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PITTURA: I MAESTRI: Giuseppe Capogrossi. Segni solo segni17 Marzo 2015
di Cesare Brandi GIULIO CARLO ARGAN Forse, in tutta l’arte contemporaÂnea, non c’è niente che abbia di piĂą l’aspetto problematico e che in realtĂ sia piĂą semplice della pittura di CapoÂgrossi. L’aspetto problematico rileva dal fatto che il quadro di Capogrossi, come tutti sanno, si ostende come una serie di segni che poi sono sempre lo stesso segno. Distribuiti in teorie ascensionali, o discendenti, dimezzati dal quadrato della tela come fosse una proiezione troppo grande per lo scherÂmo ridotto, sovrammessi come per una surimpressione fotografica, queste forchette magiche possono ossessionaÂre per un loro significato recondito, di geroglifico, che invece non hanno. InÂfatti non significano nulla. Nel saggio che ha dedicato a CapoÂgrossi Giulio Carlo Argan (edito dall’Editalia e con un corredo bibliografico e un accurato iter biografico critico di Maurizio Fagiolo dell’Arco) è subiÂto dichiarata questa chiave fondamenÂtale per intendere al suo giusto punto la pittura di Capogrossi. « La pittura di Capogrossi non insiste su contenuti mitici e non pratica riti magici o culti misterici… L’ordine che la regge non è fatale nĂ© drammatico: è un civile « modus vivendi » che si traduce in una prassi semplice e corretta, senza motivi reconditi nĂ© fini secondi. Il seÂgno non è cifra nĂ© criptogramma: tutÂto ciò che Capogrossi si propone è di comunicare con la massima chiarezÂza… tutto ciò che comunica è, in defiÂnitiva, la propria capacitĂ e necessitĂ di comunicare ». Quanto segue nel saggio bellissimo di Argan si fonda su questa che è una vera e fondamentale scoperta critica, anche se formicoli in seguito di spunti felicissimi, come l’introduzione della parola « ornato » (amico Carlo, mi rimproverasti di averla rispolverata, al tempo del mio Eliante o dell’archiÂtettura!), del concetto di «campo», tanto difficile a definirsi peculiarmenÂte e che Argan fissa con una formula felicissima, come « un’estensione defiÂnita esclusivamente dall’agibilitĂ di un sistema di relazioni ». E ancora, i rapporti e i raffronti così acuti e conÂvincenti con Fontana e Colla. Insomma un saggio che non si riassume, ma si assume: bisogna leggerlo cioè. QuelÂlo che allora, in secondo luogo, mi inÂteressa mostrare, è che, al di lĂ della differenza di terminologia, la critica mira per forza ad uno stesso oggetto e finisce per ritrovare una stessa veritĂ . Che cos’è infatti un segno che non significa se non un segno revoluto ad immagine? Che cos’è la comunicazione che non dĂ informazioni ma comunica se stessa, se non l’astanza dell’immagiÂne, e, in questo caso, del segno revoluÂto ad immagine? Dunque proprio la pittura di Capogrossi che sembra, all’iÂgnaro, carica di significati nascosti che non ha, o di contenuti poetici (giustaÂmente Argan apre il discorso ricordanÂdo che Capogrossi ha fatto « una pittuÂra figurativa e tonale, densa di conteÂnuti poetici. Poi li ha estromessi e, contemporaneamente, la figurazione è scomparsa ».) si rivela non giĂ un’ecÂcezione, rispetto a quello che fa arte l’opera d’arte, ma il paradigma stesso dell’astanza che non comunica, dell’astanza che è un dasein non esistenziaÂle. L’apparente contraddizione allora, fra il segno che non comunica e il suo revolversi in immagine, si rivela come la struttura stessa di base della pittuÂra di Capogrossi, con quell’opposizione fra segno referenziale e segno non coÂmunicante, che viene ad istituire in seno alla piĂą vasta opposizione tra flaÂgranza e astanza con cui si contrappoÂne la realtĂ pura alla realtĂ esistenziaÂle. Così il codice che pone in atto queÂsta struttura non ha bisogno che di un segno di base, appunto perchĂ©, non doÂvendo riferire su nulla, non recando informazioni di sorta, può ridursi ad un segno unico, come nell’uno stanno tutti i numeri. Da questo segno unico deriva l’iterazione, che non è mai, in Capogrossi, vuota o gratuita, ma eleÂmento sempre nuovo di ritmo. Il contrappunto ritmico è infatti un’altra delle strutture di base di CaÂpogrossi, e per questo contrappunto ritmico si vede la grande differenza che intercorre fra lui e Tobey, in cui l’iterazione è ossessiva fino allo spasiÂmo o all’allucinazione. Capogrossi è lucido, trasparente come un cristallo, e le sue linee contrappuntistiche poÂtrebbero tradursi in musica, secondo questi nuovi elaborati alfabeti musica che i compositori attuali mettono in opera. In musica, dunque, ma non sotÂto forma di melodia. Ed è qui che torna parlare di un’alÂtra precisazione di Argan, dove accenÂna al fatto che Capogrossi ha evitato di cadere in un lettrismo, di servirsi cioè di segni alfabetici precisi, e come con ciò abbia evitato la calligrafia; e questa può dare lo spunto melodico che invece Capogrossi chiaramente evita. Proprio perchĂ© un A un B, anÂche se non recano piĂą il riferimento oggettivo con cui nacquero in Fenicia, mantengono sempre vivo il rapporto significante, e questo rapporto, pure se solo allo stato di suggerimento, verÂrebbe a turbare il silenzio di queste teorie dell’immutabile segno. Il cui anÂtinaturalismo è così forte e radicato, che io ricorderò sempre la sorpresa con cui, nelle sabbie lungo il Nilo, osÂservavo la mattina presto le tracce del passaggio degli scarabei, tracce che parevano veramente, seppure abbreÂviate, le teorie di segni di Capogrossi: ma bastò quel riferimento spontaneo, perchĂ© quelle tracce perdessero il senÂso di relitto naturale e, istantanea- mente, si distaccassero dalla sabbia. Infine un altro carattere strutturale del codice a segno unico di Capogrossi è giustamente additato da Argan quando insiste sul carattere fortemenÂte oggettuale di quel segno, nĂ© solo perchĂ© dipinto col pennello, fabbricato con i colori, con il riporto del colore dalla tavolozza, supersiste quasi unico, attualmente, della pittura come s’inÂtendeva un tempo. Appunto perchĂ© seÂgno che non significa ma che si dĂ astante, acquista in quel momento una sua oggettualitĂ che lo distingue, cerÂto, dagli oggetti di questo mondo, ma lo caratterizza in questa sua costituÂzionale non-significanza. A questo punto bisogna anche sottolineare l’estremo senso della misura con cui costruisce i suoi quadri CapoÂgrossi. Basta pensare a quei pochi alÂtri che si servono di un’iterazione di uno stesso segno, o di un rictus del seÂgno, per rendersi conto dell’abisso che separa Capogrossi da un Sanfilippo o da un’Accardi. NĂ© credo sia tanto difÂficile accorgersi di questa scienza comÂpositiva di Capogrossi, soprattutto se se ne vedano molti insieme, dei suoi quadri. Ora che nella riordinata GalleÂria d’Arte moderna di Roma, si può ammirare una bella sala di CapogrosÂsi, questa iterazione in vari formati dello stesso segno acquista una forza che è il contrario stesso della noia a cui la ripetizione predispone. Invece che esautorarsi l’uno con l’alÂtro, quei quadri, si convalidano.
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