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PITTURA: I MAESTRI: Ore magiche di De Pisis8 Maggio 2014
di Dino Buzzati Verona, luglio. Duecentocinquanta dipinti, oltre cento disegni, tutte le cinquantotto litografie. Questa, che Licisco Magagnato ha allestito nel palazzo della Gran Guardia, è la più vasta mostra che si sia mai vista di Filippo De Pisis. Un panorama che va dal 1914 quando il pittore aveva diciott’anni, a un anno prima della morte (1954) quando era ricoverato a Villa Fiorita; e che per la sua completezza — se mai, è fin troppo ricco, dando luogo a ripetizioni forse superflue — offre una occasione unica per osservare in ogni aspetto lo straordinario fenomeno, per distinguere, per capire. Si inaugura domani, sabato, e rimarrà aperta fino al 21 settembre. IL REBUS DEI FALSI. — Si può dire che non esista casa della nostra borghesia, anche modestamente agiata, che non abbia il suo De Pisis, per lo più un vasetto di fiori. Quanto ha dipinto il maestro ferrarese? Gli specialisti, come appunto Magagnato — che insieme con Manlio Malabotta, per le litografie, e Sandro Zanotto per l’antologia letteraria ha fatto il magnifico catalogo — o come Guido Ballo, autore della più poderosa opera monografica (Edizioni lite, 1968), calcolano la sua produzione, proverbialmente torrenziale, a non più di seimila quadri; a cui fa corona una speranzosa massa di circa diecimila falsi, alcuni dei quali di assai pregevole fattura. Tra il vero e il falso, purtroppo, il confine non può essere sempre tracciato nettamente neppure dai competentissimi. Si sa infatti che, per pura bontà, De Pisis qualche volta non rifiutasse la firma, e magari qualche ritocco, a quadri eseguiti da giovani amici. E lui stesso talora non era in grado di formulare una sicura diagnosi. Nella galleria di Carlo Cardazzo una volta trovò un suo mazzo di fiori. « Bello, bellissimo — esclamò, spiritosamente immodesto. — Però confesso che non mi ricordo di averlo dipinto ». Ed era più che genuino. Sempre a Venezia, il pittore Domenico Varagnolo, che poi non ne fece mistero, scommise con alcuni amici increduli che sarebbe stato capace di fare un De Pisis così attendibile che l’artista l’avrebbe firmato volentieri. Era un mazzetto di fiori di campo con una scatola di fiammiferi e una campanella. Come lo vide, « Nessuno spero negherà che sia un bel quadro — fece, compiaciuto, De Pisis —. La si sente suonare quella campanella! » e, convintissimo, mise la firma. IN RIALZO. — Questo pasticcio dei falsi, in certi casi inestricabile, ha il suo riflesso sul mercato dove, relativamente, le quotazioni di De Pisis non hanno compiuto il folle volo che ha portato alle stelle, e chissà dove condurrà, vari altri pittori pur meno famosi. Ma recentemente hanno fatto un notevole balzo. Mi diceva Magagnato che, iniziando l’anno passato il lavoro per questa mostra, aveva calcolato a circa un miliardo l’assicurazione complessiva. Sei mesi fa ha dovuto portarla a due miliardi. Le quotazioni che fino a poco prima oscillavano dai tre ai sei milioni (per opere di una certa importanza si intende), erano salite rapidamente al comprensorio tra i sei e i dodici. Ed è probabile che questa stessa mostra veronese, richiamando l’interesse anche di molti collezionisti e critici stranieri, contribuirà a un altro scatto in su. METAFISICO? — A me, e ad altri che come me l’hanno già vista, la mostra ha chiarito alcune idee. Per esempio il problema della cosiddetta « componente metafisica », sostenuta intensamente da Guido Ballo. In senso stretto — se non sbaglio — pittura metafisica si ha quando un soggetto è rappresentato veristicamente ma con una arcana trasfigurazione per cui emana un sentimento di mistero, di inquietudine, di attesa, di sospensione, quasi contenesse un segreto. E fra le caratteristiche formali di tali opere, due sono tipiche: primo, la precisione, quasi pedantesca, quasi burocratica, con cui la cosa è descritta; secondo, la immobilità assoluta (immobili sono i trenini, laggiù, nelle piazze d’Italia di De Chirico, immobili perfino gli sbuffi di fumo, quasi congelati da un sortilegio). Ora è indubbio che De Pisis, frequentando nel 1916 De Chirico, Savinio e Carrà, abbia sentito intensamente il fascino dell’atmosfera metafisica e abbia sperato di realizzarla a sua volta. Ma il suo linguaggio naturale non era propizio. Tra l’altro, un suo carattere, inconciliabile col metafisico, è il movimento, la vibrazione di vita, quel perpetuum mobile per cui le cose da lui dipinte non conoscono la stasi, l’immota attesa, l’estasi pietrificata. Le sue tele più personali e ispirate sono percorse da fremiti, raffiche di vento, squilli di tromba, confuse grida, squittii, schioppettate, clacson, tonfi d’acqua, musiche, crepitii, sbattimenti d’ali, le nubi fluttuano e si rompono, gli uccelli attraversano il cielo, le vele si spostano, il mare palpita, le ombre vanno e vengono. Può essere metafisico questo? LA CARICA FANTASTICA. — Il fatto è che, come il termine surrealismo è stato allargato, da Breton stesso, a fenomeni che, secondo un criterio di rigorosa ortodossia, gli sarebbero stati affatto estranei, così è lecito intendere l’arte metafisica in senso più lato, De Pisis medesimo del resto la concepiva (pag. 85 del catalogo) come sinonimo di pura e semplice poesia. E a Guido Ballo si finisce così per dar ragione. Ma forse più appropriato di metafisico, il termine « magico ». La sua grandezza, secondo me, sta infatti nel rappresentarci il mondo non come appare ai nostri occhi, ma come lo ricorderemo. Lo stesso Mauriac, citato da Magagnato, diceva che il mare e le spiagge, nei migliori quadri di De Pisis, « Sono reali come i ricordi ». Dalle cose che gli stavano dinanzi, egli riusciva a estrarre importanti succhi poetici, non già con un procedimento impressionistico bensì attraverso una elaborazione più filtrata e complessa. Altro che impressionista. La giusta definizione, se mai, è pittore fantastico. Là dove questo suo dono si esplica meno, dove la trasfigurazione non si compie, e la realtà risulta più ferma e consueta (vedi il primo periodo romano, la maggior parte dei ritratti, la maggior parte dei disegni di figura) il livello è nettamente inferiore. Si vedano invece certe vedute di città che mi sembrano tra i suoi capolavori in senso assoluto (per esempio il Ponte sulla Senna n. 70, il Lungosenna agli Invalidi n. 90, il Passaggio dell’Odèon n. 136, la Londra col Big Ben n. 160, il Pont Neuf a Parigi n. 171, le due Piazze San Marco n. 216 e adiacente), alcune lievitanti e levitanti nature morte come i numeri 37, 44, 51, 73, 86, 117, 99, 111, 192, e la miracolosa « Penna sulla spiaggia » dove, emergendo d’improvviso dalla fatale dissoluzione della malattia mentale, l’artista ritrova ad un tratto l’estro, il genio, la forza degli anni felici. IL SEGRETO. — Ecco come egli arriva al mistero e alla magìa. Le spiagge, le cose, gli uomini, le strade, i palazzi non hanno la finitezza e consistenza della realtà, ci riappaiono intensi, inconfondibili e vivi, però coi contorni vaghi, rotti, sfrangiati, senza ombre nette, come nel regno della memoria e dei sogni. Il mistero qui non è il subdolo e minaccioso incantesimo delle muse inquietanti, è lo stesso mistero della vita, anche nelle sue espressioni più esteriori, aperte e teatrali; ed è anche il mistero della perenne agitazione, di anno in anno più intensa, pur nelle stagioni ricche e fortunate, pur in mezzo alle più liete, care e stimolanti compagnie, che dentro di lui fermentava, e mirabilmente si traduceva sulle tele in quella febbre, carica elettrica, incoercibili fremiti, scatti, brulichìo di luci, case, alberi e creature viventi, gibigianne, tic, ammiccamenti, sussulti, convulso ritmo, nembi, fantasmi. Quasi che, lui cercando di fare suo il mondo, il mondo gli sfuggisse, sbriciolandosi tra le mani in un pullulare frenetico di frammenti, guizzi, schegge, e le sue mani riuscissero sì a tenere quei preziosi lembi della vita ma, vittorioso, lui alla fine ne restasse fuori, escluso, irrimediabilmente solo (come tutti i veri artisti, del resto). Letto 1319 volte.
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