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PITTURA: I MAESTRI: Pierre Bonnard. Ammirava troppo Matisse per credersi un grande pittore21 Marzo 2019
di Francesco Vincitorio Dopo la memorabile mostra del 1955 alla « PermanenÂte » che, in un certo senÂso, rappresentò la scoperÂta di Bonnard da parte del granÂde pubblico, si può dire che il pittore francese a Milano sic: un po’ di casa. Per cui è comprensiÂbile che in questo suo centenaÂrio della nascita, accanto alle esposizioni dì Londra. Monaco, i Parigi e Marsiglia, anche la caÂpitale lombarda abbia voluto riÂcordarlo. In questo caso si tratta di una iniziativa privata e preÂcisamente della Galleria del MiÂlione e ovviamente il numero delle opere è limitato. Non piĂą di una ventina di oli e circa quaranta tra litografie e disegni a matita. Tuttavia piĂą che sufÂficienti per verificarne l’imporÂtanza e soprattutto quanto queÂsto pittore sia attuale. Attuale è parola un po’ conÂsunta e in questa circostanza poÂtrebbe sembrare generica e retoÂrica. Ma è proprio Bonnard a riÂcordarci, con la sua capacitĂ di piegare l’antica sintassi impresÂsionista alle proprie esigenze espressive, che niente è superaÂto se si è in grado di rinnovarlo dal di dentro. Persino termini abusati, purchĂ© dietro vi sia un uomo nuovo che senta il biÂsogno di testimoniare il proprio tempo e aprirsi a quelli che soÂno i problemi chiave. Di ciò BonÂnard ci ha dato una lezione esemÂplare. Una lezione incentrata su quella che Cassola chiamerebbe la metafisica del quotidiano e che, come rilevava tempo fa ReÂnato Barilli su queste stesse coÂlonne, commentando la mostra parigina, oggi interessa molto piĂą di ieri. Tutto ciò senza che egli venisÂse meno a una propria fedeltĂ al mondo nel quale si era formato. Vale a dire, anni di fine secolo in Francia, quando all’ottimismo razionale degli impressionisti suÂbentrò per varie vicissitudini quell’atmosfera un po’ maldif di cui parla il Russoli nella preÂsentazione e che caratterizzò un po’ tutto il Simbolismo. Aria reÂspirata a pieni polmoni da BonÂnard, allievo della famosa AcadĂ©mie Julian e assolutamente reÂfrattario alla carriera amministrativa che il padre, funzionaÂrio al ministero della Guerra, voÂleva a tutti i costi fargli intraÂprendere. Un rifiuto che non gli impedì però di compiere con molta serietĂ gli studi, specie classici, e di mettersi in luce per un suo colto e un po’ distaccato atteggiamento nei riguardi delle infatuazioni troppo acritiche da cui era contornato. Nei salotti intellettuali, nei ridotti dei teaÂtri d’avanguardia, nelle redazioÂni delle riviste parigine il giovaÂne brillò per un suo spirito mosÂso da sottili inquietudini e non privo di humor. E ciò che per lui, allora come sempre, piĂą contaÂva: senza un programma artistiÂco assoluto. Insieme a Vuillard piĂą che un ortodosso Nabis, una specie di « pseudo-Nabis » che teÂse l’orecchio per quel tanto che gli occorreva alla predicazione di Paul Serusier e di Maurice Denis e alla moda giapponese che imÂperava alla « Revue Bianche » della incantevole Misia Godebska. Ma per il resto con una sua inquieta aspirazione, con una sua tentazione di cogliere quel segreto che è nello scorrere semÂplice, umile, quotidiano di una esistenza comune. Un testimoÂniare la vita nella sua caratteriÂstica forse fondamentale. Cioè l’indeciso, l’elusivo fluire, appaÂrentemente futile, eppure così vero e consolante. Soprattutto atÂtraverso il libero abbandono al lirismo del colore. « Une petite note de charme », come gli diceÂva Renoir giĂ nel ’98, con la quale da principio egli cercò di dire certi brani di vita osservaÂti nelle vie e nelle piazze di PaÂrigi. E poi, con una sempre piĂą decisa scelta intimista, negli inÂterni delle sue varie case, popoÂlati spesso dal nudo della moglie Marthe, nei giardini contemplati dalla finestra filtrando mentalÂmente i suggerimenti dei « fauves », nella natura che ogni giorÂno gli rinnovava il senso del miÂracolo della creazione. RealmenÂte, come qualcuno ha suggerito, un animo francescano, armato di carta e matita per quegli schizzi dal vero su cui poi lavoÂrava per anni. Oppure armato di tela e pennelli per quei suoi quaÂdri nei quali, dando sfogo alla Âsua felicitĂ cromatica, si sforzaÂva di non perdere mai il controlÂlo della prima sensazione. Con quell’aria un po’ smarrita « da cane appena uscito dall’acqua », come scrisse felicemente un suo biografo, con quegli occhi da miope ma attentissimo a ciò che avveniva intorno e dentro di sĂ©, egli inseguiva una sua limpida idea. Fedele, come si è detto, innanÂzi tutto all’insegnamento di ReÂnoir e di Monet, interprete ecceÂzionalmente acuto di quello che avevano significato Cezanne e Munch e Corot, memore persino di alcuni scorci di interno della pittura olandese del Seicento, che per prima aveva elevato a poeÂsia questa tematica della quotidianeitĂ e dell’intimitĂ domestica. Con inesauribile fantasia perseÂguiva una sua pittura organica, una pittura che non copiasse ma afferrasse le persone, le cose, la natura che lo circondava. Dopo aver presto voltato le spalle alla stagione simbolista, durante la quale, per altro, era diventato, con il celebre manifesto France-Champagne, l’ideatore dell’affiche moderna, e dopo alcuni tentennamenti, intorno al ’15, sul problema della soliditĂ della forma, dovuti probabilmente alÂla esperienza cubista, per BonÂnard si trattò di una ricerca uniÂvoca. Volta, si può dire fino agli ultimi suoi giorni, a ritrovare sulla tela la semplicitĂ e l’incanÂto dell’idea originaria. Solo ed esclusivamente la visione primaÂria difendendola, con abilitĂ deÂgna dei nostri piĂą sottili artisti contemporanei, dalle successive e distraenti implicazioni dell’ogÂgetto, che dopo quella prima raÂpida epifania inevitabilmente sopravvengono. Con paziente umiltà — si conoscono una infiÂnitĂ di aneddoti sulla lentezza con la quale portava a termine i suoi dipinti e sulla necessitĂ che egli, a volte, sentiva di ritoccarli addirittura a esposizione aperta – un cercare di far ricombaciaÂre la creazione di una forma, il gesto di stendere un colore, con la prima emozione provata. « Datemi l’aspetto incantatore che mi occorre », soleva ripeteÂre a chi gli chiedeva un quadro, un ritratto; E in questa frase mi sembra che ci sia in nuce tutta la sua poetica. Il suo bisogno di una autentica ed elementare emozione e, come conseguenza logica, il suo sentirsi di non apÂpartenere ad alcuna scuola; quel suo aderire quasi fisicamente alÂla materia dei suoi dipinti, immedesimandovisi come se, come diceva Guido Reni, avesse meÂscolato il sangue al colori; quelÂl’equilibrio formale perfetto che egli tenacemente perseguiva, fiÂno a pregare sul letto di morte il nipote di sostenergli la mano per un’ultima tache di colore, perchĂ© l’occhio scorresse senza intralcio. Da cose umili, schiette, cavar fuori con complessissima scienza una visione ombrata ma serena, una simpatia umana, quasi panica, che riempisse coÂme un’onda l’osservatore. DiciaÂmole pure quelle parole « sentiÂmento della bellezza » che oggi fanno tanta paura. Bonnard non le temeva. Non le aveva temute quando, primo illustratore di un autore contemporaneo, aveva commentato nell’anno 1900 per Ambroise Vollard, con tenero, dolcissimo segno le « Parallèlement » di Verlaine o quando aveÂva illustrato con sottigliezza elÂlenistica la favola degli amori pastorali di Dafni e Cloe di Longo Sofista. E tanto meno si era loro opposto nella sua tarda vecÂchiaia. Quando nella modesta caÂsetta a Cannet, a contatto con quel Mezzogiorno che da tempo lo aveva affascinato e ancora continuava a farlo impazzire di sensazioni, si abbandonava ai suoi colori grumosi e, nel medeÂsimo tempo, straordinariamente sontuosi, caldi ed espansi. Ormai una accettazione maÂlinconica ma fiduciosa della viÂta, che traspare anche da quella frase pronunciata a poco meno di ottant’anni: « Alla mia etĂ si comincia a sapere quello che si deve fare ». E non era certo una posa oppure una maliziosa autoÂvalorizzazione commerciale. E’ fin troppo noto il suo scontroso candore e come, vedendo i prezÂzi a cui venivano vendute le sue opere, anch’egli, al pari del nostro Antonio Mancini, avrebbe potuto dire: « Ho paura s’abbia a finire tutti in galera ». La sua era ormai limpida coscienza delÂle sue ragioni. Naturalmente anÂche di certi limiti che non si naÂscondeva (ammirando Matisse e Rouault) e che, a suo parere, gli impedivano di essere un grande artista. Secondo lui, la sua era soltanto una onesta pittura. Una visione che però — ed il consenÂso che oggi sta trovando specie tra gii artisti e in particolare tra i piĂą giovani ne è una prova — aveva il dono di pervenire con sorprendente immediatezza alle’ sorgenti stesse del fare artistico. Qualcosa che ne fa un anello di una lunga tradizione ma anche uno di quelli di fronte ai quali, per la conquistata naturalezza e spontaneitĂ della loro arte, vien fatto di esclamare con Elie FĂ ure, « che danno l’impressione di aver inventato la pittura ».
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