|
MUSICA: I MAESTRI: Stockhausen e l’autoritarismo musicale15 Giugno 2012
di Luigi Pestalozza Hymnen di Karlheinz Stockhausen, per musica elettronica e concreta con solisti (pianoforte, viola, percussione), che giĂ tre volte, negli ultimi mesi, sono stati eseguiti in Italia, non sono ancora un lavoro concluso. Ma fin d’ora si può prevedere che quando saranno terminati dureranno cinque, sei ore, forse piĂą. La parte ascoltata, e destinaÂta a incastonarsi, come inizio, nel tutto, dura inÂfatti, da sola, quasi centoventi minuti. Di per sĂ©, dunque, una durata giĂ essa eccentrica rispetÂto alla norma, che altera le abitudini di ascolto per un pezzo unico, che insomma si predispone a significati specifici. In altre parole impone la lunghezza come problema (1). La lunghezza, nello ultimo Stockhausen, nei suoi lavori che non esitaÂno a durare piĂą ore, e pensiamo a Momente, si impone come tale, e come tale riguarda immeÂdiatamente i rapporti della musica con la socieÂtĂ , dal punto di vista della societĂ che cento anni dopo Wagner riproduce e riconsente la proposta di una musica infinita, ma anche, s’intende, dal punto di vista del compositore che la propone. La stessa tendenza a prevaricare l’ascoltatore medianÂte il discorso senza fine, a bloccarlo così, per asÂservirlo, è riconducibile in ultima analisi ai mecÂcanismi dell’ipnosi sociale che, come quello pubÂblicitario, fanno strutturalmente parte del potere economico capitalista. D’altra parte, quella tenÂdenza non ha per esempio niente a che fare con il mero lavoro sperimentale, scientifico, di ricerÂca acustica e basta, nel quale Stockhausen, si sa, pretende esaurire il suo ruolo di musicista. La preÂtesa, semmai, riguarda il camuffamento teorico intrinsico alla musica che effettivamente esibisce le proprie virtĂą tecniche, che non a caso cerca di camuffare nella tecnologia ogni suo altro siÂgnificato (2). Ma la sperimentazione dello scienziato preceÂde sempre l’applicazione, e invece quella di StoÂckhausen è subito applicata tramite la stessa lunghezza, che anzi denota l’attitudine a una muÂsica tutta ideologica, nè soltanto nella misura in cui il durare oltre la consuetudine mette in eviÂdenza il contrasto con le convenzioni socioculturaÂli che regolano la produzione musicale, il consuÂmo, le istituzioni (soprattutto) in cui si oggettivizzano, si fissano, si impongono (3). In realtĂ , a essere rivelata è perfino l’esigenza di assegnare alla musica il compito di comunicare, poichĂ© la durata inconsueta è essa stessa l’invenzione coÂmunicativa di un pensiero musicale originale, fuoÂri dal comune modo di pensare, che cerca, la coÂmunicazione proprio nel senso per cui StockhauÂsen si potrebbe dire quello che Nietzsche ebbe a dire di Wagner, che in lui « è eminente l’istinto di comunicarsi e la sua inventiva nel comunicarÂsi » (4). Ossia come in Wagner, e non solo come in Mahler al quale Stockhausen è stato ripetuta- mente accostato, la lunghezza dichiara un proÂposito per così dire filosofico (accumula in sĂ© una filosofia della musica e del mondo, mostra che alla musica è assegnato questo compito), cioè apÂpartiene alla grande tradizione musicale tedesca di fine 800 e di primo 900, del periodo durante il quale l’abbandono delle sintesi formali chiuse in schemi prestabiliti di discorso, significò l‘invenÂzione delle forme aperte per essere disponibili alla infinita meditazione della musica sull’esistenza coinvolta nella perdita del discorso logico e finito fra uomo e societĂ , fra individuo e valori ideali, borghesi. Dietro lo smarrimento esistenziale giĂ in atto, c’era però l’isolamento sociale, e con esso, giĂ , l’ideologia imperialista delle masse anonime come attuali, minacciose interlocutrici, alla cui minaccia di assorbimento nel loro anonimato, la personalitĂ privilegiata opponeva il proprio diritÂto superiore, tardoromantico, aristocratico, a parÂlare senza limiti in nome della comune angoscia e dell’ansia comune di rivalsa. Ma la vanitĂ soÂciale del dialogo e del confronto con gli altri, la sfiducia nello sbocco democratico e anzi il disprezÂzo della societĂ per la democrazia intesa come atÂtentato al privilegio personale, autorizzava e faÂvoriva, appunto, la lunghezza della musica di chi soltanto aveva titoli sociali, quelli della gerarchia riconosciuta all’artista, a parlare per tutÂti, ad assorbire in sĂ© anche l’ipotesi dell’obbiezione, dell’opposizione. Nella lunghezza, manifestazioÂne di un rapporto umano frantumato e impossiÂbile, del bisogno di imporsi e di negare la stesÂsa consuetudine liberale delle istituzioni musicali borghesi che avevano offerto al libero consumo della borghesia un’eclettica varietĂ di prodotti, c’erano fin da allora i tratti distintivi del procesÂso autoritario in atto nella societĂ (5). Rispetto alla tradizione, tuttavia, la lunghezza di Stockhausen è ovviamente peculiare, di oggi. La tradizione della lunghezza recuperata dal reÂsto per restituire alla musica, e al livello della avanguardia ma contro le avanguardie rassegna tesi a compiti di decorazione ben compensata, la capacitĂ di esprimere una Weltanschauung, divieÂne in Stockhausen il gesto autoritario al cui livelÂlo di aristocrazia egli reagisce contro l’opportuniÂsmo, la piatta integrazione, l’abitudine sociale, quotidiana, della musica comunque ridotta alla banalitĂ e all’inautenticitĂ . Infatti la musica proÂlungata per vincolare le coscienze al proprio doÂminio psicologico, intende piegarle così alla proÂpria veritĂ lasciata cadere dall’alto, che però non è soltanto la reazione aristocratica e non sono nemmeno, in Hymnen, i bilanci storici e ideali messi avanti, bensì è il significato che questi e quella assumono in relazione all’autoritarismo muÂsicale di cui necessitano, per cui si vede subito come le istituzioni, le convenzioni, le consuetudini violentate, lo siano non per negarle democratizÂzandole ma per usarle autoritariamente, proprio come è stato ed è nella societĂ il processo dello autoritarismo esercitato dalla classe e da chi per essa si è arrogato il titolo falsamente democratiÂco della rappresentanza totalitaria nei termini di io sono il mondo, io ne decido, lo illumino, lo guido. D’altronde, l’ingenuo utopismo cui Hymnen approÂdano, avvalora la subordinazione all’ideologia pasÂsivamente accettata dalla societĂ che cerca la salÂvezza nel principio di autoritĂ , ovvero serve soÂprattutto a confermarci nella convinzione giĂ acquisita durante l‘infinito ascolto, che il pezzo è in ultima analisi totalmente utopico. La lunghezÂza di Stockhausen è infatti attuale perchĂ© essa è la vera utopia, quella sociale, negativa, del prinÂcipio autoritario, della sua odierna violenza. La violentazione musicale operata mediante la lunÂghezza, appartiene ai mezzi di propaganda del sistema verticistico che non ammette repliche alle sue esclusive ragioni, che non lascia spazio per opporre argomenti a chi li sciorina dai vertici della scala gerarchica. Non si può prescindere, parlando di Hymnen, dal fatto che i materiali di base, del pezzo fin qui composto, sono gli inni nazionali, come del resto suggerisce il titolo, di alcuni paesi. Di tutti i paesi, secondo il progetto definitivo dell’opera. La selezione, cioè, è esclusa, e ciò esclude la scelta sulla qualitĂ delle musiche, degli inni presi inveÂce per quel che sono in pratica, simboli nazionali o di aspirazioni internazionaliste. L’esclusione, d’alÂtra parte, riguarda anche, ed è chiaro, gli HyÂmnen oggi ascoltabili, per i quali tuttavia contaÂno gli inni che in essi ricorrono, e come vi ricorÂrono (la obbiezione che Stockhausen avrebbe poÂtuto valersi di qualsiasi altro materiale, vale in relazione al loro trattamento compositivo in geneÂrale, per il quale però sarebbero occorsi sempre materiali di base d’un certo tipo, per esempio d’impronta chiaramente tonale, ma soprattutto suÂbisce la contro-obbiezione che comunque il musiciÂsta ha scelto quel dato materiale oggettivamente carico di determinati valori simbologici). L’Internazionale e la Marsigliese, gli inni soÂvietico, americano, spagnolo, svizzero, quello teÂdesco della RFT e quello nazista, alcuni inni afriÂcani, risuonano e si fanno sentire. Non sono peÂrò un mero pretesto compositivo. La composizioÂne monumentale che per due ore si espande nella iperbole delle inesauribili figurazioni sonore, in gesti e segni crudeli, sferzanti, insinuanti, bassaÂmente patetici e falsamente gloriosi, che tutto traÂvolge nella maestria con cui viene costruita una sorta di fenomenologia musicale della disgregaÂzione (fino all’ansimo mortale, di moribondo, riÂprodotto con spietato naturalismo, che scandisce implacabile i lunghi minuti della coda), li suggeÂrisce via via e ne fa i centri irradiati della muÂsica dalla quale sono aggrediti, dileggiati, umiÂliati, ridotti a oggetti squalificati, semmai cariÂchi ancora di minacciosa energia distruttiva. La dissacrazione sembra essere ed è il proposito riÂvoltoso di Hymnen, salvo subire la ritorsione ideoÂlogica di ciò su cui si esercita. Consacra cioè l’ideologia dominante. La Marsigliese e l’InterÂnazionale, nella prima regione (6), sprofondano insieme in un tetro marasma di suoni, quasi una marcia funebre di inedita formulazione, di imÂpensate risonanze, e nella seconda regione gli inÂni della RFT e quelli africani frammischiati a quello sovietico, sboccano troppo bruscamente, e con sarcasmo ingenuo, nell’odioso ritorno dell’inÂno nazista, per non proporre un preciso giudizio proprio politico. Così, nella terza regione, l’inno sovietico ripreso e ingigantito fino all’enfasi, suÂbisce il senso dell’accostamento all’inno americaÂno che segue « in variopinte relazioni con tutti gli altri inni » (Stockhausen), che sfocia a sua volta in quello eccitato, isterico, spagnolo. Le due grandi potenze sovrastano e si spartiscono il monÂdo prigioniero della loro cattiva coscienza fasciÂsta? Parrebbe, a giudicare dall’ostentazione didaÂscalica del montaggio, e comunque, a ribadire il criterio della didascalia elementare, la quarta regione si apre con l’inno svizzero, abbastanza burocratizzato da dileggiare forse lo stesso ideale neutralistico richiamato, cui ad ogni modo e non a caso succede « un inno che appartiene al reÂgno utopistico della Inni-Unione nella Armonia tra Plurimondi, che è il piĂą lungo e il piĂą peneÂtrante di tutti » (Stockhausen). Ma proprio la fuga nell’utopia tanto comodamente al di lĂ delÂla storia (come era stata quella hindemithiana dell’armonia dei mondi alla quale singolarmente rinvia), scopre la vocazione a un misticismo nel quale s’estingue e si mistifica l’intenzione dissaÂcratoria. Il significato politico del pezzo si espone al reÂperimento per il dogmatismo con cui è chiaramenÂte esposta lĂ stessa esposizione musicale del monÂtaggio operato sui materiali di base. Tuttavia. L’angoscioso nullismo in cui quei materiali venÂgono coinvolti e naufragano, il ricorso moralistiÂco all’alibi del fascismo nel quale fatalmente si degraderebbe ogni processo storico, di oggi, senÂza distinzione, il nazionalismo come l’internazioÂnalismo, borghesi o proletari che siano, non si limita a collegarsi abbastanza rozzamente alla peggiore mistificazione ideologica, falsamente moÂralistica perchĂ© affidata alle suggestioni di un pessimismo supremo della negazione totalitaria della storia, su cui si regge il totalitarismo delle forze sociali che oggi rivendicano il diritto escluÂsivo ed eterno a manipolare il mondo a propria immagine e necessitĂ di dominio, dell’imperialiÂsmo, della sua ideologia. La banale assimilazioÂne che di per sĂ© rivela però un perentorio asseÂstamento socioculturale, una significativa passiviÂtĂ di pensiero (7), va oltre se stessa, e proprio nel momento in cui l’inno della salvezza si pone come testimone di una morale superiore, di una metafisica affidata all’ipotesi metastorica di un regno salvatore. Ma la premessa della mistica visione è la storia negata che dunque nega indiÂscriminatamente i valori politici, e se ciò porta musicalmente in sĂ© anche il rimpianto o il desiÂderio frustrato di una conciliazione universale deÂgli uomini sopra le cose, porta soprattutto in sĂ© l’idea catastrofica, e non per nulla tutta heiddegheriana, della caduta dell’uomo nelle cose senÂza senso di tutti i giorni, del suo essere tramite esse per la morte. La violenza come inevitabile e fatale esperienza esistenziale, si offre così alla teorizzazione della musica che tuttavia la mette a nudo come esperienza globale, così avallandoÂla tramite la sconsacrazione ridotta all’opportuniÂsmo, salvo che l’idillio dell’utopia offre una via di uscita che è piĂą di una semplice, generica, corsa in avanti nel misticismo. Il momento posiÂtivo, il momento utopico, trionfante musicalmente sul respiro di bestia ferita, di drago colpito a morte, che conclude il pezzo, musicalmente è liÂberato dalla determinazione terrena, mondana, dei materiali di base precostituiti, nasce autonomo dal magistero compositivo che tecnicamente sa farÂne « l’inno (…) che è il piĂą lungo e il piĂą penetranÂte di tutti ». Allora la liberazione dalle mortifere determinaÂzioni mondane, terrene, è anche della tecnica che ora si consente alla libera invenzione, e l’apologia del riscatto tecnologico elevato a dimensioÂne utopistica per rafforzarne la positivitĂ antaÂgonistica di fronte alla politica e alla storia releÂgate nella negativitĂ , non si limita certo a giuÂstificare le teorizzazioni su se stesso come musiÂcista oggi, di Stockhausen. Perviene davvero alla identificazione con l’ideologia della risoluzione teÂcnologica dei conflitti sociali, il cui utopismo è tuttavia giĂ smascherato dalla necessitĂ impliciÂta alla logica dissolutrice del lavoro, di conseÂgnarsi a un messaggio utopico. Soprattutto, però, l’autentico nesso ideologico con la classe che afÂfida la sopravvivenza del proprio potere all’immaginaria estinzione del conflitto sociale nelle virÂtĂą della tecnologia, si stabilisce nel momento in cui l’apologia, ponendosi utopisticamente, e per come, così, si pone, esige l’annichilimento che lo precede, il dogmatismo del giudizio che l’ispira, dunque l’autoritarismo della negazione ideologica come condizione dell’autoritarismo conseguente, quello della positivitĂ tecnologica. Nello stesso tempo, il procedimento compositivo che adempie alla coerenza della lunghezza, in questo modo avalla definitivamente il principio autoritario afÂfidato al costruirsi musicale dei significati. L’esÂsenza politica di Hymnen, dei loro significati, sta appunto in ciò, poichĂ© alla fin fine la stessa teÂcnologia non è che il mito, l’utopia, il misticismo, della classe che domina autoritariamente rigetÂtando da sè qualsiasi alternativa umanistica che oggi in crescendo si riconnette soltanto alla lotta mondiale delle forze rivoluzionarie, che essa non vede e non può vedere se non rigettandola aristoÂcraticamente nella catastrofe eterna della violenÂza come attuale, globale, sola esperienza esistenÂziale. Il freddo delirio con cui Stockhausen annienÂta in Hymnen ogni valore che si è dato in parÂtenza mediante i simboli musicali da cui parte, arriva a un grado di allucinata disumanizzazioÂne che va al di lĂ dei valori distrutti, in quanto davvero manifesta fondamentalmente la subordinaÂzione ideologica e la contraddizione della compoÂsizione la cui strepitosa energia seduttiva accuÂmula unicamente, in sĂ©, nella sua inesauribile fantasia, la capacitĂ di dare senza incertezze la immagine terribile dell’ideologia terroristica, intimidatrice, su cui si regge il tardo capitalismo. Il fascino superiore di Hymnen passa dunque attraverso la capacitĂ musicale, inventiva, creatiÂva, di rendere in termini di musica assoluta la relativitĂ , l’unilateralitĂ , la parzialitĂ del signifiÂcato proprio politico da cui il pezzo è vincolato, la metastoria, la metafisica che pretende imporre oltre la frustrazione dello scoraggiamento. Sotto questo aspetto, anzi, la lunghezza è di nuovo imÂportante, per il modo sistematico con cui la comÂposizione l’organizza, organizzando sistematicamenÂte lo stesso espandersi di minuto in minuto della capacitĂ di creare e inventare una musica che avvince. Ma appunto l’incanto esclusivamente musicale è anche dovuto alla sistematicitĂ che blocca la lunghezza in un ordine perfino burocratico, a sua volta esaltato dalla natura e dal trattamento dei materiali. Le sigle degli inni, spesso affidate al pianoforte che le annuncia quasi didascalicamenÂte, si presentano infatti, via via, nude nelle loÂro figurazioni tonali, benchĂ© subito si rifrangano nell’elaborazione elettronica e nell’intrecciarsi delle molteplici fonti sonore, che mobilitano lo spazio acustico e dalle quali irrompono le urla, le griÂda, i canti, gli striduli suoni della natura regiÂstrati con fedeltĂ , la corrosiva e dolciastra meÂlanconia della viola come traumatizzata dall’emoÂzionante sfregio dell’amplificazione, i timbri dilaÂtati della percussione, del tam-tam fatto risuonaÂre proseguendo dalle ricerche di Mikrophonie I. Ossia suoni elettronici ed elementi concreti e il loÂro combinarsi con i solisti amplificati, nell’artiÂcolazione stereofonica che li associa in diverse stratificazioni o li isola in rilievi formali talora contraddistinti da una provocatoria ovvietĂ , esaltano e macerano insieme la materia su cui raÂgionano musicalmente, gli inni, salvo che la strutÂtura sistematica del loro successivo proporsi come centri propulsori della musica, determina il riÂproporsi appunto burocratico degli episodi mai umiliati dalla ripetizione o dalla stanchezza delle soluzioni escogitate, e tuttavia irrigiditi nella uniÂca idea, ribadita con ostinazione, ossessivamenÂte, del crollo catastrofico degli ideali, fino alla ideale sublimazione utopistica in cui il composiÂtore trova altezzoso e vano rifugio. Dunque la lunghezza che esaspera la formula, ne è esaspeÂrata in un reciproco accrescimento dell’esito ideoÂlogico cui concludono. La lunghezza, infatti, si compie accostando e tessendo nel contesto elettroÂnico e strumentale, segni, gesti, figure, oggetti sonori concretamente presi dal dato naturale o umano, ma non per costruire un gigantesco collaÂge, bensì per usarli come fonti del solo discorso possibile, rimasto, per gettarli impietosamente allo sbaraglio nel crogiuolo dell’epico e nevrotico racconto dove finiscono musicalmente stravolti o meglio reificati, rovesciati in emblemi antirealisti ci che al limite suggeriscono un naturalismo maÂgico, oscuramente simbolico, riconducibile semmai all’ambizioso progetto di reperire misticamente lo spirito del mondo, contrassegnato comunque dallo ambiguo ricorrere di vaste zone tonali che a loro volta impongono al pezzo una dimensione musi cale perduta o ritrovata per disperazione. La toÂnalitĂ che in effetti contrassegna insistentemente Hymnen, è una struttura portante del loro clima armonico (poichĂ© il pezzo restituisce lo stesso conÂcetto di armonia) riconfermandosi perfino nella presenza ostentata di schemi ritmici strutturali aJ suo sistema. Ma, soprattutto, si qualifica davveÂro come il mezzo perduto e ritrovato per ridare alla musica la possibilitĂ linguistica di proseguiÂre senza fine un discorso comune, di comunicarlo e proporlo democraticamente alla comprensione di tutti. In realtĂ , come giĂ in Stravinski (8), l’ipotesi tonale recuperata mediante oggetti, figure, gesti, segni sottoposti con inflessibile determinazione alÂla logica reificante del comporre, reifica di per sè, e intanto, l’ipotesi linguistica che era stata dell’avanguardia, ovvero anche così si qualifica per quello che è, esattamente il contrario del linÂguaggio antidogmatico che si schiude al pluraliÂsmo dei linguaggi musicali; cioè si qualifica coÂme il momento definitivo della rinuncia ad altro linguaggio che non sia la ripetizione e il rimanegÂgiamento delle formule istituzionalizzate (quelle stesse dell’avanguardia, sottoposte alla parificaÂzione), private di senso se non di quello alienanÂte intrinseco alla loro burocratica istituzionalizzaÂzione. Vale a dire, fin d’ora la democrazia della comprensione generale comunica in particolare quello che poi è implicito nell’abilitĂ tecnica con cui si compie la manipolazione linguistica, ossia comunica ciò che viene abilmente mimato, appunÂto la manipolazione linguistica delle coscienze mediante la reificazione del linguaggio, l’alienazioÂne burocratica alle formule pubblicitarie (per esempio), quotidianamente operata dalla societĂ che media anche attraverso il linguaggio massiÂficato, le coercizioni della falsa democrazia. Non per nulla, del resto, la tonalitĂ , in Hymnen, non è solo il momento in cui il linguaggio esemplifiÂca al massimo il processo della propria reificaÂzione. La tonalità è anche l’elemento strutturale che rende possibile il proliferarsi ininterrotto delÂla composizione, il prodursi stesso della lunghezza. Questa, dunque, diviene il modo definitivo di coÂmunicare musicalmente il principio autoritario esercitato durante lo scorrere della musica dal linÂguaggio costantemente reificato, manipolato per alienare, con se stesso, l’autonomia di giudizio, sulla musica, in primis. Ossia la musica che si presenta eterogenea per poter elaborare al massiÂmo grado di tensione significativa la propria riÂduzione a cose fungibili e puramente strumentali, si dispone all’arbitrio della fantasia sovrana e della tecnica, quindi, che tutto può, così eserciÂtandosi come metafisica e metastoria della muÂsica, dovuta a una musica che afferma perentoÂriamente la dogmatica soluzione dei problemi muÂsicali, di tutti i problemi dunque, mediante la teÂcnica che consente alla fantasia di mistificare l’eterogeneitĂ : mediante, perciò, l’eterogeneitĂ stesÂsa, la mistica sintesi tecnologica dei problemi, la loro mistificazione fantastica. D’altra parte, la tonalitĂ che operando come struttura del pezzo dai materiali eterogenei conÂtribuisce alla germinazione continua di un procesÂso musicale che si riproduce via via promuovendo dai particolari, dai dettagli, tanto meglio autorizÂzerebbe il rimando a Mahler, salvo che in Mahler la tonalitĂ sopravvive a se stessa vivendo l’ultiÂmo stadio della sua dissoluzione, consentendo cioè la connessione dei dettagli o dei particolari giĂ estranei alla sua logica, in una continuitĂ di diÂscorso significante per questo suo vertiginoso deÂperimento logico, mentre in Stockhausen rivive a brandelli o in episodiche situazioni per ricostruire però la continuitĂ di un discorso musicale, per ridargli una logica socioculturalmente omogenea perchĂ© omogenea ideologicamente alla prassi raÂdicale dell’autoritarismo, quella insomma che si definisce nella lunghezza. La regressione, quindi, procede oltre, e giunge piuttosto a Wagner, esÂsendo singolarmente analoga la volontĂ di potenÂza della musica strutturalmente organizzata coi criteri costruttivi dell’infinito variare di un buÂrocratico schema. Ai poli estremi dell’etĂ impeÂrialistica, la musica subisce in sostanza la stesÂsa tentazione a rinnovarsi burocratizzando la proÂpria novitĂ nei procedimenti che l’autorizzino alla lunghezza con cui prevaricare sull’ascoltatoÂre in nome della Weltanschauung aristocratica e repressiva del potere, del volontarismo, e perciò in sostanza ciò che in Hymnen si costituisce ulteÂriormente è il senso burocratico dei rapporti soÂciali ai quali ideologicamente si collega, è la buÂrocrazia del rapporto ideologico autoritario domiÂnante nella societĂ manipolata e manipolatrice del tardocapitalismo. Ecco come la sconsacrazione di Hymnen si rovescia nella consacrazione delÂl’autoritarismo sociale intrinseco a quello musicaÂle, qualificandosi anzi, con l’utopia che smascheÂra l’involuzione, come momento dell’ideologia do minante. La musica affascinante, dalle cui spira non c’è scampo se non per chi rifiuti la mistiÂficazione dell’ascolto mistico che Stockhausen solÂlecita anzichĂ© sconsacrare, pretende l’obbedienza assoluta alle sue veritĂ , e il mondo distrutto, voÂtato alla morte per riscattarsi nei cieli, al quale dovremmo rassegnarci, non è che il contributo alÂla rassegnazione pretesa dalla societĂ autoritaÂria, fornito dalla musica che in tutti i sensi mima il meccanismo del sistema gerarchico, a dimensioÂne unica. D’altra parte, e per finire, la profonda tristezÂza, il senso della morte, che domina, come in Wagner non per nulla, in Stockhausen, sono il risvolto imprescindibile, il momento della coscienÂza artistica oggettiva, che riconduce la mistificaÂzione, l’ideologizzazione, alla sua veritĂ oggettiÂva, storica, sociale, ossia alla morte dell’uomo nella societĂ borghese, alla tristezza, dell’uomo, in essa. (1)                Non è a caso che dopo gli anni dei lavori atomistici, brevi, ridotti all’essenziale (Webern aveva insegnato, deÂcenni prima, anche qui), l’avanguardia attuale abbia riscoÂperto le grandi dimensioni, del resto implicite — quanto all’ala in cui rientra Stockhausen —, nel proprio rovesciaÂmento nell’alea e nell’informale, per quel che ciò signiÂficava come problematica dei rapporti indeterminati con il mondo, la vita. Cage, ora, insegnava anche così. U flusso musicale aperto, e protratto per rendere l’idea, eliminava i punti fermi, le conclusioni sempre rinviate da una diaÂlettica per cosi dire del casuale, del nulla, al limite. D’altra parte, non meno a caso, un Nono non fu mai sedotto dalia musica dell’istante, la cui epo-ca non era piĂą quella, corno vide subito, dell’avanguardia attuale, in quanto però fosse portata, secondo la possibilitĂ , oltre l’eversione, ponendosi come momento (musicale) del processo storico-rivoluzioÂnario. (2)                Recentemente, in « Rivista Musicale Italiana », n. 2, 1968, Stockhausen, intervistato da L. Pinzauti, ha ribadito con disprezzo per ogni altra ipotesi, le sue convinzioni. Ma l’irritazione con cui ha parlato, rivelava come la suÂbordinazione aU’ideologizzazione della tecnologia, in quanto attaccamento alle stesse fiducie neopositivistiche degli anni cinquanta, camuffasse altresì, in questo eccessivo ritardo teorico, lo smarrimento di fronte alte prassi umanizzante riaffermata dalla societĂ , dalla storia attuale. A essere celato, nella medesima intervista, era il riprodursi di quella problematica dell’angoscia che vertiginosamente traÂvolge, nonostante tutto, la musica di Stockhausen. Sotto ogni aspetto, dunque, i termini dei problemi sono sempre quelli dell’arte borghese nella sua lunga marcia attraÂverso l’etĂ della fine. (3)                La contestazione delle istituzioni è però negata dal tipo di pezzo musicale che strutturalmente le violenta ma per usarle prepotentemente in funzione del proprio intrinÂseco autoritarismo, non per negarle, e nemmeno per muÂtarne la funzione (sociale, culturale). (4)                Nietzsche osserva a un certo punto (Opere, voi. IV, tomo I, Milano, 1967, pag. 263), che dopo Wagner, a chi ancora voglia « proprio comporre, si può raccomandare una forma minima, qualcosa che potrei chiamare — con una espressione libera — l’epigramma musicale (…). I>a tutto ciò potrĂ forse sorgere ancora qualcosa di molto bello, come avvenne presso i Greci, che si gettarono sulla forma piĂą piccola, quando le grandi forme erano giĂ state esaurite :n precedenza ». Con straordinario acume, N. che aveva giĂ colto il significato sociale della lunghezza wagneÂriana (« organizzatore di masse ». disse di Wagner, della sua musica, della sua forma), prevedeva lo sbocco delÂl’unica avanguardia possibile, allora, dopo Wagner, quella che sarebbe stata infatti l’avanguardia musicale viennese, venuta appunto dopo Wagner piĂą che da esso discesa. Dal punto di vista della musica borghese, giĂ contempoÂraneamente a Webern (soprattutto), si sarebbe potuto caÂpovolgere l’aforisma nietzscheano e non per qualche legge degli opposti che si succedono nel decorrere storico, bensì per la necessitĂ regressiva intrinseca alla prigionia della avanguardia musicale borghese in una problematica delÂl’eversione (linguistica, formale, istituzionale), socialmente irrisoria e irrisolvibile. (5)                Naturalmente il processo si pone in Mahler ben diversamente che in Wagner. In Wagner, nella sua muÂsica, nel modo come si costruisce, c’è l’« organizzatore di masse », la vocazione reazionaria, linguistica, del discorso che costruisce soprattutto la sua potenza seduttiva, massificatrice del rapporto di seduzione musicalmente istituito. Nella musica di Mahler, c’è semmai la tragedia dell’impotenza autoritaria che si esercita giĂ per autonegarsi. (6)                Stockhausen chiama regioni le quattro grandi parti del pezzo. « Ogni regione — dice inoltre — ha determinati inni come centri, ai quali fanno riferimento molte altre nazioni, con le loro caratteristiche teste » (programma del XXXI Festival internazionale di musica contemporanea, Venezia 1968). (7)                Si può dire che Stockhausen subisce passivamente la determinazione ideologica della storia borghese nella epoca imperialistica che ne ha contraddetto gli originari progetti rivoluzionari, di liberazione nazionale e di conciÂliazione internazionale. Del resto è anche evidente, nel montaggio, il rifiuto di considerare l’esistenza e il senso dei movimenti di liberazione nazionale in atto, il loro connettersi con la lotta antimperialista, di classe, per cui lo stesso internazionalismo proletario viene coinvolto nel fallimento di quello borghese. Il sottostare subalterno di Stockhausen ai luoghi comuni del pensiero politico domiÂnante. autorizza queste osservazioni su ciò che egli riÂgetta ed è estraneo al suo ragionare di politica e di storia. (8)                Nella sostanza, Stockhausen si riconnette a StraÂvinski ben piĂą di quanto appaia in superficie (e la sua ammirazione per il musicista russo è tutt’altro che caÂsuale). Si riconnette la sua poetica, e la sua musica in cui l’artifìcio e il ritualismo giocano come elementi deciÂsivi. Ma il tema andrebbe approfondito. Letto 5046 volte.

Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. |
![]() |
|||||||||