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PITTURA: I MAESTRI: Guercino. Rembrandt della Bassa2 Febbraio 2016
di Cesare Brandi Bologna, settembre Questa mostra del Guercino a BoÂlogna è cosa di cui occorre dir bene subito per la serietĂ , l’amore, vorrei dire la parzialitĂ affettiva, con cui è stata messa su all’Archiginnasio, da Denis Mahon e da Cesare Gnudi. Tanto ci si meditò prima di farla, che venne spostata, ma non è un gran male, rispetto al centenario che cadeva nel 1966, sicchĂ©, se mai vi sia un dubbio, è che negli allestitori, ma soprattutto in Denis Mahon, si sia prodotto quel fenomeno che gli sporÂtivi ben conoscono, e si chiama supeÂrallenamento. Ma come mostra, dal punto di viÂsta dei criteri rigorosi di selezioni, attuati senza guardare in faccia nesÂsuno, e si sa i trasformismi che sugÂgeriscono le mostre, ad esempio i Caletti che divengono Guercino del periodo ferrarese e via dicendo, non si poteva chiedere di meglio: dove allora non ci si senta di andare d’acÂcordo, è per ragioni d’altro genere, in fondo non meno opinabili di quelÂle che sono state accolte dagli ordiÂnatori. E se, a dirlo senza commenti, il fatto che ben undici Guercino apÂpartengano, fra i poco piĂą che cento esposti, al Mahon, può suonare maÂle, bisogna riconoscere che sono di qualitĂ assai alta, e che la loro asÂsenza sarebbe staÂta una grossa lacuna. A questo punto bisogna rispondeÂre ad una domanda che nascerĂ spontanea: dalla mostra bolognese, il Guercino, viene ad essere rappreÂsentato in modo tale che la sua perÂsonalitĂ torni ad essere una presenÂza viva? Non si dice per tale o talalÂtro quadro, chĂ© certo non c’era bisoÂgno della mostra bolognese, per caÂpire la qualitĂ del « San Guglielmo d’Aquitania » o della « Santa Petronilla », ma tolte queste cime giovanili, i resto dell’attivitĂ , media e tarÂda, resiste al vaglio dei secoli, resiste di essere accostata, ed è quasi come fosse di un altro maestro, al superbo (e insuperato) periodo giovanile? E’ qui che vorrei fare un discorso senza fretta. Certamente, dalla conoÂscenza piĂą che trentennale, dallo studio assiduo e capillare del GuerciÂno, il Mahon, che è anche l’autore del catalogo e in gran parte della seÂlezione — ma il catalogo quando uscirĂ ? — si è fatta un’idea del Guercino ed in base a questa idea ha scelto il materiale ed ha organizzato la Mostra. Ha fatto male? No certaÂmente: una mostra che avesse raduÂnato tutto il materiale disponibile sarebbe stata farraginosa, avrebbe nuociuto alla rivalutazione che si vuol fare di questo maestro, che non fu sempre grande allo stesso modo, ma che merita sicuramente di essere ricollocato quasi nello stesso posto, se non piĂą in su, in cui lo poÂsero i coetanei: che non furono avari di lodi, a cominciare da Ludovico Carracci. Concordo e lodo dunque il criterio di una selezione qualitativa accuraÂta. Dove non concordo ugualmente è nella struttura sottintesa che è stata data alla scelta, nella sua teleologia, per meglio dire, e che è presto detta: rivalutare il periodo tardo del GuerÂcino al punto di farlo quasi anteporÂre al primo e glorioso. Ora, si badi bene, non c’è nessun intento comÂmerciale, ma solo ideale. E l’intento ideale è il classicismo. L’emerito studioso inglese, con i suoi studi sul classicismo seicenteÂsco dall’Agucchi al Domenichino, si è fatto l’idea che il momento classiÂcista seicentesco è un momento alÂtissimo e basilare per la storia della cultura dell’Occidente: e quando in questa ripresa classicista si possono allineare i nomi del Domenichino, di Poussin, del Lorenese, non gli si può dar torto. Ma non si può neppure diÂmenticare che fu un tipico moviÂmento reazionario, che il colpo di freno che dette fu mortale, ad esemÂpio, per l’architettura francese: a quel colpo di freno si deve se il LouÂvre non fu fatto dal Bernini, se l’arÂchitettura francese dovĂ© attendere quasi un secolo il riscatto barocco col rococò. Insomma possono pur chiamare classico, il Seicento, i francesi, ma è una denominazione di comodo: a diÂspetto del codice impeccabile e della squisita fattura, Racine è barocco, e barocco è Poussin, anche se raggelaÂto e libero solo di affidare alle sue nuvolone cariche di elettricitĂ e di colore quell’afflato con cui era coÂminciato e che aveva trovato il suo ètimo nel Caravaggio e in Tiziano. Ora il Guercino nasce come pittoÂre barocco, e proprio perchĂ© autodiÂdatta e fattosi in un paesino senza importanza, riesce a costituire la sua cultura con una indipendenza, anzi una spregiudicatezza meravigliosa. Non c’è che un genio, che possa pasÂsare dalle prime incerte giaculatorie pittoriche di Cento e di Renazzo, alÂla prodigiosa sintesi che, fra il 1615 e il 1616, arriva a sublimarsi. Che gli successe? Cosa vide? Per lo meno si sa, per Van Gogh, lo scatto segreto della pittura impressionista, che gli fece fare il balzo fuori dalle prime scarpe vecchie olandesi. Ma qui c’è una presa di coscienza che non è una nuova scelta di cultura. E questo è meraviglioso, che ad un tratto quel che era modesto oscuro bricolage, diventi forma, forma liquida, schiuÂmosa, come il sangue di San GennaÂro quando si scioglie. Il provincialotto Barbieri in realtĂ aveva, per quello che avrebbe realizÂzato in seguito, e lo sentiva greve come un feto dentro di sĂ©, una calaÂmitazione sorprendente, qualcosa coÂme la comoda anafilassi che a certuÂni, di fronte a mille pelli diversi fa scoprire di colpo quella del coniglio. Il Guercino, dal Correggio, dallo Schedoni, dal Lanfranco, dal Bononi, dallo Scarsellino prelevava con fiuto sicuro quanto gli serviva, tralaÂsciando il resto. Che il primo diviÂdendo l’abbia realizzato tramite LuÂdovico Carracci, di cui c’era una paÂla a Cento, è sicuro anche per sui confessione. Ma ben altrimenti che in LudoviÂco le fonti culturali riuscirono a fonÂdersi col Guercino. Si insiste con particolare fermezza, da parte dì Gnudi e di Mahon, sull’apporto ferrarese, ma lo Schedoni fu tramite iniziale anche piĂą forte: nĂ© bisogna legarsi solo ai viaggi noti del Guercino per selezionare le sue fonti. E una fissazione degli storici dell’arte di fare grandi questioni per ammetÂtere o non ammettere un viaggio, quando poi si sa che, pur senza treÂni, aerei, automobili, gli artisti anÂche nel Duecento viaggiavano come uccelli migratori. Figurarsi se proprio, col fuoco che lo divorava, il Guercino non sarĂ andato a Parma, o a Venezia, o a Mantova, anche prima che si sappia, per Venezia e per Mantova, quando c’è stato in forma, si noti bene, ufficiale. Io sono molto scettico sulle conÂvergenze in campo figurativo: la poÂsa di Tabita nel quadro del GuerciÂno, che è secondo il Malvasia del 1618, ricorda troppo quella della « Morte della Vergine » del Caravaggio che proprio si trovava a Mantova. Ma il Guercino andò a Mantova solo nel 1620: tuttavia era a Venezia nel 1618 e poteva essere passato per Mantova… Il Mahon invece, crocifisÂso alle date, preferisce lasciare il problema insoluto. Ora, non è un problema da poco, perchĂ©, nella forÂmazione del Guercino, il Caravaggio è essenziale, nĂ© può avere aspettato a vederlo nell’andata a Roma, in cui, certo, ne dĂ una nuova interpretaÂzione: ma quella prima, fondamentale, geniale è l’interpretazione che ne offre intorno agli Anni Venti. NĂ© basta allora, il Correggio, nĂ© i veneziani, neppure le ombre vaganti del Veronese, e del tutto insufficienti i Carracci, per spiegare le ombre che costruiscono il corpo dell’Apollo, nell’Apollo e Marsia, o il sublime inÂgresso della luce, come una fanfara squillante, nel « San Guglielmo di Aquitania ». Si produce, cioè, un feÂnomeno analogo a quello di Rembrandt, che certo non dovĂ© aver viÂsto nulla di direttamente caravaggeÂsco, ma che imposta il problema formale della luce e dell’ombra strutturale come il Caravaggio. Ora, nel suo glorioso inizio, il Guercino dal 1616 al 1623, fa temere di diventare un altro Rembrandt. Si guardi la « Susanna » del Prado, forÂtunatamente indenne da drastiche puliture, fortunatamente ancora preÂservata in un alone dorato quale certamente ricercò allora il Guercino. Come non ricorrere col pensiero a Rembrandt, alla divina « Danae » dell’Ermitage? Certo c’è il Correggio, ma il Correggio dĂ infusioni stupenÂde di carne e di luce, di aria e di omÂbra, nĂ© si sa con che l’immagine sia costruita se piĂą con l’aria che con la luce, se piĂą con l’ombra che con la particolare sfocatura della distanza. Ma per la «Susanna» del Guercino, è chiaro che è l’ombra caravaggesca su cui la luce si posa come un caldo sedimento: il Caravaggio arrivava addirittura a servirsi del tono di fonÂdo per le ombre, e cioè costruiva a partire dal buio, dalla notte (facciaÂmoci iconologi, e diciamo, dal peccaÂto, contro le attuali celebrazioni caÂravaggesche in tono moralistico e controriformistico). Il Guercino non avrĂ usato la preparazione scura per le ombre della « Susanna », ma è coÂme l’avesse usata; la distanza lumiÂnosa di questo massiccio corpo conÂtadinesco avviene come una lievitaÂzione o una gestazione. ChecchĂ© si dica o si arzigogoli, il vero, l’autentico Guercino è questo: il giovane che si sa muovere in un campo culturale multiplo con la siÂcurezza direzionale di un uccello miÂgratore: e trova appunto il suo cliÂma, il suo colore e le sue ombre treÂpide, come fa la luna fra le nuvole, quelle che sembra di vedere attraÂverso le ottave del Tasso: Intanto Erminia infra le ombrose piante… e quante stupende Erminie nel GuerÂcino. Ma il resto, allora, che cos’è? Ci sono quarantatrĂ© anni di attivitĂ del Guercino: li vogliamo buttare tutti al macero? Me ne guarderei bene. Ma altrettanto mi guarderei di ricoÂstruire e di catechizzare il Guercino finalisticamente in base al suo tardo soccombere classicistico. Roma fu leÂtale al Guercino, e certo lo splendore raffaellesco del Domenichino, soÂprattutto degli affreschi dovĂ© costiÂtuire un colpo basso per lui. La direÂzione culturale che l’Agucchi era riuscito ad inculcare ad una parte eletta, certo la piĂą apparentemente avanzata, era il classicismo. Può darÂsi che il geniale paesano di Cento ne restasse intimidito. Certo tentò almeÂno, e subito, un avvicinamento, senÂza perdere tutto in una sola volta. Cominciò allora quel periodo di diÂsgregazione che il catalogo dice di transizione. Brutta parola, che non avrei voluto ritrovare sotto penne così dotte e evolute come quelle di Mahon e di Gnudi. Non è transizioÂne, non è la fase che del bruco belÂlissimo attraverso uno stato larvale produce la farfalla: non è la farfalla la serie di inerti, sorde pale del tarÂdo Guercino, dove, per trovarci belÂlezze nascoste, si scoprono perfino in questi colori stonati, tratti dalla ben altrimenti equilibrata gamma di Guido Reni: « anche una semplice vernice ingiallita uccide inesorabilÂmente i valori pittorici preziosissimi di questo ultimo Guercino », scrive Cesare Gnudi. E per questi valori preziosissimi si sono puliti e lucidati questi quadri come fossero impiantiÂti a cera. SicchĂ© si trasecola veraÂmente quando si vede la « Sibilla LiÂbia » della Regina d’Inghilterra, puÂlita con tanto garbo: doveva venire da Londra un quadro del Guercino tardo, che, per mostrare i suoi valori preziosissimi, non abbia avuto bisoÂgno di scorticarli. Certo, in questo quadro, che è il piĂą reniano di tutti, c’è una pittura assai amabile, meno densa di quella delle Sibille del DoÂmenichino, tanto per restare in teÂma, che mai purtroppo nella pittura ad olio riuscì a mantenere la levitĂ straordinaria dei suoi meravigliosi affreschi. Ma per una « Sibilla Libia» quante pale stentate e oratorie dobbiamo sorbirci: bisogna allora andare ai margini del quadro per ritrovare un paesaggio, un lembo di cielo al traÂmonto, qualcosa che si riscatti da una pittura senza estro. E si ricordi che solo alla morte del Reni nel ’42 il Guercino si trasferisce a Bologna, e invano cerca di soppiantarlo. Qui Gnudi si inviperirĂ : ma la coincidenÂza del trasferimento del Guercino da Cento a Bologna, subito dopo la morte del Reni, non può ritenersi casuale. Il Guercino allora e solo alÂlora, sentì via libera. La mia interpretazione sarĂ maleÂvola. Ebbene, io vorrei perciò che mi si spiegasse un fatto incontrovertiÂbile, ma forse, quando apparirĂ il caÂtalogo dei disegni del Mahon, il fatto sarĂ spiegato. Vorrei dunque essere illuminato sul perchĂ© il modo di diÂsegnare del Guercino non cambia coÂme cambia la pittura: e cioè fin dal principio il Guercino, lo riconobbe anche Ludovico Carracci, fu un maÂgnifico disegnatore, e usò due o tre tecniche, a seconda che impiegasse la sanguigna, il carbone, o l’inchiostro. Orbene, nella splendida raccolta di piĂą che duecento disegni esposta a Bologna (sempre dovremo essere grati a chi l’ha costituita), è facile accorgersi che al tempo ultimo della pittura stentata, bolsa e declamatoÂria, i disegni restano meravigliosaÂmente veloci, ricchi, ellittici quel tanto da disfarsi quasi sulla carta e da riemergerne proprio come faceÂvano le figure nel periodo eroico gioÂvanile: eroico, è la parola di LudoviÂco Carracci. Per me la spiegazione è una sola. Il Guercino si era piegato ad una moda, ad un gusto che si era soÂprammesso a lui dall’esterno: come il cavalierato. La sua pittura tarda è tutta un cavalierato. Quando diseÂgnava si levava la croce di cavaliere: stava in maniche di camicia e buttaÂva giĂą con una violenza e una feliÂcitĂ senza pari quei disegni che mozÂzano il fiato. E ora un piccolo rilievo, per finiÂre: con sorpresa ho visto che per il famoso quadro con la scritta « Et in Arcadia ego » all’accuratissimo Mahon E’ sfuggito il fatto fondamentale, che tutta l’elaboratissima spiegazioÂne iconologica del Panofsky in un saggio famoso, è venuta meno dopo che Francesco Della Corte, un latiniÂsta, ha scoperto la fonte da cui è staÂta elaborata probabilmente l’iscrizioÂne frammentaria. Terenzio, il famoÂso commediografo, era sepolto in ArÂcadia, e Ausonio ne parlò così: « protulit in scaenam quot dramata fabellarum Arcadiae medio qui iacet in gremio ». Da questo, Giulio RospiÂgliosi, poi Papa Clemente IX, potĂ© trarre, per consigliarla al Guercino, una iscrizione del genere: « [proferuntur in scaena meae fabulae] et in Arcadia ego [iaceo] ». Riprendendo l’ingegnosa intuizioÂne del Della Corte, scrivevo nelle mie Due vie: la scritta non sarebbe un memento mori ma un incitamenÂto a quelle opere virtuose che soÂpravvivono alla morte, per cui il seÂpolcro di Terenzio giaccia pure diÂmenticato e il suo teschio in disfaciÂmento (coi simboli del topo e della mosca) ma le sue opere continuano a vivere. Poi magari uscirĂ un nuoÂvo testo e la spiegazione sarĂ ancora diversa. Ahimè, la mia fede iconoloÂgica non è molto salda.
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