dei contenuti. Se non si spregia il monumento in quanto tale, e si amÂmette l’esigenza di simboli retorici che fissino il sentimento collettivo di un’epoca, allora Penderecki è il musiÂcista monumentale di questo dopoÂguerra, ha toccato le punte massime del successo civile nei Threni, di quelÂlo sacro nella Passione. Riceve comÂmesse di circostanza per le cerimonie di Auschwitz (Dies Irae del 1967) come Zadkine le ha ricevute per commemoÂrare la distruzione di Rotterdam, adoÂpera un linguaggio analogamente effiÂcace e moderno, fatto non di dettagli ma di prosopopea: la sua arte al serviÂzio della collettività è travolgente nelÂle scariche foniche, trascura l’analisi, il dubbio, l’autocritica. La retorica civile è stata uno dei grandi temi del Novecento da Guernica in poi, e ha diciamo un suo linguagÂgio codificato abbastanza nuovo e conÂtemporaneo, non così si può dire per la retorica sacra, la quale si trova imÂpastoiata in una tradizione devota con le sue fissazioni liturgiche. Accettare le convenzioni del genere sacro oltre alla solennitĂ , allo scriver grande per eventi grandi, significa anche dover riÂpescare qualche precedente linguistiÂco, nel caso particolare della Passione secondo San Luca, il gregoriano e il basso sulla parola Bach. Trascuriamo la poetica e volgiamoci alla tecnica. Riesce Penderecki ad amalgamare i precedenti culturali con la violenza di effetti fonici che stanno a rappresentare la posizione cronologiÂca della sua Passione nel mondo moÂderno? Questa come è stato scritto è la passione vista dopo la bomba atomiÂca e Auschwitz, ma al tempo stesso è quella di prima e quella di sempre con tutta la sua vernice culturale. A mio avviso questo incontro nel caÂso in esame lascia trasparire uno sforÂzo del musicista alla ricerca di uno stiÂle; il tentativo è portato avanti con competenza ma non può dirsi che parÂzialmente riuscito. E’ indicativo in proposito che pur avendoci lavorato sopra per due anni Penderecki abbia rinunciato a musicare le parole dell’Evangelista affidate a un recitante. La genesi della Passione risiede nel sucÂcesso dello Stabat Mater (1962), rifluiÂto poi nella seconda parte dell’opera maggiore. L’incontro fra religiositĂ dell’orrore e gregoriano è giĂ integralÂmente definito nello Stabat, la PassioÂne possiede altri pezzi che gli stanno alla pari ma nessuno diverso, cioè in anni di lavoro Penderecki non ha poÂtuto acquisire un’altra definizione linÂguistica oltre quella del 1962. Questo è il principale insuccesso della Passione e insieme la causa della sua macchinositĂ : l’aver dovuto proÂtrarre un pezzo riuscito alla misura dell’oratorio, inevitabile quindi il riÂcorso all’espediente invece che alla composizione. Espedienti, effetti, non altro sono la nuditĂ delle arie solistiÂche (vi si tenta l’imbroglio punto moÂderno di ritornare alla fissitĂ ieratica della monodia, gregoriana e non, una sorta di recitar cantando liturgico doÂve l’intonazione sta al posto della comÂposizione), il parlato dell’Evangelista, la rinuncia all’orchestra (Penderecki non la integra nell’originaria scrittura a cappella per triplo coro dello Stabat e l’orchestra si limita a colorire il teÂsto a chiazze sonore, con effetti spesso gratuiti di colonna elettronica). Mancata sul piano dell’arte la PasÂsione può invece considerarsi riuscita su quello liturgico — abbiamo detto di una rinunzia, ma è lo stesso genere di rinunzia delle passioni di Schutz riÂspetto a quelle di Bach — cioè rifletÂtendo sul testo recitato o cantato e apÂpena decorato dal suono, soffermandoÂsi sul commento policorale, immagiÂnando soprattutto di esser in chiesa invece che in un auditorio, l’effetto saÂcro è potente, adeguatamente conciliaÂre e quindi sulla cresta dell’onda come è stato decretato dal successo internaÂzionale dell’opera. AU’infuori della liturgia resta ben poco, per il mio gusto oltre allo Stabat in primo luogo l’altro pezzo a cappella « in pulverem mortis deduxisti me », efficace nei suoi contrasti emotivi e nella contaminazione linguistica fra vecchio e nuovo, un po’ meno coerenÂte l’inno di apertura « O crux, ave spes unica » e la passacaglia « popule meus », ancor meno, per l’ibrida parteÂcipazione orchestrale, il finale « In Te, Domine, speravi ». In questi pezzi l’arte non manca ed è prioritaria rispetto al testo, ma solÂtanto a patto che il coro canti un poco piĂą le note scritte dall’autore di quanÂto abbia fatto quello dell’Accademia di Santa Cecilia. Il discorso policorale di Penderecki sì basa infatti su chiare contrapposizioni armoniche: da un lato l’insistenza ossessiva su intervalli di seconda che si sommano verticalmenÂte in una sorta di « cluster » vocale, dall’altro precisi riferimenti a temi gregoriani o addirittura all’accordo perfetto. Il mio orecchio sarĂ pressochĂ© indifÂferente all’intonazione esatta di una diecina di altezze concomitanti e disÂsonanti fra loro (un accordo di tal geÂnere è un timbro non una relazione armonica dialettica) ma è essenziale che il frammento tematico o l’accordo tradizionale emergano dal caos quali elementi d’ordine. Il recupero linguiÂstico della policoralitĂ di Penderecki consiste proprio in questa proiezione improvvisa del tradizionale fuori di un magma informe; se invece, come a Santa Cecilia, il « paradisi gloria » delÂlo Stabat (accordo perfetto) viene fuoÂri come accordo stonato, si resta smarÂriti prima e dopo. Ingannati, si potrebÂbe fare il torto a Penderecki di credeÂre che egli abbia preparato per dieci minuti una risoluzione esplosiva al soÂlo scopo di non farla uscire mai. In queste condizioni tecniche ben poco ha potuto raddrizzare la barca la direzione di uno specialista quale Jerzy Semkow, il coro di voci bianche di Bad Tölz e Salzburg e la voce liturgiÂcamente ispirata di Andrzey Hiolski (Cristo); bravo il basso Boris Carmeli e discreto il soprano Marjorie Wright, sgradevolmente enfatica la recitazione di Ivano Staccioli. Letto 4281 volte.

Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. |
![]() |
|||||||||