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PITTURA: I MAESTRI: Carracci: Classicismo e natura20 Gennaio 2009
di Patrick J. Cooney “Scriver la storia de’ Caracci e de’ lor seguaci è quasi scriÂver la storia pittorica di tutta Italia da due secoli in qua” annoÂta Luigi Lanzi nella sua Storia pittorica dell’Italia, rendendo esplicita testimonianza della considerazione e dell’apprezzamenÂto di cui, per due secoli, avevano goduto i tre cugini, e dell’inÂflusso enorme esercitato sulle generazioni successive dalla loro opera pittorica. È comunque Annibale a primeggiare sui conÂgiunti e sui contemporanei, collocandosi tra i maggiori artisti di ogni tempo. G. P. Bellori, nelle Vite de’ pittori, registrò acutaÂmente l’importanza della sua posizione artistica e della sua misÂsione storica, scrivendo: “Dirò di più quello, che parrà increÂdibile a racontarsi: né dentro, né fuori d’Italia, si ritrovava PitÂtore alcuno […] Così quando la pittura volgevasi al suo fine, si rivolsero gli astri più benigni verso l’Italia, e piacque a Dio, che nella Città di Bologna, di scienze maestra, e di studi, sorgesse un elevatissimo ingegno; e che con esso risorgesse l’arte caduta, e quasi estinta. Fu questi Annibale Carracci […]”. Questa opinione, ripresa dai grandi cronisti d’arte per tutto il Seicento e il Settecento, esalta in Annibale l’artista che riporÂtò al tradizionale livello di qualità la pittura italiana e l’erede della grande tradizione di realismo classicheggiante che aveva dato Giotto, Masaccio e Raffaello. Insieme al fratello Agostino (1557-1602) e al cugino LudoÂvico (1555-1619) Annibale Carracci diede vita a un’arte che si allontanava nettamente dalla complicazione, dalla sofisticheria e dalla artificialità che avevano caratterizzato le tele degli artiÂsti del tardo manierismo operanti a Bologna, come il Samacchini, il Sabatini, il Passarotti ed Ercole Procaccini. Prendendo piuttosto a modello maestri dell’Italia settentrionale, come Correggio, Veronese e Tiziano, i Carracci crearono una formula arÂtistica che poneva i. propri principi nella chiarezza del linguagÂgio pittorico e in una ispirazione concreta, fondata su un forte sentimento della natura e sull’accurato studio di essa. La fondamentale trasformazione compiuta da Annibale CarÂracci trae origine dalla sua intensa e costante attenzione per il mondo delle realtà tangibili. Annibale affondava lo sguardo nel mondo che lo circondava alla ricerca dell’ispirazione: merÂcanti, bambini e contadini erano per lui degni di essere tradotti in pittura quanto gli eroi antichi, i santi o i nobili. Tuttavia, quanto egli osservava veniva assoggettato al suo superiore senso dell’ordine e alla sua sensibilità volumetrica; anche le opere che ci attraggono per il loro carattere di tranÂche de vie apparentemente spontanea, si presentano come comÂposizioni ordinate e preordinate; è evidente che Annibale CarÂracci unisce una raffigurazione diretta e penetrante del mondo a una presentazione strutturale raffinata. Il nuovo stile pittorico che i Caracci offrivano ai contemÂporanei non venne subito accolto positivamente. In un’epoca in cui si apprezzava nell’arte il disegno ornamentale più intriÂcato, l’abilità e l’elaboratezza dell’esecuzione, i contenuti erudiÂti, questa forma d’arte diretta e priva di pretese sembrava mancare degli elementi essenziali che costituivano la ‘nobiltà ’ dell’arte della pittura. I biografi tramandano che le prime opeÂre dei tre cugini furono accolte con disfavore e aspramente criÂticate. Si dice che di fronte agli affreschi di Annibale in palazÂzo Fava un artista come Bartolomeo Cesi osservò che “quel ragazzaccio di Annibale avea tirato giù con quel suo moÂdo impaziente e poco pulito; onde quelle storie in tal guisa non ben terminate e finite tenessero più dello schizzo e forma di primo sbozzo, che di veri quadri aggiustati e compiti […]”. I Carracci tuttavia non si sentirono scoraggiati da queste ramÂpogne, e proseguirono nella direzione intrapresa; anzi questa pressione sociale in senso negativo poté servire a quei giovani pittori come stimolo per consolidare la loro scelta artistica. Con la fondazione dell’Accademia degli Incamminati (da BelÂlori detta pure “delli Desiderosi per lo desiderio ch’era in tutti d’imparare”), nel 1582, si creò finalmente a Bologna un punto di incontro, un cenacolo per la formulazione e l’approfondiÂmento delle nuove teorie artistiche. L’atmosfera, la formula dell’accademia erano quelle dell’aiuto reciproco e della mutua collaborazione. Tra i Carracci non esistevano rivalità ; li vediaÂmo dipingere ciascuno i ritratti degli altri, criticare a vicenda le proprie opere, offrirsi gli uni agli altri come modelli; MalÂvasia riferisce che Ludovico, nudo fino alla cintola, posò come modello per la Venere di Annibale ora agli Uffizi, menÂtre Bellori scrive che Agostino prestò la propria effigie alla fiÂgura di Sileno dipinta da Annibale in palazzo Farnese. Spesso i tre Carracci collaborarono nella esecuzione di commissioni, scambiandosi, ad esempio, idee e aiuto durante la decorazione dei palazzi bolognesi Fava, Magnani e Sampieri. Così certi stuÂdi di composizione, ‘inventati’ da Ludovico, vennero realizzati da Annibale, mentre in alcuni casi a un medesimo riquadro poÂsero mano contemporaneamente ambedue gli artisti. I giovani pittori dell'”Accademia delli desiderosi” adottaroÂno il motto CONTENTIONE PERFECTUS, riflettendovi la serietà e la determinazione con cui affrontavano gli studi. A differenza di altre accademie artistiche di quest’epoca, l’accademia dei Carracci rifiutava il normale ed elaborato programma di teorie estetiche e non prescriveva esempi e formule. Al contrario, ciascuÂno partecipava a uno sforzo comune per trovare nuovi modi di dipingere il mondo circostante. E gli strumenti della scoÂperta consistevano nel disegnare incessantemente tutto ciò che capitava loro sotto gli occhi; così i ‘desiderosi’ studiavano dal nudo, dagli animali, da stampe e calchi, senza restrizioni o divieti. Lucio Faberio, nel suo elogio di Agostino (1603), così caratterizza l’attività dell’accademia: “Quivi s’attendeva […] con mirabile frequenza al disegnar persone vive, ignude in tutto, o in parte, armi, animali, frutti, e insomma ogni cosa creata”. Altra caratteristica essenziale dell’istituzione era lo studio dell’anatomia. Al celebre anatomista dottor Lanzoni venÂne chiesto di dare lezioni e dimostrazioni di dissezione e seconÂdo Faberio, “[…] tutti facevano a gara nel disegnare l’ossatura dei corpi, nell’imparar i nomi, i nervi, le vene e l’altre parti facendosi persin spesse volte Anatomia”. Queste esperienze pratiche erano affiancate da studi teorici e scientifici. Le ricerche di Bodmer hanno dimostrato come le attività intellettuali dell’accademia fossero ispirate da AgoÂstino, che in effetti viene esaltato dagli scrittori contemporanei per le sue vaste conoscenze nel campo della filosofia, della matematica, della geometria e della prospettiva. È probabile che tra i fondatori del sodalizio Annibale sia stato il meno attiÂvo nel partecipare alle dotte disquisizioni, e può darsi che egli si sentisse annoiato dalle interminabili discussioni intavolate dal fratello maggiore: per lui l’interesse principale era l’arte. Si tramanda che alcuni anni dopo, a Roma, tediato dall’insopÂportabile arroganza intellettuale di Agostino e dal suo mettersi in cattedra in materia d’arte, Annibale rivolse al fratello queÂsto rimprovero: “Noialtri dipentori riabbiamo da parlar con le mani”. Ma pur non mostrando interesse per le attività teoriche. fu Annibale a dare all’accademia il suo deciso carattere artistico, aprendo nuove vie e conquistando nuovi tenitori alÂl’arte del suo tempo con la creazione della caricatura e col ripensamento della pittura di genere e di paesaggio. Come si è visto i Carracci e i loro collaboratori disegnavano instancabilmente, quasi senza interruzione, “mangiavano e nelÂlo stesso tempo disegnavano: il pane in una mano, nell’altro la matite o il carbone” (Malvasia). Alla pratica dello schizzo Annibale era stato avviato nella bottega di Bartolomeo Passarotti, ma egli seppe trasformare questa attività spontanea e priva di relazione con uno specifico progetto pittorico in un mezzo per esercitare la mano e l’occhio. Mediante il disegno Annibale metteva alla prova le possibilità dell’osservazione e della rappresentazione naturalistica: il suo approccio diretto ai soggetti lo mise in grado di catturare le azioni e le situazioni istantanee che vedeva intorno a sé. Sia che schizzasse un suo giovane compagno d’arte in piedi vestito di una tunica lunga fino alle ginocchia, o una scena di intimità domestica, con una madre e un bambino davanti al focolare, egli sapeva rendere con una tecnica compendiaria, essenziale — che raramente era destinata alla rielaborazione — la spontaneità della prima imÂpressione. Bellori conferma la straordinaria abilità di Annibale nel disegnare rapidamente un ritratto, ricordando come, un adorno, derubato insieme al padre da alcuni ladri di strada, egli fu in grado di fornire un identikit così realistico ed esatto dei malfattori che in base ad esso questi poterono essere arÂrestati. La medesima acuta osservazione del reale riscontrabile in questi disegni trova conferma e corrispondenza nei primi diÂpinti di genere. Nel Mangiafagioli della Galleria Colonna, Annibale si soffermò su un banale soggetto quotidiano — un popolano che consuma il suo pasto — e ne fece un’opera ricca di dinamicità e di vita. Fu così il primo ad accordare alla semplice esistenza di un contadino la stessa simpatia e la stessa attenzione che in precedenza erano state riservate alle classi aristocratiche. Anche se le varie versioni fanno pensare che il tema possa avere un significato simbolico, peraltro non ancora individuato, l’opera non richiede per essere apprezzata una particolare ‘lettura’ iconografica, ma è notevole per l’immediaÂtezza con cui il soggetto ci si presenta; la scena vi è colta con una franca obiettività e senza elucubrazioni intellettualistiche, ciascun oggetto è trattato con estrema chiarezza e il contadiÂno spettinato e malvestito non è né esagerato né ironizzato né romanticamente esaltato. Il capolavoro di Annibale nella pittura di genere resta coÂmunque la Bottega del macellaio di Oxford. Un anedÂdoto settecentesco, suggestivo ma certo apocrifo, sostiene che i macellai raffigurati sarebbero Annibale e i suoi familiari; altrettanto infondata è la tesi che il dipinto sia stato inteso come un programma allegorico della riforma artistica proÂmossa dai Carracci. Del resto, raffigurazioni di botteghe di macellaio non mancavano di precedenti all’inizio del decennio 1580-90, quando Annibale iniziò questa tela. Dovevano anzi essergli familiari gli analoghi temi di B. Passarotti e indubbiamente gli era nota la tradizione setÂtentrionale della pittura di genere esemplificata nelle opere di Pieter Aertsen e di Joachim Beuckelaer, come pure il filone diffuso dai Campi a Cremona. Ma è il Passarotti in particoÂlare a costituire il riferimento di Annibale, e con lui quest’ulÂtimo è più profondamente in debito, quantunque vi siano noÂtevoli differenze nella maniera con cui l’artista più giovane conÂcepì e sviluppò il tema. Annibale infatti non fece mai ricorso alla distorsione, alla esagerazione umoristica o alle punte satiÂriche che sempre appaiono nelle analoghe opere del Passarotti, ma rappresentò l’uomo della strada così come se lo trovava davanti: a differenza di quanto avveniva nelle opere del PasÂsarotti, i suoi macellai non si ‘sporgono’ fuori dal dipinto, non ammiccano all’osservatore con aria di gaglioffa, un po’ triviale malizia plebea: essi sono semplicemente al lavoro, pesano la carne, ne affettano sugose bistecche, servono un’anziana cliente. Anche nella zona sinistra, dove l’influenza del Passarotti è più evidente, l’umorismo che sottolinea la figura dell’alabardiere non deriva da una trovata intellettuale, ma piuttosto dall’osÂservazione diretta, sorridente di un gesto di ridicola pompa. Annibale raffigurò con tratti chiaramente identificabili diversi personaggi delle varie classi sociali senza farne un commenÂto compiaciuto. Le sue figure illustravano in maniera forse spiritosa ma pur sempre e in primo luogo documentaria, un ampio ventaglio di attività . Nello stesso tempo queste figure costituiscono il pretesto per uno sfoggio di sensibilità naturaliÂstica: il dipinto colpisce infatti per la pennellata larga e densa di colore, applicata a colpi vivaci ed energici, tecnica che geneÂra di per sé una resa viva e naturalistica delle cose. Creando questo capolavoro, Annibale aveva inoltre unito al trattamento spontaneo del colore e alla osservazione natuÂralistica della realtà una struttura compositiva accuratamente studiata. John Rupert Martin ha dimostrato come la composiÂzione e quasi tutte le figure siano basate su fonti del RinasciÂmento maturo quali il Sacrificio di Noè di Michelangelo nella Cappella Sistina e l’affresco di Raffaello dello stesso tema nelle Logge Vaticane, un’opera che doveva essere nota ad Annibale attraverso l’incisione di Marco Dente. Egli tuttavia nel rifarsi a questi modelli non si limitò a copiare alla lettera: che anzi corresse la composizione in rapporto al nuovo ruolo delle figure e alle differenze di luce derivanti dalla nuova collocazione. Durante questi primi anni di sperimentazione vivace, libera, disinibita, Annibale diede anche avvio e impulso all’arte della caricatura, una delle innovazioni di maggiore rilievo sviÂluppate dall’accademia carraccesca. I ‘ritrattini carichi’ erano piccole effigi umoristiche che coglievano i tratti essenziali di una fisionomia, distorcendoli ed esagerandoli con scherzosa ironia e con una libertà che poté realizzarsi solo in un momento io cui l’arte veniva praticata come una disciplina interpretaÂtiva del reale più che come una tecnica intesa alla sua riproÂduzione meccanica. Le origini dell’arte della caricatura si ritrovano in una quantità di pratiche e di attività consuete ai Carracci. Una base importante era fornita dai disegni di genere e dagli schizÂzi estemporanei in cui si combinano la caratterizzazione e la economia di mezzi descrittivi. Portati alle loro estreme conseÂguenze, queste condussero a tentativi di individuare il masÂsimo di semplificazione e di schematizzazione compatibile con la possibilità di riconoscere il soggetto. Agostino portò il suo contributo a questa evoluzione con i propri esperimenti analitici per individuare elementi grafici nella fisionomia umaÂna. Parti del corpo isolate e spesso esagerate potevano esÂsere riunite con incongrue giustapposizioni, dando luogo coÂsì a risultati umoristici. Un altro elemento essenziale per la evoluzione della caricatura è fornito dai giochi pittorici che si svolgevano nello studio dei Carracci. Oggetti o idee veÂnivano rappresentati da figure sostitutive dei dati visivi. Già Passarotti si era divertito con indovinelli di tal genere, come quello consistente nel firmare i propri dipinti con una minuÂscola figura di passero allusiva al suo nome; ma con i CarracÂci questi ‘divinarelli pittorici’ divennero più elaborati e sottili e i membri dell’accademia dovettero fare allegramente a gara nell’inventarne e risolverne di nuovi; essi anzi divennero così popolari che settant’anni dopo Malvasia ne riprodusse quattro, con la relativa soluzione, nelle sue Vite dei Carracci. Questi giochi ebbero una importanza fondamentale nello sviluppo della caricatura, in quanto esplorarono i limiti e le possibilità di una suggestione visiva che richiedeva allo spettaÂtore di decifrare un nuovo tipo di immagine per ricavarne una informazione inattesa. L’insistente richiamo all’esperienza visiva, nell’arte di AnÂnibale, costituiva evidentemente la base del suo ripensamenÂto e della sua radicale riformulazione della pittura di paesaggio. Agli inizi della carriera il suo interesse nella resa della natura può essere osservato in dipinti di carattere religioso come il Battesimo in San Gregorio a Bologna, dove la riva del fiume è resa pittoricamente con cura affettuosa. Molti dei suoi primi paesaggi (dipinti o disegnati) possono essere letti come estensione dei suoi studi di genere. Come i soggetti di genere il paesaggio forniva ad Annibale materiale per il suo insaziabile desiderio di catturare il dinamismo della vita che si svolgeva intorno a lui. Il Malvasia riferisce che quando i Carracci erano in viaggio o in villeggiatura non si lasciavano sfuggire l’occasione di disegnare “[…] colli, campagne, laghi, fiuÂmi, e quanto di bello e di notabile s’appresentava alla lor vista”. Ci sono pervenuti schizzi di alberi e ceppi isolati, scene di vita e di svaghi campestri, vedute panoramiche di pianure e colline. Grazie all’esercizio di questo tipo di disegno Annibale giunse alla sua limpida e naturalistica tecnica di notazione delle osservazioni estemporanee. Con il maturare degli anni, i modi di Annibale nel dipingere il paesaggio si fecero sempre più sciolti e naturali. Benché il paesaggio rivestisse un interesÂse alquanto periferico nel complesso della sua opera, i suoi schizzi riguardanti la campagna rivelano un’attiva indagine dei vari aspetti di essa. Eliminò i concetti ornamentali di cui i maÂnieristi si erano avvalsi per coordinare ciclo, vegetazione e terÂreno in un unico insieme decorativo, e riscoprì la natura nelle forme originali da cui le convenzioni manieristiche erano state dedotte. Nondimeno, all’occasione, Annibale osservò i paesaggi dei maestri che l’avevano preceduto, e ne trasse profitto. Coerentemente con la tradizione paesaggistica allora preÂminente, diffusa da artisti dell’Europa settentrionale come Paolo Fiammingo, Annibale nelle sue prime opere usò la naÂtura come scenario o fondale per episodi di svaghi bucolici, coppie festose, musicisti, feste sull’acqua o figure di cacciatori e pescatori. Ma diversamente dal paesaggio nordico, la cui atmosfera è artificiale, quello di Annibale resta semplice e comprensibile. Analogamente, Annibale sviluppò il suo stile paesaggistico a contatto delle tradizioni dell’Italia settentrionale, come è stato sottolineato a proposito della Visione di sant’Eustachio, derivante da due incisioni di Girolamo Muziano, artista breÂsciano le cui prime opere si riallacciano alla pittura veneziana. Annibale tuttavia modificò i suoi modelli esasperando le conÂnotazioni drammatiche del paesaggio. Tutta la sua concezione della natura si fonda sul principio che esiste una concordanza poetica tra il paesaggio, l’uomo e gli eventi. La rappresentaÂzione di questa fondamentale consonanza tra lo scenario, i personaggi che lo popolano e la vicenda, è il fondamento dei più grandi risultati raggiunti da Annibale in tema di paesaggio. La riforma stilistica che Annibale attuò in pittura e che trovò le sue basi nella semplificazione formale e nel naturalismo si rivelò straordinariamente funzionale alle neÂcessità e alle esigenze artistiche nate dalla Controriforma. Applicando le direttive del Concilio di Trento, la Chiesa auÂspicava un’arte che prendesse la forma di strumento propaÂgandistico e didattico atto a diffondere e a rafforzare la feÂde. I sostenitori dei principi informatori della Controriforma non nascondevano il loro favore per quelle pale d’altare e quei dipinti devozionali che risultavano chiari, semplici e intelligiÂbili alla folla dei fedeli. Le scene raffigurate dovevano pertanto sottostare a interpretazioni realistiche e dottrinarie e le opere fungere, a livello emotivo, da stimolo per una più viva religioÂsità , esigenze queste che non potevano certo essere soddisfatte dalle invenzioni complesse, sofisticate, intellettualistiche dei manieristi emiliani e centro-italiani. Gilio da Fabriano, nel suo Dialogo degli errori de’ pittori circa l’istoria (1564) lamentava che non si usasse più dipingere quadri di sincero contenuto deÂvozionale sostenendo che l’arte del suo tempo era così involuta dal punto di vista iconografico che per interpretarla occorreva “una sfinge”. Analogamente, Gabriele Paleotti, arcivescovo di Bologna ai tempi di Annibale Carracci, scriveva nel suo DiÂscorso intorno alle imagini sacre e profane (1582) che le conÂdizioni dell’arte cristiana a Bologna erano deplorevoli. Giusto un anno prima della Crocifissione di San Nicolò, prima pala d’altare di Annibale, il Paleotti affermava: “[…] Ogni giorÂno si veggono in varii luoghi, e massimamente nelle chieÂse, pitture così oscure et ambigue, ch’ove doveriano, illumiÂnando l’intelletto, eccitare insieme la divozione e pungere il cuore, elle con la loro oscurità confondono per modo la menÂte, che la distraeno in mille parti e la tengono occupata in disputare tra sé stessa quale sia quella figura, non senza perÂdita della divozione”. La Crocifissione e le pale d’altare diÂpinte da Annibale a Bologna e nel resto dell’Emilia dovettero certo riscuotere l’approvazione del vescovo Paleotti, giacché i loro caratteri linguistici e iconografici sembrano essere la rispoÂsta più calzante alle sue lamentele. Nella Pietà e santi di Parma, nell’Assunzione della Vergine di Bologna o nell’Elemosina di san Rocco di Dresda il Carracci pone di fronte ai fedeli un mondo concreto, tangibile, in cui i fatti biblici sembrano respirare di vita reale. I personaggi delle viÂcende sacre sono raffigurati in un ambiente del tutto plausiÂbile, sicché, pur conscio della monumentalità e della dignità delle sante figure, l’osservatore riceve conferma della realtà della loro esistenza dalla naturalezza e dalla semplicità con cui gli vengono presentate. A modello per tali santi Annibale prese uomini comuni quali gli accadeva di incontrare quotidianaÂmente per le vie di Bologna, e la familiarità con essi ci incoragÂgia a emulare il loro esempio, persuadendoci a unirci a loro nella profondità di un’esperienza religiosa comune. Il temperamento artistico di Annibale è dunque in sintoÂnia con lo spirito religioso della sua epoca, ma ciò non signiÂfica comunque che la sua arte sia nata per concretare a liÂvello visivo le costruzioni teoriche delle dottrine controrifor-mistiche, poiché uno stile, come giustamente osserva Donald Posner (“i paralleli culturali, con la letteratura, con la scienza, con la filosofia, con la teologia di un’epoca possono essere molÂto stimolanti, ma non sono sempre significativi per la comÂprensione della genesi e del significato essenziale di un’opera d’arte”), non è mai il risultato di speculazioni teoriche o di situazioni politiche ma trae piuttosto origine dai processi inÂtrinseci all’evoluzione artistica. Nel 1594 il cardinale Odoardo Farnese chiamò a Roma AnÂnibale e Agostino perché eseguissero le decorazioni del palazzo della sua famiglia. L’invito rivolto ai Carracci di partecipare all’esecuzione degli affreschi non deve sorprenderci: alla corte parmense essi godevano infatti di una fama ormai ben consoÂlidata: nel 1586 Annibale aveva dipinto per il fratello magÂgiore di Odoardo, il duca Ranuccio Farnese, le Nozze mistiche di santa Caterina di Napoli, e dopo lo straordinario successo delle ‘storie’ affrescate per i Magnani, i Carracci veÂnivano annoverati fra i maggiori esperti di decorazione esistenti. Benché l’arte di Annibale avesse inizialmente preso forÂma a Bologna in un ambiente fortemente segnato dall’influenÂza della pittura lombarda e veneziana, essa raggiunse la sua piena maturità a Roma: e fu il successo trionfale di Roma che innalzò Annibale al livello dei massimi pittori italiani. Annibale e Agostino dovettero essere entusiasti della posÂsibilità che veniva loro offerta di recarsi a Roma, centro proÂpulsore dell’attività artistica, e di lavorare per la più imÂportante e prestigiosa famiglia del tempo. Il primo incarico che ricevettero da Odoardo Farnese fu quello di dipingere la Sala Grande del palazzo con un vasto ciclo storico destinato a illustrare le imprese militari di suo padre, il celebre condottieÂro Alessandro Farnese. Verso la fine del 1594 i due fratelli efÂfettuarono una visita preliminare a Roma allo scopo di comÂpiere una ricognizione sul lavoro da svolgere. Durante questa visita, durata vari mesi, essi dovettero impiegare gran parte del loro tempo a visitare la città e i celebri luoghi e monumenti che fino allora erano stati loro noti solo attraverso incisioni e copie senza vita. Possiamo dunque immaginare il loro entusiaÂsmo nel vedere per la prima volta la Cappella Sistina o le StanÂze di Raffaello, ma al tempo stesso essi dovettero essere colpiti dal carattere in qualche modo ritardatario dell’arte romana di quegli anni. Il tardo manierismo di Cesare Nebbia, del CavaÂliere d’Arpino e di Federico Zuccaro apparve probabilmente ai due giovani artisti d’avanguardia di Bologna come un’arte messa in discussione e superata da più di dieci anni. Dopo paÂrecchi mesi di studio, i fratelli fecero ritorno nella città naÂtale – dove Annibale ultimò l’Elemosina di san Rocco per la chiesa di San Prospero a Reggio Emilia, commissionataÂgli in precedenza — e si prepararono a trasferirsi definitivaÂmente a Roma. Quando Annibale ritornò a Roma, da solo, nel novembre del 1595, il cardinale Farnese aveva rinviato il progetto di deÂcorazione della Sala Grande, dando invece incarico al pittore di dipingere il Camerino, un piccolo locale che usava coÂme suo studio privato. Come ha chiarito Martin, gli affreschi di Ercole e di Ulisse ivi apprestati da Annibale erano destinati a rendere omaggio a Odoardo Farnese il quale vi appare raffigurato sotto le spoglie di un novello Ercole che, respinti il vizio e la tentazione, sceglie il difficile cammino della virtù e lo segue nei suoi aspetti attivi e contemplativi. La soluzione che Annibale escogitò per il soffitto era ingegnosamente legata a modelli dell’Italia settentrionale. Sia i singoli elementi che la loro disposizione richiamano infatti la decorazione del duomo di Parma, la Camera di san Paolo del Correggio, e in parÂticolare la Camera degli sposi del Mantegna, in cui la decoÂrazione è caratterizzata dall’uso di finti rilievi, da figure in stucco e da elaborate ghirlande di fogliame. Il Camerino, priÂma opera romana di Annibale, resta per molti aspetti legato nelle linee generali al suo ultimo stile bolognese. Anche quanÂdo certi elementi erano direttamente desunti dalla scultura anÂtica, come l’atteggiamento della Medusa nel Perseo e Medusa che si riallaccia alla classica Niobide (allora a villa Medici), la concezione della figura di Annibale, così evidente nella precedente Elemosina di san Rocco, non muta. L’assorÂbimento dell’atmosfera artistica locale, processo essenziale alla formazione del suo grandioso stile ‘romano’, fu un’operazione consapevole e critica, che si compì solo dopo che egli ebbe modo di studiare e assimilare per lungo tempo i modelli clasÂsici e rinascimentali che gli stavano intorno. Completato il Camerino, Annibale volse la sua attenzione alla Galleria, sulla cui volta creò il suo più maturo capolavoÂro, destinato a essere considerato nei secoli come una delle maggiori opere d’arte di tutti i tempi. Con la Galleria Farnese Annibale richiamò in vita il concetto rinascimentale di decoraÂzione dei soffitti, da decenni ormai trascurato dai manieristi. Nel corso dell’elaborazione del progetto per la Galleria Farnese Annibale non solo modificò radicalmente lo stile e la sostanza della propria arte, ma ciò che è più importante, creò un fonÂdamentale punto di riferimento per le tendenze della pittura italiana che sarebbero state sviluppate dalle generazioni sucÂcessive. Gli affreschi della volta celebrano la potenza e il domiÂnio universale dell’Amore, il quale soggioga gli dei dell’Olimpo e umilia i terribili poteri degli antichi eroi. Ventuno scene sinÂgole rappresentano gli effetti di Amore sui personaggi del mito. Giove, il signore dei cicli conquistato dalle seduzioni della sua sposa, ha abbandonato la sua veglia sul campo di battaglia di Troia per i piaceri del talamo. La casta Diana scende sulla terÂra sopraffatta dalla passione per il pastore Endimione. Venere stessa cede ad Amore ed entra nel letto del mortale Anchise. AnÂche i finti medaglioni di bronzo contengono scene di argomenÂto amoroso — Fan e Siringa, Borea e Orizia, Orfeo ed Euridice — e illustrano episodi di violenza, di frustrazione e di sventuÂra generati dalla natura capricciosa di Amore. Ai quattro angoli Eros e Anteros, Amore e Amore Ricambiato, lottano per sorpassarsi l’un l’altro nel dimostrare la propria passione. Nel punto più alto della volta, alle due estremità si scorgono i doni e gli allettamenti che Amore usa per sedurre dei e uomini. Da un lato Diana viene sulla terra per raccogliere la lana offertale da Fan, e concedersi a lui. Sul lato opposto Paride prende la mela d’oro offertagli da Mercurio e a sua volta la dona a VeneÂre in cambio della donna più bella che vi sia al mondo. La GalÂleria è coronata — in senso proprio quanto in senso figurato — dal grande Trionfo di Bacco e Arianna, una lasciva ed ebbra processione trionfale dell’amore sensuale. Al cospetto di simili esempi, come potremmo noi mortali non cedere alla persuasioÂne sopraffattrice di Amore? Di fronte al problema di decorare la lunga e stretta galleÂria Annibale giunse a una soluzione basata su un ordinamento logico delle varie scene. Benché nel soffitto si intreccino, come per una sfida, momenti realistici e momenti illusionistici, esso rimane profondamente coerente e leggibile. La galleria era stata costruita per ospitare la straordinaria collezione di sculÂture antiche dei Farnese, che fa ora parte del Museo NazioÂnale di Napoli. Annibale decise di alludere alla funzione del locale creando al di sopra di esso una seconda, fittizia galleria per opere di pittura. Così la volta venne illusionisticamente trasformata in una galleria di quadri, in cui sembrano appese immense tele incorniciate e che appare popolata di putti e di ignudi. Annibale trasse l’ispirazione per il suo sistema decorativo da due distinte tradizioni. La struttura architettonica continua che sorge dalle pareti sottostanti, la prospettiva coerente, lo scorcio delle figure e la illuminazione uniforme sono elementi che consolidano lo spazio della volta e ne unificano le forme. Annibale trovò i principi di questa tecnica nell’arte, diffusa in quei tempi, della “quadratura”, alla quale si erano rifatti GioÂvanni e Cherubino Alberti cui in origine era stato dato l’inÂcarico di decorare la galleria; mentre d’altra parte l’inserimento di pannelli dipinti e incorniciati raffiguranti scene narÂrative appartiene alla diversa tradizione dei “quadri riportati”. Annibale doveva conoscere bene i grandi modelli romani di questa forma di decorazione, che si trovano nelle logge di Raffaello in Vaticano. Più importante tuttavia poteva essere per lui il ricordo della sala di Ulisse in palazzo Poggi a Bologna, opera di Pellegrino Tibaldi. L’idea del Tibaldi, di mostrare il ciclo attraverso gli angoli aperti della volta, e l’unificazione dinamica del soffitto che sorge dal cornicione fino al magnifico elemento centrale appaiono assimilate nel soffitto di palazzo Farnese. Anche la volta della Sistina di Michelangelo dovette fornire un importante modello; infatti il grande cornicione in pietra che sostiene figure ignude sedute, i finti medaglioni in bronzo e i putti ornamentali riappaiono tutti nell’opera di Annibale, anche se le forme sono state ripensate e rielaborate con una vivacità che li fa sembrare completamente nuovi. Curiosamente il progetto di Annibale per il soffitto pare essere stato influenzato da un piccolo ma elaborato portagioielli di bronzo e cristallo, noto come Cofanetto Farnese (Napoli. Gallerie Nazionali di Capodimonte). È stato notato che Annibale trasse lo schema per il Trionfo di Bacco e Arianna dal medaglione di cristallo disegnato da Perin del Vaga per il CoÂfanetto. Inoltre Annibale adottò per il suo progetto le fiÂgure terminali che reggono con le braccia levate la pesante cornice, i medaglioni circondati da figure, ghirlande, putti, inÂsomma tutta la ricca varietà decorativa del portagioielli. La volta è carica di una straordinaria ricchezza di motivi, che la franchezza illusionistica della concezione proclama reali. Ogni elemento è dipinto in modo da imitare il materiale corriÂspondente. Gli atlanti e le modanature architettoniche ‘di pieÂtra’, i medaglioni ‘di bronzo’ e le cornici dei quadri ‘dorate’ forniscono uno scenario sontuoso per i vivacissimi putti di carÂne e di sangue, i giovani atleti e i satiri. Una massiccia ghirÂlanda di ‘veri’ fiori e frutti, sostenuta da maschere color carne, segue il cornicione. L’animato si mescola all’inanimato: figure palpitanti di vita dipinte ‘al naturale’ affiancano soggetti che ‘devono’ apparire dipinti o scolpiti come per rafforzare, meÂdiante il contrasto, l’illusione di realtà . E come può non essere reale uno spazio in cui le figure sono così dotate di vita? Le figure di ignudi guardano dalle loro mensole e i putti osservaÂno dall’alto lo spettatore. Anche le sculture di pietra prendono vita: le maschere accennano smorfie, arricciano il naso, menÂtre uno degli atlanti marmorei si volge a osservare il medaÂglione che gli è vicino. Ma altri atlanti sono di fredda pietra e mostrano i segni di un antico scalpello. L’illusione trionfa: lo spazio pittorico in cui vivono pittura, scultura e figura ci perÂsuade che esso è reale quanto lo spazio in cui vive lo spettaÂtore più in basso, e il reale spazio pittorico e la verità delle fiÂgure si associano per fugare ogni dubbio circa l’effettiva esiÂstenza della galleria di quadri. Nello stesso tempo in cui Annibale rivoluzionava l’impoÂstazione della decorazione dei soffitti, egli andava modificando radicalmente la propria concezione della struttura e della comÂposizione del corpo umano. Le figure che popolano la volta della Galleria Farnese appaiono ingrandite sino a riempire comodaÂmente lo spazio in cui sono alloggiate. Le smilze figure angolose delle prime opere di Annibale appaiono sostituite da forme pieÂne e rilevate che mostrano una salda comprensione degli aspetti organici e funzionali del corpo umano. Vi si riscontra una semÂplice grandezza e una perfezione armoniosa che derivano da un preciso calcolo della distribuzione del peso corporeo. Le proporzioni massicce ma contenute, la stabilità e l’equilibrio permetterebbero a queste figure di essere facilmente trasforÂmate in sculture a tutto tondo. Le fonti di questo nuovo modo di trattare la figura si riÂtrovano facilmente in Raffaello, in Michelangelo e nell’arte antica. Nessuna meraviglia se le opere antiche che più decisaÂmente attraevano Annibale erano le sculture a tutto tondo, il cui stile coincideva con lo stile plastico di Raffaello e di MiÂchelangelo. L’influenza dell’arte classica appare particolarmenÂte in armonia col fatto che la galleria, come si ricorderà , doÂveva servire innanzitutto come sala di esposizione per la colÂlezione Farnese. Poiché l’intenzione era quella di integrare illusionisticamente la galleria vera e propria e quella dipinta, le pitture di Annibale dovevano essere in completa armonia con le sculture ivi esposte, e ispirarsi allo stesso ideale estetico e agli stessi caratteri stilistici. Se nelle pitture della volta le fonti sono chiaramente individuabili, le citazioni letterali sono tuttavia pochissime. I nudi della galleria Farnese sono rivestiti della stessa possanza monumentale delle figure di Michelangelo, e tuttavia nessuno di essi ripete gli atteggiamenti dei progenitoÂri della Sistina. Analogamente, i tipi iconografici di Giove e Giunone realizzati da Annibale sono assai prossimi a quelli della loggia di Raffaello alla Farnesina, e nondimeno hanno il vigoÂre e l’originalità di creazioni del tutto nuove. Annibale peneÂtrò fino in fondo i suoi modelli artistici e assimilò profondaÂmente la visione e i metodi dei suoi maestri: il risultato è un nuovo tipo di figura che riflette gli esempi famosi dell’antichità e del Rinascimento senza ripeterli. Nel concepire le figure e le composizioni della volta, Annibale seguiva scrupolosamente un complesso procedimento — riÂcostruito da Wittkower -, basato su un gran numero di studi preparatori. I primi rapidi schizzi dello schema generale erano seguiti da studi delle singole scene: venivano poi eseguite le singole figure e gli studi dettagliati del nudo nelle pose fornite dai disegni preliminari; infine era la volta dei disegni partico-lareggiati che potevano essere trasferiti su cartoni in grandezÂza naturale, usati per riportare le composizioni sulla volta. Non si sottolineerà mai a sufficienza l’importanza storica del sistema di Annibale per la preparazione di affreschi monumenÂtali e il suo uso del disegno come momento originario della creazione artistica. Tramandato dai suoi allievi alla generazioÂne successiva, tale metodo divenne il procedimento abituale per la realizzazione di affreschi e di grandi tele per quasi dueÂcento anni: esso fu abbandonato soltanto in età romantica quando la sua lentezza e meticolosità vennero sentite come un impaccio alla spontaneità dell’ispirazione. In effetti il procediÂmento era lento e faticoso, e per di più fra le mani di artisti meno capaci e dotati il carattere unitario e l’accento di verità che Annibale aveva sempre saputo infondergli andarono perÂduti nel labirinto dei particolari. In tal modo proprio il metoÂdo che Annibale aveva creato per ridar vita alla grande tradiÂzione dell’affresco rinascimentale aprì la strada alla sterilità acÂcademica. Nei mesi immediatamente successivi al trionfale scoprimenÂto della volta della Galleria Farnese, Annibale prese a dipinÂgere una pala d’altare per la cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo, quella stessa cappella per la quale il Cerasi aveva dato a un altro innovatore, Michelangelo Merisi da Caravag-gio. l’incarico di dipingere due pannelli laterali, la Crocifissione dì san Pietro e la Conversione di san Paolo. L’Assunzione di Annibale è una esplicita affermazione dottrinale degli ideali stilistici realizzati nella Galleria Farnese. L’impostazione cariÂcata e retorica di questa composizione può essere nata da una contrapposizione con il naturalismo apparentemente spontaneo del Caravaggio. La risposta di Annibale fu una cristallizzazione e una intensificazione delle forme ideali e una meno esplicita adesione ai principi classici che egli ritrovava in Raffaello e negli antichi. La sua concezione della figura umana, che in origine era derivata da una idealizzazione e da un perfezionaÂmento della natura, in questo quadro appare come l’idealizzaÂzione di un ideale. Il risultato è una severa maestà delle forme e una drammaticità espressiva che toglie al dipinto ogni senso di spontaneità e di calore. Questo è lo stile che predomina nell’opera di Annibale al suo ritorno a Roma tra il 1603 e il 1604, dove completa la decorazione delle pareti della galleria Farnese con gli affreschi di Perseo che libera Andromeda e della Battaglia di Perseo e Fineo. Le eleganti forme plastiche della volta sono divenute dure e rigide: le figure non si muovono più liberamente ma apÂpaiono raggelate in pose angolose. Il classicismo rigido e ieraÂtico di queste opere tarde è stato attribuito in parte all’intervenÂto della bottega di Annibale: fu infatti in questo periodo che il maestro accolse nel suo studio un gruppo di giovani pittori emiliani molto abili che egli poté addestrare a realizzare le sue idee con grande efficacia. Sotto la direzione di Annibale, FranÂcesco Albani, il Domenichino, Giovanni Lanfranco e Sisto Badalocchio ispirarono le loro opere ai canoni del suo stile ideale. A loro volta questi artisti e i loro allievi come Andrea Sacchi, diffusero la tradizione classica di Annibale e le diedero il carattere di una forza portante per tutto il Seicento. La fama e l’ammirazione suscitate tra i contemporanei dalÂla Galleria Farnese sembra lasciassero indifferente solo il suo committente. Secondo il Baglione, dopo il completamento delÂl’opera nel 1605, il cardinale Farnese mandò ad Annibale coÂme pagamento la ridicola somma di 500 scudi. Sfinito da anni di lavoro, tormentato dalla cattiva salute, demoralizzato dalla mancanza di riconoscimenti, l’artista ebbe una crisi profonda. Ormai egli avrebbe dipinto poco, ma i suoi allievi gli rimaneÂvano devoti. Nell’agosto del 1607 due di loro, Lanfranco e Badalocchio, dedicarono al maestro un volume di incisioni tratÂte dalle Logge di Raffaello. Nella dedica essi scrivevano di aver intrapreso l’opera per tenersi occupati durante la lunga malattia di Annibale, che li aveva costretti a interrompere gli studi. Un anno dopo, nel luglio del 1608, tre dei più fedeli allievi di Annibale tentarono di indurre il loro maestro a torÂnare al lavoro. Insieme al pittore conclusero e firmarono un accordo secondo cui ciascuno di loro avrebbe dipinto un quaÂdro ogni cinque settimane e avrebbe lavorato per due ore al giorno. A poco tuttavia servì questo impegno: Annibale Carracci moriva infatti pochi mesi dopo, il 15 luglio 1609. Fu seÂpolto, secondo i suoi desideri, nel Pantheon vicino alla tomba di Raffaello, Giovanni Battista Agucchi, teorico dell’arte e amiÂco di Annibale, riassumeva con queste parole, la sera stessa della sua morte, i sentimenti dei contemporanei e delle generaÂzioni future: ” Io non so qual sia l’opinione de gli uomini di coteste parti; ma per confessione de i primi pittori di Roma, egli era il primo che vivesse al Mondo nella sua arte”. Letto 9804 volte. |
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Commento by Nanni — 9 Gennaio 2014 @ 18:52
Davvero grazie per questo articolo, si legge bene!lo trovo interessante, thanks