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PITTURA: ARTE: I MAESTRI: Kandinsky. Troppi cavalli per un solo cavaliere6 Febbraio 2016
di Cesare Brandi WASSILY KANDINSKY FRANZ MARC Con la valanga di traduzioni, magaÂri dal francese, che ogni anno si riverÂsa sul mercato librario italiano, poteÂva sembrare impossibile che nessuno avesse pensato finora a ripresentare sia pure a piĂą di cinquant’anni di diÂstanza, il Cavaliere azzurro di Marc e Kandinsky, un’opera divenuta quasi mitica e sicuramente introvabile, nĂ© solo in Italia. Ebbene ci ha pensato l’editore De Donato a presentare il faÂvoloso Cavaliere, riprendendo l’edizioÂne che, nel 1965, ne era stata presentaÂta in Germania. E non ha fatto male a far tradurre anche le note apologetiÂche che, a questa rinnovata edizione tedesca, erano state aggiunte — sepÂpure non sarebbe stato superfluo preÂmettere un « ridimensionamento » riÂspetto al valore storico che a questo documento, senza alcun dubbio imporÂtante, si tende a fare assumere ora, quasi che « tutto » sia nato di lì. CerÂto, lo ripetiamo, sull’importanza del documento non vi può esser dubbio: ma fu un nuovo « lancio », o semplice- mente un quadrivio in cui vennero a incontrarsi degli spiriti eletti, ciascuÂno continuando poi per la sua strada? A parte l’incrocio delle strade, infatÂti, Kandinsky andò per la sua, Schönberg per un’altra: e praticamente non si ritrovarono mai. In quanto al nuoÂvo lancio di uno spiritualismo acceso, tinto di misticismo, che era il filone proprio di Kandinsky, e che, nel CavaÂliere azzurro, addirittura assume un tono messianico, con l’annuncio di una nuova era dello spirito, che avrebbe sotterrato il materialismo del XIX secolo, non si può dire che assiÂstesse Kandinsky e Marc il dono della profezia. Nella seconda ristampa, quasi identica, a parte le due nuove prefazioni e qualche variante nel maÂteriale illustrativo, ristampa che avveÂniva nel 1914, non c’è di certo la preÂscienza dell’abisso che, pochi momenti dopo, si doveva aprire con la prima guerra mondiale. Ora, a rileggere quelle pagine, che per di piĂą venivano scritte nella fataÂle Germania, il tono di alta spirituaÂlitĂ e di annuncio ai pastori, con cui questa nuova era, che stava per nasceÂre, veniva bandita, assume veramente un aspetto di tragico grottesco. Un mondo era lì per finire, e quello che doveva sorgere dai rottami del primo, dal sangue di una guerra lunga e cruentissima, non era certo il mondo dello spirito, con la lettera maiuscola come lo scriveva Kandinsky. Ma legÂgete l’indice del Cavaliere azzurro: a parte alcune comparse, la maggioranÂza dei nomi sono famosi o comunque conosciutissimi: Schönberg, HartÂmann, Delauney, Skryabin, Berg, Webern, e i pittori: Macke, Kubin, CĂ©zanne, il doganiere, Klee, Matisse… Come negare un valore determinante, non fosse che alla rosa dei nomi? SennonchĂ© erano tutti nomi giĂ noti, che dal Cavaliere azzurro non presero nulla. Non c’è che la grande personalitĂ di Kandinsky, che, nei saggi pubblicati nel Cavaliere azzurro, in un certo senso bruciò tutte le sue scorie e si espose con i suoi ideali e le sue piaghe, a nudo. Perciò, a collocare storicamente l’opera di Kandinsky nel frangente che gli spettò, i suoi scritti e le sue scelte di illustrazioni sono anÂcor piĂą significativi dello stesso trattaÂto della spiritualitĂ nell’arte, uscito appena un anno prima, nel 1911. Si dirĂ : perchĂ© parlare solo di KandinÂsky e non anche di Marc? Il Cavaliere azzurro appartiene ad ambedue, fin nel titolo bislacco — ma bislacco fino a un certo punto, anzi estremamente indicativo, proprio perchĂ© Kandinsky lo contrabbandò come nato per caso: l’azzurro piaceva all’uno o all’altro, Kandinsky amava i cavalieri, Marc i cavalli. Troppo facile, anche se, in superficie, l’aneddoto potĂ© essere vero. NĂ© basta dire, come si fa nel commenÂto della rinnovata edizione tedesca, che l’azzurro è stato sempre un simÂbolo del cielo, quindi carico di connoÂtazioni mistiche e spirituali, che il CaÂvaliere è anch’esso un simbolo di noÂbiltĂ e di disinteresse, nella cultura del mondo occidentale. Il che è vero: ma non bisogna ferÂmarsi lì: proprio il cavaliere (e col caÂvallo che si impenna) arriva, diremÂmo, dalla Selva Nera, e come non era un caso, che, proprio a Berlino, esiÂstesse in quel tempo lo Sturm, perchĂ© non vedere anche nel Cavaliere azzurÂro una lontana propaggine dello Sturm und drang? Come movimento tardo romantico, il Cavaliere azzurro, va allora benissimo e ci spiega in che cosa differisse dall’Espressionismo, da cui pure nasceva, e quasi con gli stesÂsi nomi, dato che ci sono presenti quaÂsi tutti, almeno nelle illustrazioni, e Pechstein, e Nolde, e Javlensky. Perfino nella reazione — ormai sfaÂsata — all’impressionismo non c’era forse la stessa posizione che nell’Espressionismo? In realtĂ , come moviÂmento tardo-romantico sorto in un Paese che era stato la culla del RoÂmanticismo ma l’aveva perso per straÂda, e ora appariva culturalmente atÂtardato, ha il suo pendant nell’altro movimento, anch’esso tardo-romantico di un Paese con cultura attardata, il Futurismo italiano, nello stesso temÂpo, a distanza di un anno, e a dir vero con ripercussioni europee assai piĂą vaste del Cavaliere azzurro. NĂ© forse è un caso se il Futurismo appena ciÂtato, nel Cavaliere azzurro, e con tanti russi e tante stucchevoli stampe popoÂlari russe, proprio mancano i veri rapÂpresentanti dell’avanguardia russa, tinta di futurismo: da Malevic a TaÂttili. Almeno, nell’edizione del ’14, poÂtevano essere aggiunti. Ma si spiega benissimo, con l’acceso tono mistico che caratterizza il Cavaliere azzurro, la sua generosa impennata che poteva rovesciare anche il Cavaliere. Abbiamo detto che gli scritti di Kandinsky sono determinanti: ma per lui, per l’indirizzo che doveva prendeÂre la sua pittura e quindi il ramo astrattista. Il percorso tortuoso che segue Kandinsky per rifiutare il conÂtenuto referenziale in pittura, è davÂvero tipico. Kandinsky pone un’antiteÂsi: realismo-astrattismo, ma non vuole abolire l’un polo nell’altro. Anzi pone un’eguaglianza: Realismo=Astrazione. Come è possibile, questa eguaglianza, se non quale boutade o quale paradosÂso a buon mercato? E’ possibile perÂchĂ©, dice Kandinsky « la diversitĂ massima sul piano esteriore diviene massima eguaglianza su quello inteÂriore ». Nella esasperata rivalutazione dell’» interiorità » stava dunque !a svalutazione dell’apparente « referenÂza » dell’immagine. Perciò Kandinsky allineava Rousseau e stampe popolari accanto ai saggi del cubismo analitico di Picasso. Ma questa accentuazione dell’inteÂrioritĂ a scapito della referenza avveÂniva allora con la svalutazione della forma, che è un tramite e nulla piĂą, « e può avere un effetto piacevole o spiacevole, apparire bella o brutta, arÂmonica ò disarmonica, elegante o imÂpacciata, fine o grossolana e così via, ma non deve essere nĂ© accettata pelÂle qualitĂ ritenute positive nĂ© respinÂta per le qualitĂ ritenute negative ». Donde la condanna per la critica volta solo a riscontrare « èrrori ». « Ci si deve porre di fronte all’opera in modo da permettere alla forma, e, attraverÂso la forma, al contenuto (Spirito, risoÂnanza interiore) di agire sull’anima. Altrimenti il relativo viene innalzato ad assoluto ». Coerentemente a questi enunciati di « poetica », che, appunto come poetica non si discutono, c’è la svalutazione del cubismo e l’incredibiÂle esaltazione dei poveri imparaticci pittorici di Schönberg. Sembra di soÂgnare di sentire simili sentenze, partiÂcolarmente interessante osservare la semplicitĂ e la sicurezza con cui il compositore Arnold Schönberg si serve dei mezzi pittorici. A Schönberg inÂteressa di regola soltanto la risonanza interiore; egli trascura ogni abbelliÂmento, ogni raffinatezza, ma nelle sue mani la forma « piĂą povera diventa la piĂą ricca ». E proprio cita l’autoritratÂto, quell’omino impacciato visto dì spalle, che naturalmente ci tocca perÂchĂ© l’ha fatto Schönberg e perchĂ© così si sentiva Schönberg. Dunque come elemento autobiografico, non certo pitÂtorico. Traducendo ora gli enunciati di Kandinsky in un diverso linguaggio, risulta chiaro che l’artista poneva la risonanza interiore come una struttuÂra a cui la forma doveva fare da traÂmite: ossia una struttura che doveva ogni volta inventarsi il codice. E tale fu per lui, soprattutto in quei primisÂsimi anni pittore altissimo e rivoluzioÂnario. Ma anzichĂ© svalutare la forma, le sue arditissime composizioni, invenÂtavano un nuovo codice, e nella sua novitĂ , anche rispetto al cubismo, doÂveva essere valutato. La portata di codeste prime composizioni, non è allora una pretesa, di portarla dritto fino a Pollock e praticamente all’informale. L’epoca dello Spirito non è nata, il Materialismo del XIX ha vinto in pieÂno, ma in quel che è sopravvissuto della pittura l’unghiata di Kandinsky è durata almeno cinquant’anni. In quanto a Marc, seppure anch’eÂgli, nella agiografia attuale, sia valutatissimo, è un modesto pittore, legato alle estemporaneitĂ espressioniste e a quegli infelici paralleli con la musica che sono stati la palla al piede del moÂvimento. Fra dissonanza cromatica e dissonanza musicale non c’è di comuÂne che le parole. Ma perfino il CavaÂliere azzurro nasceva con una epigraÂfe di Goethe, che sembra una sentenÂza profondissima e rispecchia solo una arbitraria analogia. « In pittura », disse Goethe nel 1807 « manca ormai dĂ tempo la nozione del basso contiÂnuo, manca una teoria definitiva e acÂcettata, come esiste in musica ». Il basso continuo è solo una caratteristiÂca di un certo codice musicale come si è venuto organizzando nella musica occidentale, e non è affatto una caratÂteristica strutturale della musica, nĂ© rapportabile a qualcosa di analogo, per nessun periodo, nella pittura o nella poesia. Ma naturalmente il basso continuo diveniva invece, per KandinÂsky e Marc, la risonanza interiore. Tuttavia per leggere, nel Cavaliere azzurro, uno scritto che non sia o di esclusiva poetica, o meramente testiÂmoniale (come sono i saggi di R. Allard, di Busse, di BurljĂşk), occorre riÂfarsi a Schönberg: il rapporto con il testo. Con quale chiarezza e perspiÂcuità è impostato il rapporto fra paroÂle e musica: e che testimonianza preziosa, rispetto all’audizione e comÂprensione dei Lieder di Schubert. « Un paio di anni fa provai un profonÂdo senso di vergogna nello scoprire, a proposito di certo Lieder di Schubert (a me per altro ben noto), di non avere la piĂą pallida idea della poesia che ne è indiscutibilmente all’origine ». E naturalmente la conclusione non sbanÂda affatto: « Mi risultò allora evidente che l’opera d’arte, come ogni organiÂsmo compiuto, ha una struttura così omogenea da disvelare la sua piĂą vera, intima essenza in ogni piccola cosa. Se noi pungiamo un punto qualÂsiasi del corpo umano, ne esce sempre la stessa sostanza; sempre sangue. Se ascoltiamo un verso di una poesia o un tempo di un pezzo musicale, siamo in grado di capire tutta la composizioÂne… dunque io avevo avuto una perÂfetta intuizione dei Lieder di SchuÂbert (compresi i loro testi poetici) semplicemente attraverso la musiÂca… ». Crediamo proprio di finir bene, con questa asserzione di strutturaliÂsmo ante litteram, da parte del musiÂcista piĂą pregnante del secolo. Letto 1370 volte.

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