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PITTURA: I MAESTRI: Lotto: Un solitario confessore del suo tempo27 Luglio 2017
di Rodolfo Pallucchini La storiografìa artistica moderna ha mostrato un certo diÂsinteresse verso le vicende umane dell’artista: come se quelle vicende, cioè i rapporti tra il creatore e il proprio tempo, non costituissero una base preziosa per la comprensione degli aspetti spirituali e umani della sua personalità . Non che tutti gli artisti ci interessino, come uomini, allo stesso modo: qualÂche volta il distacco tra la “condizione umana” e la creazioÂne artistica è evidente. Poche volte invece nella storia, l’arte e il suo creatore si sono così identificati come nel caso di Lorenzo Lotto. Documento prezioso per seguire di giorno in giorno le sue vicende dal 1538 al 1549 è il Libro di spese diverse, che Adolfo Venturi pubblicò nel 1895. Nel 1969 lo Zampetti ripubblicò l’edizione critica di tale diario insieme con le lettere inviate dal Lotto dal 1524 al 1536 al ConsorÂzio della Misericordia di Bergamo (edite per la prima volta dal Chiodi nel 1962), e con altri documenti autografi. Il Libro di spese diverse è un documento che non ci da solo la contabilità delle sue modeste entrate e uscite, ma dove egli ci ha lasciato uno specchio prezioso di se stesso, del suo temÂperamento, della sua cultura, di quella bontà d’animo che divenne proverbiale. Non lo aveva chiamato uno dei geniali avventurieri del secolo, Pietro Aretino, profondo conoscitore di uomini: “Lotto, come la bontà buono, come la virtù virÂtuoso”? Il diario ci testimonia anche la profonda religiosità del Lotto, che costituisce veramente uno dei motivi dominanti della sua spiritualità inquieta. Questo sentimento, che si espriÂme con un’intensità neomedievale in tante sue opere, non è pietismo né zelo in anticipo sulla controriforma: semmai è una piena adesione a una rinascita di valori religiosi, un deÂsiderio di ritorno alle fonti evangeliche, che si rivelano aspiÂrazioni sincere di quei ceti medi e popolari con i quali egli si mescolava per il suo lavoro quotidiano. È necessario per un momento soffermarci sulla religiosità del Lotto, che costituisce certamente il nucleo portante della sua ispirazione artistica. Non solo fu ritenuto dalla critica (Banti, 1953; Berenson, 1955) il pittore più altamente reliÂgioso del Cinquecento veneto, ma anche il più vicino all’ereÂsia luterana. Oltre all’episodio, documentato dal suo diario, di aver procurato due ritratti di Luterò e di sua moglie alÂl’amico di un nipote, altri elementi si sono aggiunti con la pubblicazione delle lettere relative al ciclo biblico delle tarsie per il duomo di Bergamo. Il contrasto che sorge con il Consorzio circa l’interpretazione di alcuni temi biblici e che inÂduce il Lotto alla replica “sono di natura et religion christiana, et chi se ingana suo dano” è significativo: in quanto poÂstula una libertà d’interpretazione male accetta a Gerolamo Passi, giureconsulto e ministro della fabbriceria bergamasca. Si può accettare l’osservazione della Banti che il Lotto fu l’unico artista che dinanzi alla riforma dimostra “di esserne almeno tormentato, senza tradire la propria pia vocazione”. Come pure si può esser d’accordo col Berenson che molte opere del Lotto sono permeate da quel senso di carità , di proÂfonda umanità , di sentimento evangelico che spira dalle relaÂzioni del primo nucleo teatino, dalle lettere del Fole e del Contarmi. Nel clima d’una pietà risorgente, attiva e beneÂfica, emblematico è l’impianto figurativo della pala per i doÂmenicani dei Santi Giovanni e Paolo (1542) che mette in scena sant’Antonino cui gli angeli trasmettono le suppliche di una folla anonima, composta di “creature d’ogni giorno, vedove e zitellucce, poveri vergognosi” (BanÂti), cioè dei rappresentanti più umili di una società , certaÂmente i più adatti alla penetrazione di idee riformiste, sopratÂtutto delle sette anabattiste. *  *  * La sostanziale renitenza del Lotto, prima alla riforma toÂnale di Giorgione poi al classicismo cromatico di Tiziano, alÂl’idealismo neoplatonico del primo e quindi al naturalismo aristotelico del secondo, pose subito l’artista ai margini del gusto dominante a Venezia, dove probabilmente nacque verso il 1480: la sua vicenda umana si risolve in un lungo pelleÂgrinaggio da Treviso a Recanati, da Roma a Bergamo, da Venezia ancora nelle Marche, dove si spense nel 1556. NatuÂralmente il Lotto non poteva piacere alla critica ufficiale del tempo: il Dolce (1557), il panegirista di Tiziano, cita la sua pala del Carmine come un esempio di cattive tinte. Il Vasari (1568) ne parla assieme a Palma il Vecchio, agÂgiungendo cenni sul Rondinelli e su Francesco da Cotignola: una rassegna insomma di artisti provinciali. Se rari sono gli accenni del Boschini, il massimo critico del Seicento, lo Za-netti, che è uno dei più acuti del Settecento, lo cita senza entusiasmo, allo stesso livello d’un Palma o d’un Rocco Marconi. Peggio il primo Ottocento, neoclassico e accadeÂmico. Insomma la critica contemporanea all’artista e quella dell’età barocca non furono in grado di apprezzare il signiÂficato del messaggio creativo lottesco: e non lo furono proprio perché il nucleo più intimo e profondo della sua arte, quel tanto d’inquieto, di malinconico, di allucinato che la sostanÂzia, non poteva combaciare né con il gusto aulico tizianesco, di cui il Dolce si fa portavoce; né tantomeno con quello baÂrocco del Boschini o illuminista dello Zanetti. Toccò all’età moderna di riscoprire il Lotto. Il Berenson, con la prima ediÂzione della sua monografia apparsa nel 1895, gettò le basi durature per un ricupero che, dopo mezzo secolo e più, ebbe la sua consacrazione ufficiale nella mostra allestita dallo Zampetti in Palazzo Ducale nel 1953. Certo manca nel Lotto quell’equilibrio classico tra ragione e sentimento che l’uomo della Rinascenza trovava incarnato in Raffaello o in Tiziano (almeno fino al momento della crisi manieristica): v’è in lui piuttosto un’allucinata fantasia, da uomo ancora medioevale nutrito di umori nordici, che traÂduce in termini figurativi una sensibilità patetica e appassioÂnata, d’un potenziale romantico, almeno in senso moderno. Non è mancato oggi chi abbia definito manieristico qualche atteggiamento del Lotto. Ma non mi pare che si possa inÂcludere in tale normativa il suo gusto, proprio per la manÂcanza di ogni velleità intellettualistica, che abbia impresso alla sua espressione figurativa un andamento più teso e astratÂto. Forse si potrebbe parlare di crisi protomanieristica solo per quello sbandamento che si nota dopo il soggiorno romaÂno del 1509-10 nella Trasfigurazione di Recanati (n. 33-35), caratterizzata secondo la Banti da una “licenza formale ecÂcessiva” motivata dall’incontro con il mondo raffaellesco. Ma tale tensione si scioglie appena il Lotto avrà raggiunto BerÂgamo, in tutt’altro clima artistico. *  *  * Non è chiaro come si formasse il Lotto. Lionello Venturi (1953) lo riteneva, quasi paradossalmente, un autodidatta: ” Con una potenza assimilatrice portentosa, Lotto ha preso da tutti, anche da Dürer, e da nessuno, cioè ha di continuo espresso il suo tono personale in ciò che imitava”. Il Berenson (1895) lo considera uscito dalla bottega di Alvise Vivarini; la Banti (1953), seppur con cautela, affaccia l’ipotesi di una educazione tra i muranesi e il Diana, affiancata a un’attività trevigiana nell’orbita del Pennacchi. Il Pignatti (1953), pur ammettendo un discepolato con Giovanni Bellini, da molta importanza all’incontro a Venezia con il Dürer. Il Lotto è un artista di una impressionabilità visiva ecceÂzionale, quasi morbosa. Non è quindi strano che fin dai primi anni della sua attività pittorica egli accettasse spunti linguiÂstici da alcuni artisti che formavano il complesso clima figuÂrativo veneto nel momento di passaggio tra il Quattro e il Cinquecento. Fin dalle prime opere, eseguite a Treviso, dove sembra fosse già presente dal 1498, si nota un orientamento fondamentale: egli tende a sentire il colore in funzione di un tessuto plastico secondo il gusto di Alvise Vivarini di discenÂdenza antonellesca: non aderisce cioè a quella concezione “tonale”, che sempre più affiora nell’opera di Giorgione e che s’impone tra il 1505 e il 1510 in tanta parte della pitÂtura veneziana. È sintomatico che nella pala di Santa Cristina al Tiverone (1505-06) il Lotto sembra opporsi polemicaÂmente a quella giorgionesca di Castelfranco (1505), contrapÂponendo una struttura a fondo absidale, ispirata alla pala del Bellini di San Zaccaria (1505), a quella liberamente spaÂziale, e già tonale, di Giorgione. Ma mentre il Bellini cerÂcava di ammorbidire, mediante la luminosità che circola nelÂl’abside aperta ai lati sul paesaggio, le figure, che si realizzano con un nuovo senso di falcato e di monumentale, il Lotto riduce a un organismo più serrato la composizione, tendendo a scandirne la volumetria in modo più nervoso e vibrante, mediante la luce proveniente da destra. Il Lotto modella le sue figure su di una realtà più concreta, meno idealizzata di quella di un Bellini. Si comprende subito come dagli inizi il Lotto sia portato a una ritrattistica che sottopone il personaggio a una luce cristallina e tagliente, che sembra indagarne con un’analisi realistica il carattere fisico e morale. Dal ritratto così autoÂritario del Vescovo de’ Rossi (1505) di Napoli a quello di Giovane con lucerna (e. 1506-08) di Vienna, il guÂsto del Lotto si realizza in modo pienamente autonomo. MenÂtre Giorgione imprime ai suoi ritratti quel senso misterioso di sogno, per mezzo di un colore caldo e avviluppante, il Lotto aggredisce i suoi personaggi mediante strutture linguistiche lucide e nervose; li scruta nel loro intimo, li confessa dinnanzi ai nostri occhi con la perentorietà di un linguaggio preciso e scattante. Il Lotto non si sottrae alla temperie umanistica che semÂbrava vanto della cerchia giorgionesca: come documentano l’Allegoria di Washington, che costituiva la coperta del ritratto del Vescovo de’ Rossi, e Plutone con la ninfa Rodi pure di Washington. Si direbbe che alla Tempesta nel paesaggio di terraferma di Giorgione, dipinta in questo torno di tempo, il Lotto contrapponesse la burrasca di maÂre, con la nave naufragata sugli scogli, che s’intravvede nello sfondo dell’Allegoria de’ Rossi. Pure intensa è la suggestione Urica del momento evocato dal pittore nella figurazione della ninfa Rodi: un tramonto che arrossa a sinistra il ciclo. La stessa temperie fantastica circola nell’evocazione paesistica così allucinata e pungente del San Gerolamo penitente (1506) del Louvre: accesa nello sfondo da una luce strana, che ricorda l’Altdorfer. L’opera più complessa che il Lotto realizza in questo suo primo periodo “trevigiano” è certo il polittico di Recanati (1508). Nelle tre tavole prinÂcipali egli crea un organismo unificato mediante la luce che entra da destra, sebbene diviso dai pilastrini delle cornici (in origine più stretti di quelli odierni), che gettano ombra sul pavimento. Lo scomparto centrale ha la sua ragione di essere nella luce radente che imprime all’assieme una tensione parÂticolare di movimento. Il gruppo delle figure non è assorto in una contemplazione distaccata e astratta, come nelle composizioni di Giorgione, ma è rappresentato in azione. Nello scomparto della Pietà , sul fondo nerastro la testa di GiuÂseppe d’Arimatea costituisce un’apparizione allucinante: quaÂlificandosi come una fisionomia desunta da modelli düreriani. Il momento di più intenso dürerismo si evidenzia nella Sacra conversazione (1508) della Borghese. Come nella Pietà di Recanati, sul fondo nero s’intarsiano i colori d’una lucidità senza pari. L’opera rappresenta il momento d’infaÂtuazione düreriana del Lotto: subito arginata dall’esperienÂza raffaellesca romana. Si conchiude così il periodo iniziale del gusto del Lotto, “di una decisione stilistica impressionanÂte, che lascia sentir dietro di sé – entro i suoi limiti – una decisione umana evidente” (Castelfranco, 1953). *   *  * Verso la fine del 1508, forse dalle Marche, il Lotto prese la strada di Roma: per quale motivo non lo sappiamo. ChiaÂmato in Vaticano, si trova a lavorare con il Sodoma e col Bramantino. La loro opera verrà distrutta appena sarà asseÂgnato a Raffaello l’incarico di decorare quelle stanze. Cosa possiamo attribuire a tale momento? Probabilmente il San Gerolamo di Castel Sant’Angelo, per un’ampiezza nuova di orizzonte, e il ritratto dell’orefice Gian Piero CriÂvelli della collezione Getty, modello con un senso di chiaroscuro più morbido. Si avverte che il gusto del Lotto è in crisi: una crisi di trasformazione, d’altra parte necessaria, provocata dall’ambiente romano. È probabile che dopo aver fatto una puntata a Firenze, forse tra il 1510 e il 1511, il Lotto tornasse nelle Marche, memore della buona accoglienza che aveva avuto qualche anno prima a Recanati. In questo momento, così ricco di inÂcontri, il Lotto s’ingrana nel tempo, non puntando su MiÂchelangelo, bensì su Raffaello. Si converte così a un gusto pittorico più ampio e monumentale, articolato nei movimenti dei gesti che suggeriscono un nuovo rapporto tra figura e spaÂzio. L’esito di tale incontro non è certo felice, come dimostra la Trasfigurazione di Recanati (n. 33-35); ma necessario per lo sviluppo del suo gusto pittorico in senso pienamente cinÂquecentesco. Solo nel Nord il sentimento patetico ed affettivo del Lotto riuscirà a trovare il suo ubi consistam. È probabile che negli ultimi mesi del 1512 il Lotto si troÂvasse già a Bergamo (data la provenienza della Sacra famiglia raffaellesca di Princeton, n. 39): l’anno dopo il conte AlesÂsandro Martinengo gli commetteva la pala di San Bartolomeo, terminata nel 1516. A Bergamo il gusto del Lotto ha uno scatto violento: come una fredda folata di venÂto nordico viene a scompigliare il classicismo, poc’anzi acÂcettato senza convinzione. L’aria pungente della Lombardia, così pregna di umori medioevali, era tanto più affine al temÂperamento del solitario e lunatico artista. Nel soggiorno berÂgamasco (1512-25 e.) il Lotto si abbandona a un “misticismo affettivo” (Longhi, 1928), realizzato con un senso magico della luce. Alla componente lombarda (il bramantinismo della struttura architettonica della pala di San Bartolomeo; il leonardismo della Madonna di Dresda del 1518), s’aggiunge verso la fine del secondo decennio un nuovo accoÂstamento all’arte nordica. Prima il Longhi (1928), poi lo scrivente (1944) hanno insistito sui nomi dell’Altdorfer e soÂprattutto del Grünewald. Un tramite con quelle poetiche nordiche, così colme di irrealismo magico, furono probabilÂmente quei pittori svizzeri scesi a combattere in Lombardia con le truppe lanzichenecche, come Niklaus Manuel Deutsch, Urs Graf o Hans Leu, proprio negli anni in cui il Lotto era a Bergamo. Uno dei capolavori dipinti dal Lotto nel suo soggiorno bergamasco è certo la Susanna Contini (1517), che conferma la disposizione dell’artista veneziano alla narrazioÂne, che subordina “l’effetto complessivo a un ordinato sucÂcedersi di fatti nel tempo: con un senso nuovo e moderno di immagini in movimento” (Pignatti, 1953). Quel senso di spaÂzio ampio all’orizzonte è ancora un’eco della cultura dell’ItaÂlia centrale; ma quella luce blanda, primaverile è di un intiÂmismo tutto lombardo. Il Lotto reagisce con violenza a quel momento di effusivo sentimentalismo leonardesco che era culminato nella Madonna di Dresda del 1518. Sarà stata un’occasione qualsiasi che lo avrà messo in contatto con opere nordiche di carattere grünewaldiano: sta di fatto che verso o dopo il 1520 si scaÂtena un’onda di patetismo sentimentale che viene a sconvolÂgere il suo intimismo di poc’anzi. La Deposizione di Sant’Alessandro in Colonna di BergaÂmo assurge al significato di vero e proprio manifesto programmatico, seguito subito dal Commiato di Cristo dalla Madonna (1521) di Berlino: un’opera dove la minuzia del racconto, al quale il Lotto ama abbandonarsi, non conÂtraddice all’assunto così passionale delle figure in primo piaÂno, dentro un ambiente evocato con un senso luministico, che sembra preludere alle ricerche caravaggesche. Dello stesso anno 1521 sono le due pale del Lotto per San Bernardino  e per Santo Spirito: due grandi prove del suo stile così personale ed estroso, patetico e realistico a un temÂpo, dove il colore assume una funzione espressiva di primissimo piano. Il Lotto, che ormai tocca i quarant’anni, è nel pieno delle sue forze. Nella propizia quiete bergamasca egli raggiunge una maturità di accenti, equilibrando i dati della sua così ricÂca e complessa cultura, subordinandoli alla necessità del suo sentimento inquieto e patetico, che si esprime in un canto cromatico d’una purezza e d’una intensità veramente ecceÂzionali. Dipinti di carattere devozionale, come sacre converÂsazioni, figurazioni di santi, si avvicendano a ritratti, sempre più numerosi. Alle Nozze mistiche di santa Caterina (1523), della Carrara, purtroppo mutilato del paesaggio, interÂviene il committente, Nicolò Bonghi, facendo assumere alla rappresentazione un carattere intimo e familiare: l’opera reÂligiosa si colora così di profano, condotta con una certa sovrabbondanza di eloquio e con una molle cadenza di ritmi. Nella tavoletta con la Natività del 1523, a Washington, il Lotto ha saputo immergere la sua immagine in una rustiÂcità campestre tutta naturale, dimessa e vera, ma trasfigurata dalla ricerca di luminosità . Il ritratto di bambina di colleÂzione privata, quello di Lucina Brembate della Carrara, l’altro di Messer Marsilio e la sua sposa (1523) del Prado puntualizzano lo sviluppo della ritratÂtistica lottesca in questi anni. Quella straordinaria capacità di captare sia la successione degli eventi, come la flessione dei sentimenti, permette al Lotto di fissare delle vere e proprie ‘situazioni emotive’, che la duttilità dei suoi mezzi espressivi sanno trasformare in altrettante situazioni stilistiche. Certo opera capitale del Lotto è la decorazione ad affreÂsco dell’Oratorio Suardi a Trescore (1524): ma non bisogna dimenticare le Nozze mistiche di santa Caterina (1524; n. 74), della Galleria Nazionale di Roma, che costiÂtuisce un’altra punta del patetismo così acceso e nordico. Certamente a Trescore l’impresa più nuova è quella della narÂrazione della vita e dei tremendi tormenti a cui è sottoposta santa Barbara. Nei vari episodi, che si susseguono uno accanÂto all’altro, v’è un incalzare di situazioni compositive realizÂzate con un senso del movimento sorpreso e fissato dall’occhio portentoso dell’artista. Il Lotto s’era accorto che l’affresco era un mezzo espressivo che gli si confaceva: che nella sua speÂditezza poteva ottenere effetti corsivi quanto mai propizi per realizzare il racconto, al di fuori di ogni convenzione aulica di carattere diciamo rinascimentale. Prende in lui il sopravÂvento quell’umore popolaresco e nordico a un tempo, di cui aveva già dato esempi. Negli affreschi di Trescore il repertorio figurativo lottesco si arricchisce di figure umili, studiate sul vero: i contadini che mietono e raccolgono le messi e le campagnole con i loro cesti di verdure fresche sulla piazza del paese sono personaggi mediti nella pittura italiana del tempo. È importante che il Lotto si sia accorto di loro, ne abbia dato un’interpretazione così immediata e vivace. Anche il ricordo delle truppe lanziÂchenecche, che avevano scorrazzato in terra lombarda, sembra fluire in questo racconto. Certo il Lotto a Trescore raccontò le vicende di quelle sante “senza unità di visione”, cioè quelÂl’unità suggerita e imposta dalla visione prospettica rinasciÂmentale. Ciononostante mi sembra che il Lotto in tali affreÂschi liberandosi di quei canoni e dando retta a un impulso genuinamente popolare, in clima di gusto essenzialmente lomÂbardo, abbia fatto opera di grande artista, proprio seguendo quella sua ispirazione che sfugge da ogni regola metodica, da ogni imposizione precostituita. Il Lotto aveva dato inizio nel 1524 a un’altra grande impresa, quella dei modelli grafici per le tarsie lignee del coro di Santa Maria Maggiore (n. 87-150), terminati poi a VeÂnezia nel 1532. Un lungo esercizio di narrativa in termini disegnativi fu l’impegno del Lotto per i cartoni delle tarsie di varia grandezza per tale chiesa. Agli affreschi di vena così spigliata di Trescore, il Lotto veniva accostando questa serie di episodi biblici di una fantasia scenica inesauriÂbile. Il tono di tale narratività è ben diverso da quello aulico e compassato, in senso rinascimentale, tenuto in quegli anni da Tiziano: è una narrativa estrosa, e di carattere spigliato e popolare, come si conveniva alla destinazione delle tarsie. Ma a Bergamo la nostalgia del Veneto si fece sentire: e il Lotto non poté soffocarla. Il 20 dicembre 1525 (Chiodi, 1962) egli giungeva a Venezia per rimanervi alcuni anni. Seguì il suo destino: e la sua pittura mutò ancora nell’espresÂsione linguistica, pur conservando intatto quel sentimento e quei contenuti. Le lettere che il Lotto invia da Venezia al Consorzio della Misericordia Maggiore di Bergamo ci illuÂminano sul soggiorno veneziano: si apprende da esse che egli conduce una vita ritirata, modesta, da artigiano, spesso imÂpigliato in ristrettezze, ospite nel convento dei domenicani dei Santi Giovanni e Paolo. Annunzia viaggi nelle Marche poi rinviati: mentre invece parla di spedizione di opere. Come pure continua a dipingere opere per il bergamasco. Tra la pala con la Madonna e due santi di lesi (n. 169-170) del 1526 e la pala del Carmine di Venezia del 1529, si possono collocare il polittico di Ponteranica, l’Annunciazione di Recanati, la Natività di Siena (n. 189): cioè opere capitali del gusto lottesco, nelle quali, respingendo le lusinghe del tonalismo lagunare, il Lotto acÂcentua le sue ricerche luministiche. La Natività di Siena è uno dei primi notturni dell’arte italiana: non ha niente a che fare con l’incupimento atmosferico che diviene notturno, in senso tonale, creato dalla pittura veneziana tra il 1560 e il 1570 (Tiziano, Veronese, Bassano). Approfondendo l’espeÂrienza della lunetta con le Stigmate di san Francesco della pala di Iesi, il Lotto crea una scena d’interno illuminata violentemente dalla luce irradiata dal bimbo che la Vergine e la vecchia nutrice stanno immergendo in un bacile. Anche nel polittico di Ponteranica l’Angelo e la Madonna annunÂciata vibrano di luce irreale. L’angelo è una delle creazioni più alte e liriche della fantasia del Lotto: come Grünewald, egli traspone ciò che è corporeo nella sfera del visionario. Solo l’esperienza romana aveva potuto dare al Lotto la certezza di uno spazio prospettico così rigorosamente costruiÂto come nell’interno dell’Annunciazione di Recanati: ma l’accensione di quel colore nella luce e l’azione miracolosa, colta nell’attimo fuggente, imprimono all’opera un andaÂmento più visionario. Se l’Adorazione dei pastori di Brescia denota rapporti col Savoldo, il Lotto in questo moÂmento sembra recepire sollecitazioni dal Pordenone, che lo inducono a ritmi monumentali talvolta insistiti. Nonostante che una certa magniloquenza alla Pordenone s’insinui nei santi della pala del Carmine, il brano di natura sottostante è stato definito dal Longhi (1928): “II più puro paesaggio della pittura italiana del Cinquecento”. Questa pala però non piacque negli ambienti artistici veneziani, come ci docuÂmenta il Dolce nel 1557. Tale insuccesso doveva certo amareggiare il Lotto e forse sospingerlo a quel viaggio nelle Marche, che aveva per qualÂche anno rinviato. Si datano infatti tra il 1530 e il 1532 un gruppo di opere devozionali tuttora esistenti nelle Marche: tra le quali la grande Crocifissione di Monte San Giusto (n. 201), appunto dipinta a Venezia e completata sul posto con il ritratto del committente, il vescovo Nicolò Bonafede. La vena narrativa di evidenza popolare, che è uno dei caÂratteri fondamentali del gusto lottesco, e il senso profondo di religiosità proprio del suo sentimento, spingono l’artista a comÂporre la scena in maniera tanto drammatica e patetica a un tempo. La pala di Santa Lucia di Iesi del 1532 è ambientata in un effetto di notturno, che imprime ai colori un viraggio diverso. Non solo, ma tra la sua ispirazione paÂtetica, stravagante e perfino bizzarra e i suoi mezzi espresÂsivi — un colore svolto in quella misteriosa luce fredda e notÂturna – raggiunge un equilibrio che certo mancava alla CroÂcifissione. È un’opera piena di particolari gustosi imprevisti, quale la statua sulla porta della chiesa sgusciata in una mateÂria pittorica impalpabile; o l’episodio della negra che tratÂtiene un putto sgambettante. Negli scomparti della predella la narrazione acquista un andamento più corsivo, mediante un alitare di ombre e di luci di pieno carattere luministico. Non c’è dubbio che la ritrattistica del Lotto ha dato le sue pagine più intense, direi più ricche di commozione, in questi anni. Dopo il suo ritorno a Venezia, sembra questo il genere che trova i maggiori consensi. Il Lotto fra le lagune prendeva conoscenza della ritrattistica tizianesca: forse da questo contatto, come osserva il Pignatti, nasce la necessità di ” allargare la tessitura cromatica, oltre i limiti sottili del diseÂgno”. Il linguaggio lottesco va arricchendosi di una sempre più morbida modellazione cromatica, che permette l’evocaÂzione del personaggio nel suo ambiente. Si apre così una delÂle più intense stagioni della ritrattistica lottesca, dal Giovanetto del Museo del Castello di Milano, che coglie uno dei modelli sofisticati e un poco bizzarri che piacevano all’artista, al Gentiluomo sulla terrazza di Cleveland (1525), dall’Andrea Odoni di Hampton Court (1527) al Gentiluomo nello studio delle Gallerie veneziane, dalla Gentildonna in veste di Lucrezia di Londra al cosiddetto Autoritratto della Borghese. Sono tutti personaggi che non appartengono alla classe sociale dalla quale Tiziano trasse i modelli della sua ritrattistica aulica e di parata. Sono uomini che non fanno la storia, ma che hanÂno la loro storia. E il Lotto sa scrutarli e confessarli nei loro sentimenti più intimi e segreti: cogliendo in loro una inquieÂtudine, una pena d’amore, un trasalimento di cupa mestizia, un sorriso malizioso, un momento di spensieratezza, che ce li rende subito familiari, vicini, dimodoché noi possiamo parÂtecipare ai loro sentimenti, alla loro vita interiore. La novità di questo momento è che il Lotto viene impaÂginando la figura nello spazio in cui vive dentro una nuova dimensione: uno spazio che non è solo fisico, ma psicologico. Nel ritratto dell’Odoni, il Lotto coglie l’antiquario e umanista veneziano nel suo studio, pieno di oggetti d’arte e di antiÂcaglie, creandogli attorno, con intensa suggestione, il clima a lui familiare. La figura è evocata nel suo ambiente in un quid luminoso misteriosamente graduato nei passaggi di omÂbra e di luce. Nel Ritratto delle Gallerie veneziane un gioÂvane, in una stanza già soffusa di tenebre, mentre l’ultima luce di un crepuscolo freddo si spegne all’orizzonte, alza il viso affilato, esangue, dal gran libro che tiene aperto sul taÂvolo: sul quale si vedono una lettera piegata, petali di rosa, e uno scialle azzurro con una lucertola. Quello sguardo, quel viso emaciato, quel gesto e quegli oggetti stanno a ricordare la pena di un amore sfiorito, forse l’ombra di una delusione cocente. Anche nel suggestivo ritratto londinese il Lotto coÂglie il personaggio femminile nel suo ambiente: una eleganÂtissima giovane donna, forse Lucrezia Valier, è sorpresa nel gesto di tenere nella sinistra una stampa di Lucrezia che si trafigge. L’immagine suntuosa si costituisce nello spazio meÂdiante morbidi risalti di luce. Patetico l’Autoritratto della Borghese, colto nella stanza che si apre su di un paesaggio a luci fredde, mentre appoggia la destra sul tavolo, dove un piccolo cranio è circondato da petali di rosa. Pale d’altare per le lontane province bergamasche e marchigiane, una sola, e con esito infelice, per Venezia, altre opere devozionali per committenti privati, rarissimi dipinti profani, in compenso molti ritratti: questo il bilancio di un’atÂtività senza sosta, che dagli inizi del 1526 arriva fino alla prima metà del quarto decennio: in parte svolta fra le lagune e in parte nelle Marche. Verso la fine di tale periodo il colore del Lotto indubbiamente viene smorzandosi, perdendo cioè quella smagliante integrità di timbro: preludendo a quella che potrà dirsi “l’integrazione” alla cultura figurativa lagunare. Si potrebbe scegliere come momento discriminante tra il periodo della maturità e l’ultima fase espressiva del Lotto quella sottile svolta che s’avverte a partire dalla Sacra famiÂglia degli Uffizi (n. 219) del 1534: più minuta di segno, di colore più freddo, avviata a una fase di stile che certo avrà i suoi momenti ancora felici, ma anche le sue pagine di stanÂchezza. La carriera artistica del Lotto non è insomma quella di Tiziano, cioè contrassegnata da una vecchiaia certo più “progressista” della giovinezza: un uomo debole e inquieto come il veneziano, sinceramente e profondamente religioso, non sa reagire alle difficoltà dell’esistenza e alla fine si dà per vinto, finendo ” oblato ” a Loreto. Come ha messo in evidenza il Berenson, nel quarto decennio e dopo converge a Venezia quel movimento di pensiero religioso che postula il ritorno a una fede più schietta, in consonanza col movimento luterano. Il Lotto, come s’è detto, visse certamente questo intenso moÂmento della spiritualità religiosa veneziana e la espresse con tutto il suo acceso sentimento, come dimostra la Madonna del Rosario di Cingoli (1539), intonata ormai su colori smorzati e freddi (e nei cui Misteri il suo ‘macchiettismo’ si connota prodigiosamente vivace) o l’Elemosina di sant’AntoÂnino dei Santi Giovanni e Paolo, dipinta ancora a Venezia nel 1542 prima di trasferirsi a Treviso (1542-45) presso il compare Giovanni dal Saon. È probabile che spetti a tale momento quel capolavoro profano che è la Toeletta di Venere (n. 229) di collezione privata bergamasca: una conÂcezione casta e platonica della bellezza femminile in contraÂsto evidentemente con l’esaltazione pagana che Tiziano fa del nudo femminile. Nella luce fredda dell’imminente crepuÂscolo, sullo sfondo silente del giardino, il gruppo dei corpi nudi si compone in un fluttuare melodioso di cadenze allaccianti una figura all’altra, mentre al suolo, tutt’attorno, quel ritmo sembra espandersi nei panni sinuosi, che formano macÂchie vive di colore, e, nella profusione di quegli oggetti di toilette, altrettante preziose nature morte. Altre opere di questo momento trevigiano (1542-45) e del ritorno a Venezia (1545-49) si vanno caratterizzando per una sempre più pungente vena mistica, come il Cristo con i simboli della passione di Vienna, esemplato sul calÂco di un bronzo del Sansovino, il San Gerolamo penitente della Galleria Doria o l’altro del Prado, conÂnotati da un patetismo quasi espressionista, la Pietà di BreÂra, condotta con modi un po’ trasandati, nonoÂstante la ricerca espressiva quasi spasmodica. Non dicono più nulla di nuovo le pale d’altare già in Santa Maria della Piazza di Ancona, quella di San Giacomo dell’Olio (1546) di Venezia, la Madonna in gloria di Mogliano), posta sull’altare nel 1548. Nel corso del quinto decennio il Lotto va realizzando la sua ritrattistica su schemi più equilibrati, in un colorismo più fuso ed intonato atmosfericamente: si potrebbe parlare di capitolazione dinanzi a Tiziano, ma si tratta di un incitaÂmento sul piano linguistico, che lo indirizza verso una magÂgiore fusione cromatica, che non comporta affatto la rinunÂcia dei suoi contenuti spirituali. Il Trentasettenne della DoÂria di Roma (n. 235), dalla Banti chiamato “il gran malinÂconico”, l’Uomo di mezz’età , con i simboli che penÂdono dal festone dietro il capo, del Museo di El Paso, il Febo da Brescia e la consorte Laura da Pola (1543 c.) di Brera, il Gentiluomo con guanti dello stesso istiÂtuto, il Chirurgo Stuer col figlioletto di Filadelfia, il Fra Gregario Belo da Vicenza (1548) del Metropolitan, costituiscono una galleria coerente di ritratti, non certo fastosi ma intimi nella sottile ricerca di dialogo psicologico. Nel ritratto di fra Belo non manca un inserto allusivo, la Crocifissione, che sembra una citazione dal Grünewald. Proprio nell’accostamento allo strumento linguistico tonale di Tiziano si evidenzia il carattere particolare della ritrattistica lottesca, che si connota per la sua sottile e malinÂconica penetrazione psicologica. Nei primi mesi del 1550 il Lotto da Venezia passa ad Ancona, portando con sé un certo numero di dipinti, che mette in lotteria sperando di ricavarne almeno 400 scudi: ma la vendita ne fruttò meno di 40! Continua a dipingere ritratti, dipinti devozionali e allegorie morali e religiose. Ma sempre con minor fortuna. Il pubblico ormai gli volta le spalle. L’Assunta, eseguita tra il 1549 e il 1550 per San Francesco delle Scale, non si può certo considerare un’imÂpresa felice, tutta esterna e retorica com’è. Il Lotto trascorre a Loreto gli ultimi quattro anni della sua esistenza. La voce gli si era quasi completamente abbassata: anche la vista gli era diminuita. Ma la sua volontà non cedeva. L’8 settembre ’54, nel giorno solenne della Madonna, egli si faceva “oblato” della Santa casa: “Per non andarmi avolgendo più in mia vecchiaia, ho voluto quetar la mia vita in questo santo locho: et fattomi oblato a perpetua vita mia, (ho) donato me con ogni mia sustantia, provedendomi la casa de ogni mia necessità vitto e vestito perpetuo…”. Egli doveva esser considerato come un canonico: inoltre i frati dovevano pregar per lui come benefattore e passargli un fiorino al mese. Nell’autunno 1556 il Lotto si spegneva, lontano dalla sua città natale, in quella terra marchigiana che già aveva visto i primi segni del suo genio. Nel Palazzo Apostolico di Loreto si conserva un gruppo di dipinti del Lotto riferiti per lo più agli anni della sua dimora lauretana: si tratta di opere abbastanza deboli e scolastiche, dove non manca forse l’intervento di qualche garzone. Un’opera si stacca dalle altre: la Presentazione al tempio forse incompiuta per la morte. Già nei tondi della pala di Cingoli si notava un pittoricismo a colature di colore, che venivano a dissolvere l’integrità della forma: per di più la pennellata “abbozzante” imprimeva ai volti un alcunché di inquieto. Nei ritratti di Brera d’altra parte il colorito lottesco si andava orientando verso una tecnica a macchia, dissociandosi in un pittoricismo frazionato allo scopo di accrescerne la luminosità pulviscolare. Mi semÂbra che in tale dipinto il Lotto abbia ripreso quelle riÂcerche portandole a un coerente svolgimento. I colori sono spenti, visti come attraverso a una lente sfocata: i visi, un poco allucinati, sono tracciati a macchie di colore. La PreÂsentazione al tempio è l’opera che certamente riscatta gli ulÂtimi anni affannati e stanchi dell’attività del Lotto. In lui è commovente questa ricerca “ansiosa ed inquieta di nuovi mezzi d’espressione”: sta a significare che egli sentiva l’imÂpasse in cui il suo gusto s’era venuto a trovare: ed è un generoso modo di uscirne. Lorenzo Lotto è certo una grande personalità artistica che ha la sua parte significativa nel quadro della cultura pitÂtorica veneta della prima metà del Cinquecento: un artista singolarissimo per gli esiti formali che ha saputo raggiungere in disparte dalla civiltà tonale lagunare, e per il significato spirituale della sua visione. La sua modernità consiste nell’averci rivelato l’inquieta intimità dell’uomo del CinquecenÂto: in questo senso il Lotto fu il confessore più sincero del suo tempo.
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