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PITTURA: I MAESTRI: L’innesto riuscì bene ma Soffici lo rifiutò29 Gennaio 2019
di Dino Buzzati Enrico Vallecchi, proprio il figlio di Attilio Vallecchi, cioè dell’allora tipografo fiorentino di via Nazionale che nel 1909, per cinquanta lire, stampò il primo libretto di Ardengo Soffici intitolato Ignoto Toscano, ha ora dedicato all’artista, nelle sue « Nuove edizioni », un sontuoso volume che costituisce «un primo contributo alla sistemazione definitiva dell’opera pittorica di Soffici». Contributo costato quattro anni di lavoro e che ha già un ottimo impianto di completezza. Realizzato con la collaborazione della galleria Michaud, il libro si apre con due saggi critici. Il primo, di Giuseppe Raimondi, si concentra con acutezza sugli influssi che il periodo di Parigi e la frequentazione di tanti artisti stranieri a cominciare da Picasso avevano esercitato su Soffici e specialmente sul suo periodo cubo-futurista, che termina con la prima guerra mondiale. Su tutto il resto della lunga parabola parla invece diffusamente e autorevolmente Luigi Cavallo, che ha compilato anche una accurata biografia e ha seguito dal principio alla fine l’arduo lavoro, arduo perché si trattava di impiantare di sana pianta il catalogo, di fare quindi lunghe e spesso complicate ricerche. Sono 164 pagine di testo e 366 tavole che, a colori e bianco e nero, riportano tutte le 623 opere, finora registrate, di questo « testimonio imbarazzante dell’arte moderna italiana », come lo definisce Raimondi. Non ha certo bisogno di essere rivelato Ardengo Soffici uomo, scrittore e pittore. Il volume rappresenta prima di tutto un doveroso omaggio a una delle personalità più vive, aperte e intelligenti che la vita culturale italiana ha avuto in questo secolo, e costituisce un insostituibile documento per la nostra storia dell’arte. Tuttavia la riproduzione, in linea cronologica, di tutti i lavori finora accertati, offre un panorama estremamente interessante perché, se non procura sorprese a chi conosce bene il pittore di Rignano sull’Arno, fa però risultare con nuova e impressionante evidenza le vicende della sua grande avventura cubista (più che futurista). Racconto senza parole di come un uomo coraggioso e d’ingegno inquieto, insofferente per natura delle antiche regole scolastiche, sia partito all’esplorazione di una terra che già altri avevano cominciato a scoprire, vi abbia compiuto una felice peregrinazione, ma ad un tratto, disprezzando la fama così conquistata, abbia fatto repentinamente ritorno in patria e qui vi sia rimasto per sempre, riconoscendo che soltanto nell’aria nativa egli poteva realizzare fino in fondo se stesso. Ecco la dimostrazione di un carattere fortissimo e sdegnoso, ecco un’esperienza, forse unica, che può servire di esempio a tanti artisti d’oggi i quali, deviando dalla loro genuina natura per legittimo desiderio del nuovo, per influsso d’ambiente, per impazienza di successo, per indulgenza alla moda, assumono veste e linguaggio suggeriti da altri, e magari approdano così a opere valide, ma quando si rendono conto di non essere stati del tutto sinceri, per debolezza, o vergogna, od ostinazione, o paura di dover ricominciare da capo non riescono più a districarsi dalla nuova abitudine e smarriscono quindi l’autentico succo del loro talento. Nelle pitture dì Soffici, fino al 1911, sono abbastanza evidenti le suggestioni dei maestri francesi visti o frequentati a Parigi, dal 1900 al 1907; specialmente Millet, Cézanne e Degas. Ma è del 1912 il gran salto. Come mai non lo fece prima? Non c’è dubbio che delle prime esperienze cubiste, di Picasso e Braque, non solo Soffici era perfettamente al corrente pur non avendovi assistito di persona, ma ne aveva assimilato i propositi, il significato, l’importanza, prova ne sia l’estrema chiarezza con cui li espone in Cubismo e oltre, del 1913. È più che probabile che nel suo animo, per indole portato alle imprese audaci e alle fratture eversive, i pionieri di quella rivoluzione pittorica avessero dato una forte scossa. E che fermentasse in lui la voglia di entrare anche lui nella lotta. Ma, storicamente, egli si buttò solo quando «anche la Toscana fu investita dalla ventata futurista che giungeva da Milano» per ripetere le parole di Cavallo. A queste provocazioni poteva egli rimanere ancora inerte, con tutto quel vulcano di idee che si sentiva ribollire in testa? Così, dopo aver attaccato con la penna Marinetti e soci, dopo essersi accapigliato con loro al Caffè delle Giubbe Rosse e alla stazione di Firenze nel giugno 1911, Soffici entrò ufficialmente nelle file futuriste. Ma, se è vero, come ha scritto Roberto Longhi, che il futurismo sta al cubismo come il barocco sta al rinascimento perché «il barocco non fa che porre in moto la massa del rinascimento», se insomma il moto, la velocità, il dinamismo furono dei futuristi la bandiera, bisogna allora ammettere che le opere di Soffici si apparentano molto più a Picasso che a Boccioni e agli altri del gruppo italiano. Proprio sfogliando le tavole del nuovo volume si ha l’impressione — absit iniuria.verbis — che nel 1912 in Ardengo Soffici fosse stato realizzato un innesto. Innesto straordinariamente fortunato sia per la classe dell’operatore, cioè di lui Soffici, sia per la particolare affinità fra l’organo trapiantato e l’organismo che lo riceveva. Niente di falso o stentato per ciò nei dipinti che vanno dal 1912 al 1915. Soffici aveva fatto immediatamente suo il nuovo modo di vedere e rappresentare le cose; e alle scomposizioni analitiche degli oggetti conferiva una indubbia originalità, con una gioia dei colore che il cubismo parigino ignorava e con un’ impronta, talora, spiritosamente popolaresca. Tanto che quei pezzi, per l’intrinseco valore artistico, oltre che per l’interesse storico, hanno oggi raggiunto quotazioni altissime. Poi la paura, quasi assoluta, della guerra. Ed è stato indubbiamente durante la guerra il grande ripensamento, la segreta crisi di « rigetto ». Come le pitture cubiste cominciano all’improvviso, così all’improvviso cessano; né all’inizio né alla fine si nota un nesso di continuità, uno sviluppo, una graduazione. La bordata delle quattro nature morte del 1919 e 1920 (N. 235, 236, 237 e 238), su cui giustamente Raimondi indugia con ammirati accenti, sembrano la salva trionfale che annuncia la completa liberazione. Dopodiché, con inflessibile coerenza, Soffici proseguirà per la strada che il Cielo gli aveva destinata. Né si volterà indietro mai,
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