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PITTURA: I MAESTRI: La mostra “Dal Ricci al Tiepolo”3 Maggio 2014
di Dino Buzzati « Un giorno ti farò un certo discorso su questa pittura » mi dice un amico veneziano, scultore, scrittore ed editore, che conosce i segreti umani dell’arte veneziana classica come pochi altri. Stiamo visitando insieme la splendida mostra « Dal Ricci al Tiepolo » nel palazzo Ducale, mostra ideata e organizzata da Pietro Zampetti, e a cui Rodolfo Pallucchini ha già dedicato su queste colonne una illuminata nota critica. E poi: « Non ti sembra che qui tutti recitino, che anche le composizioni religiose, anche gli episodi mitologici, non siano che scene di melodramma, e che dove non si sente il melodramma, come nel Longhi, si stia però già recitando Goldoni, insomma che tutto sia teatro, che tutto sia finzione, e che dietro ci sia una società in completo sfacelo? ». Così infatti mi sembra. E proprio le sue parole mi invogliano a guardare da vicino, di là di ogni considerazione critica, chi sono, in carne ed ossa, i personaggi di questa dissennata féerie. E cominciamo dalle DONNE — Hanno sugli uomini, nel panorama, una netta prevalenza e soprattutto una vitalità di gran lunga più forte. Anche se coinvolte nella totalitaria commedia, conservano, si direbbe, più carattere e genuinità. Madonne, angeli, regine, dame, damazze, putte, sono prima di tutto, quasi sempre, delle creature desiderabili e desiderate. Qualche esempio? Osservate quella che secondo me è la più bella: la Venezia cioè di Gian Battista Tiepolo (n. 179) che è poi la modella fondamentale di Tiepolo, quel volto puro, ma di ferma architettura e intensamente sessuale, che via via assumono anche la moglie di Dario nell’affresco della Cordellina (vedi bozzetto n. 174), la superba Madonna n. 173, la Danae (n. 171), che è la femmina più procace di tutta la mostra, l’altra Madonna dell’Immacolata concezione n. 170 e l’angelo, in alto, della « Educazione della Vergine » (n. 165), per non citare tante altre donne tiepolesche qui non presenti. E’ una faccia stupenda, più popolaresca che aristocratica, caratteristica questa che si ritrova in tutti i grandi pittori veneziani, a cominciare dal rinascimento, basti pensare alle Madonne del Giambellino e di Cima, inconfondibili figlie della sana plebe. Questa consolante schiettezza si salva anche nella pompa più farraginosa e giubilatoria con cui qui sono narrati i testi sacri e la storia antica. Come nella Ester del Fontebasso (n. 150), nella Madonna di Gian Antonio Guardi (n. 112), nell’angelo del Piazzetta (n. 57), per non parlare della sua deliziosa contadinella (n. 64), nella Ifigenia del Bencovich (n. 48), nelle ancelle ritrovanti Mosè, del Pellegrini (n. 27) e nella Arianna di Sebastiano Ricci (n. 11). Per la Rosalba Carriera è un altro discorso. Qui siamo in pieno palcoscenico, teatrale quando si tratta di cantanti, mondano, quando a posare sono dame e fanciulle della bella società. Tra le ciprie, le trine, i fiori e i veli, si affacciano delle puntigliose e pericolose tipe di una intensità umana straordinaria: guardate donna Elisabetta Algarotti Dandolo (n. 78), così impavidamente sicura di sé, la giovinetta n. 77 che darà chissà quanti fili da torcere, la ironica e insieme cordialissima bellezza di Caterina Barbarigo (n. 76), l’altezzoso snobismo della contessa Orzelska (n. 75) e lo sguardo nella numero 74, che lascia poche speranze a quei disgraziati che si lasceranno invischiare. Non più caratteri incisi ma piuttosto graziose « piavole » sono le signore, le nobildonne, le penitenti, le servette, le popolane di Pietro Longhi. Proprio come se le vedessimo, dalla platea, ai lumi della ribalta, ben confezionate e truccate per la recita, cosicché i particolari fisionomici si condensano in una gentile e convenzionale mascherina. Però la nobildonna della « Presentazione » (n. 131) fa perfidamente sentire, ai visitatori, la superiorità del suo casato, mentre la giovanetta venuta ad ammirare il rinoceronte (n. 134) offre una impeccabile dimostrazione di superciliosa indifferenza blasée, magari è una di quelle. UOMINI — Anche là dove si presentano con precise intenzioni sociali e mondane, come nei cronistici quadri di Piero Longhi, sembrano avere, ripeto, rispetto alle donne, una minore autorità. Il patrizio che, grazie a quattro rematori, va a caccia di anatre con arco e frecce (n. 139) ha le chiare stimmate dello stupidotto e, per contrasto, i signori di indubbia intelligenza come Antonio Ranier (n. 148) e Giulio Contarini (n. 147), raffigurati da Alessandro Longhi, non dissimulano, dietro il diplomatico sorriso, la scettica consapevolezza di un mondo in liquidazione. Poi, nel reparto uomini, abbiamo il vasto repertorio di re mitici, di personaggi biblici, di santi. E qui, pur quando la pittura è magistrale, trionfano l’enfasi, la forzatura, l’insincerità appunto del secolo. Il regista non conosce misura nell’impostare le gesticolazioni più esagitate ed esageratamente espressive. In particolare, trovo repellenti quegli assurdi vecchi santi, barbuti e seminudi, col fisico da Maciste, come il San Bartolomeo del Tiepolo (n. 157) e l’ancora più sgradevole Santo Jacolo del Piazzetta (n. 53). Oppure certi volti eccessivamente compunti e penitenziali, come il n. 116 di Francesco Guardi e l’Abramo tiepolesco (n. 166). Ma qui si tratta di un fenomeno più vasto, non limitato alla Venezia del Settecento: è semplicemente la lugubre retorica scaturita dalla controriforma (che strano, però: i pittori, anche i grandissimi, sembra non abbiano mai capito, soprattutto dal Cinquecento ai giorni nostri, che la caratteristica immancabile di tutti i veri santi è la letizia d’animo, l’autentica allegria; o forse loro, da artisti, lo avevano intuito, solo che la bigotta miopia dei committenti imponeva mestizia e macerazioni). BAMBINI — Se ne vedono pochi, relativamente. Accademico, pur se molto sentito, il figlioletto di Agar del Tiepolo (n. 165). Notevole, per la quasi morbosa sensualità, l’Isacco del Bencovich (n. 46). Indimenticabili i due ragazzini di sangue blu a cavallo, così superbiosi da far tenerezza, soprattutto quello a sinistra (Pietro Longhi, 137). Troppo viziato, e nello stesso primo della classe, il tenero rampollo della famiglia Pisani detto « Il balotin del Doge » (Alessandro Longhi, n. 146). Completamente disarmata e candida, invece, dello stesso autore, la bambina che soffia sulla pappa bollente (n. 152). E qui mi sono limitato ai veri bambini, tralasciando l’immenso campionario della stucchevole pseudo-infanzia celestiale con le alucce.
ANIMALI — Scarso, nel complesso, l’interesse zoofilo. Generico e stupido, anche se di nerboruta corporatura, il serpente con la fatale mela in bocca, nella Immacolata concezione del Tiepolo, così come è addirittura irriconoscibile, tanto è brutto, sempre del Tiepolo, il leone sulla cui testa Venezia confidenzialmente si appoggia. Altrettanto tirato via, da Francesco Guardi, il demoniaco rettile sotto i piedi della Vergine Immacolata (n. 118). Insignificante il bue del presepio di Sebastiano Ricci (n. 4), come i leziosi cani e cavalli dello Zuccarelli (n. 124). Più persuasivi il botoletto presuntuoso del Longhi (n. 135) e il levriero un po’ sbilenco e tristanzuolo nella famosa « Passeggiata » di Gian Domenico Tiepolo (n. 194). Certo, nel bestiario, il posto d’onore spetta al rinoceronte, o meglio « rinocerotto » di Pietro Longhi (n. 134), portato a Venezia come fenomeno da baraccone nel 1751: è di carnagione molto nerastra, sta mangiando di malavoglia della paglia e si direbbe amareggiatissimo del proprio destino. Letto 1338 volte.
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