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MUSICA: I MAESTRI: Monteverdi. I Gonzaga gli avevano messo la corda al collo29 Settembre 2012
di Lionello Cammarota Pochi giorni or sono è caduÂto il quarto centenario delÂla nascita di Claudio MonÂteverdi, e ovunque si molÂtiplicano le celebrazioni di tale ricorrenza. Relativamente inteÂressa quel che riguarda il semÂplice dato di cronaca sulla vita del Monteverdi, per un fatto che appare ovvio ai piĂą sprovveduti; e cioè in quanto elementi come data di nascita e di morte, come le tappe di una vita quotidianaÂmente vissuta, con gli spostamenÂti da centro a centro, o ancora il reiterato richiamo alla produzioÂne artistica, non servono a metÂtere in luce lo spirito di un autore, nĂ© valgono a indicare i valori della sua arte, e tanto meÂno a far comprendere e a peneÂtrare l’essenza dei significati di quel che l’invenzione e l’estro hanno esternato e concretato in immagini reali lasciate poi in reÂtaggio ai posteri. Meglio dunque ignorare il fatto anagrafico e cronachistico. « Ho patito a chiedere il mio » E’ cosa nota che Monteverdi, giovanissimo, attrasse in MantoÂva l’attenzione dei Gonzaga. Le nobili famiglie dell’epoca amavaÂno circondarsi di mĂąsici, e MonÂteverdi a soli diciassette anni giĂ si era fatto conoscere per certe sue brillanti canzonette, così che non molto tempo dopo fu invitaÂto a far parte dei virtuosi alle dipendenze dei Gonzaga, in quaÂlitĂ di cantore prima, e poi coÂme virtuoso di viola. Da dove sia scaturita tanta sapienza, tanta abilitĂ e tanto estro nel far muÂsica non è cosa categoricamente certa; alcune pubblicazioni dello stesso Monteverdi portano che egli fu allievo di Ingegneri, muÂsico romano di rilievo, ma di queÂsti non vi è notizia negli archiÂvi di Mantova. Si potrebbe supÂporre comunque che Monteverdi abbia preso anche lezioni dal fiammingo Wert, ch’era allora il piĂą celebre maestro della corte mantovana. Meglio ancora però orientarsi sul fatto che, dopo aver appreso i primi necessari rudimenti nell’arte del comporÂre, il musico si sia formato da sĂ© sulla scorta delle opere dei suoi predecessori, dato che in fin dei conti molte di quelle cose riÂscontrate nelle sue composizioni e attribuitegli come originali eraÂno giĂ presenti in tanti altri. Ad esempio, a proposito del conÂtrappunto dei madrigali si citaÂno volentieri le numerose licenÂze ch’egli liberamente si permetÂteva, ma basterebbe scavare nelÂla scuola polifonica napoletana per riscontrare quelle stesse coÂse molto prima. Non sono gli acÂcorgimenti tecnici a dare fondaÂmento alla sua arte, ma piuttoÂsto la eccezionale capacitĂ di asÂsimilazione che sarĂ posta in funzione di una forza maceranÂte gli antichi modi per piegarli a nuova esigenza espressiva. Con i Gonzaga o in rapporto con essi, rara razza di sperperaÂtori di denaro pubblico e privaÂto, Monteverdi rimase con una corda al collo fino all’etĂ di ben 44 anni. Una bella tirata dunque dall’epoca in cui entrò giovanotÂto a corte. Risulta che finanche i musici di minor fama ricevesÂsero lì lauti compensi e laute donazioni; Monteverdi no. LavoÂro, quanto se ne voleva: Giulio Cesare Monteverdi, scrivendo sul fratello Claudio, riferisce che « i carichi del suo servizio in ManÂtova, dopochĂ© da sonatore di vioÂla fu promosso maestro, erano oltre alla cura ordinaria della musica tanto da chiesa quanto da camera, molte altre brighe straordinarie, per le quali la magÂgior parte del tempo sì trovava occupato ora in tornei, ora in balletti, ora in commedie e in vari concerti, e finanche nel conÂcertare le due viole bastarde ». Tale condizione logorerĂ l’animo e il corpo del musico, tanto che in una lettera del 1620, scritta da Venezia, con la quale egli risponde negativamente all’inviÂto dei Gonzaga affinchĂ© tornasse in quella corte, si legge fra l’alÂtro; « Dio me ne guardi. Non ho in vita mai patito maggiormente afflitione di anima di quella di quando mi bisognava andar a diÂmandare il mio quasi per l’amor di Dio al Sr. Thesoriere…! ». Al contrario, quiete e onori, oltre al giusto compenso per le sue fatiche, potĂ© ricevere in Venezia, ove si trasferì nell’agosto del 1613 perchĂ© nominato maestro di cappella della Serenissima ReÂpubblica di San Marco. Nella tranquillitĂ economica e nel riÂspetto lavora qui alla maggior parte di quelle che saranno opeÂre destinate alla Storia, e in tale attivitĂ conduce la propria vita fino , ai primi del 1643: dopo una meritata vacanza di sei mesi duÂrante la quale torna a rivedere tanti luoghi antichi, rientra in Venezia per morirvi dopo nove giorni di malattia. Rara potenza espressiva: queÂsta la grande lezione ch’egli ha lasciato; i libri di madrigali ne sono il piĂą alto documento. Ma c’è altro: dove ebbe origine il melodramma è cosa nota; a Firenze esattamente nell’anno 1600, con la Euridice di Peri e di Caccini, la quale va consideÂrata come primo esempio di meÂlodramma. Ma mettiamo a fuoÂco: Euridice interessa come doÂcumento, non certo come opera d’arte; è infatti lavoro frammenÂtario, piatto e uniforme, monoÂtono e in certo senso ancora squilibrato; ha valore fondamenÂtale perchĂ© prima manifestazione di una nuova idea, l’idea del dramma in musica. Un’idea diÂstorta, dovuta a errore storico, poichĂ© nata dal voler tornare alla tragedia greca così come si credeva che fosse: rappresentaÂzione cantata. Sorge dunque una convenzione, il recitar cantanÂdo; ma colui che per primo ha dato impronta d’arte, è quindi valore, a questa convenzione fu il Monteverdi, sette anni dopo la Euridice, con l’Orfeo. Si coÂminciano qui a realizzare la viÂsione unitaria dell’argomento e l’agitazione drammatica, oltre il costituirsi della prima solida comÂpagine strumentale: è l’orcheÂstra moderna, fatta di circa quaÂranta elementi. E’ questo il priÂmo grande passo degli strumenÂti, riscattatisi ora dal ruolo seÂcondario rivestito nella polifonia, ove lo strumento fungeva da fatÂtore di comodo per supplire alla eventuale mancanza della parte vocale. Monteverdi vagheggia un mondo nuovo, nel quale fa palÂpitare una compagine orchestraÂle moderna e autosufficiente, e ne pone le basi nell’Orfeo. SarĂ poi la volta di Arianna; ne riÂmane l’arcinoto lamento: troppo poco per poter dare giudizi. QualÂche idea la si ricava solo dalle cronache dell’epoca, ed eccone una significativa: « … Era quelÂl’opera per sĂ© molto bella e per i personaggi che v’intervennero vestiti d’abiti non meno approÂpriati che pomposi, e per l’appaÂrato della scena rappresentante un alpestre scoglio in mezzo all’onde, le quali nella piĂą lontana parte della prospettiva si videro sempre ondeggiar con molta vaÂghezza. Ma essendole poi aggiunÂta la forza della musica del siÂgnor Claudio Monteverdi maeÂstro di cappella del duca, uomo di quel valore che il mondo sa e che in quell’azione fece pruova di superare se stesso; aggiungenÂdosi al concerto delle voci l’arÂmonia degli stromenti, collocati deietro la scena, che l’accompaÂgnavano sempre e con la variaÂzione della musica variavano il suono: e venendo rappresentata da uomini, come da donne, nelÂl’arte del canto eccellentissimi; in ogni sua parte riuscì, piĂą che mirabile nel lamento che fece Arianna sovra lo scoglio, abbandonata da Teseo, il quale fu rappresentato con tanto affetto e con sì pietosi modi, che non si trovò ascoltante alcuno che non s’inteÂnerisse, nĂ© fu pur una donna che non versasse qualche lagrimetta al suo bel pianto… ». LaÂsciando da parte le facili lagrimucce, Monteverdi tenne molto al lamento di Arianna, le cui deÂlicate espressioni sorsero forse piĂą che quale pianto d’Arianna per Teseo, quale pianto del muÂsico per la recente morte della moglie Claudia. Gli ultimi melodrammi riveleÂranno nuove conquiste: la sepaÂrazione su piani diversi dei sinÂgoli personaggi, cioè la penetraÂzione dell’intimo carattere che diÂstingue figura da figura. MonteÂverdi dipinge ora musicalmente i suoi protagonisti, e li separa nettamente l’uno dall’altro: con la Incoronazione di Poppea NeroÂne appare nella sua crudezza e nella sua violenza, Ottavia nella sua delicatezza e nella sua fragiÂlitĂ , Poppea nella sua sensualitĂ e nella sua lascivia. La musica li plasma tutti, infondendo loro un pathos che rimane individuaÂle: è quanto d’ora in avanti si pretenderĂ in ogni melodramma. Precorse il romanticismo Non è un azzardo l’affermare che Monteverdi fu quasi precurÂsore dell’idea romantica. Egli inÂtuì ciò ch’è slancio dello spirito, intuì le profonde necessitĂ espresÂsive dell’essere vivente, intuì la esaltazione dell’intimo umano; e mutò e piegò i mezzi del suo tempo per forgiarli con prepoÂtenza secondo queste esigenze, le sue esigenze. Nel non poi tanto lontano 1643 non è ch’egli sia morto, ma piuttosto trasumanò fra quanti hanno avuto il priviÂlegio di saper plasmare quella rara merce che è in mostra su un solo banco, sul solo vero banÂco cui l’umanitĂ attinge per laÂsciare incorruttibile memoria di sĂ©, banco destinato a rimanere saldo di tempo in tempo nel volÂgere dei secoli, il banco dell’arte. Letto 1859 volte.

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