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PITTURA: I MAESTRI: Sebastiano Ricci: Un professionista e i suoi committenti10 Gennaio 2019
di Jeffery Daniels A un convegno tenutosi a Udine in occasione della mostra “Sebastiano Ricci disegnatore” (1975), mi fu chiesto di valutare il significato dell’opera grafica delÂl’artista nel contesto della sua produzione complessiva. Si fecero molti discorsi sulla ‘poesia’ dei disegni del Ricci, ma il contributo più utile venne da Terisio Pignatti, che operò una distinzione tra gli studi prepaÂratori per composizioni pittoriche e i disegni di pura fantasia, validi per se stessi. Questi ultimi sono in realtà pochissimi, mentre la maggior parte appartieÂne alla prima categoria, e la mia valutazione perciò fu la seguente: Ricci era prima di tutto un professioÂnista, e per lui un disegno era parte di un procediÂmento creativo il cui scopo era la soddisfazione del cliente. Per questo motivo il più significativo tra i diÂsegni esposti era il n. 79, una Sacra Famiglia recante l’iscrizione “Ducati duecento e venti” e firmato “SeÂbastiano Ricci”: la cifra si riferisce al prezzo del diÂpinto basato sullo schizzo, che raffigura sant’Antonio inginocchiato davanti a Gesù Bambino che siede in grembo alla Vergine, mentre Giuseppe, discretamenÂte, sta in piedi alle loro spalle. Per Sebastiano Ricci il talento fu inizialmente uno strumento di promozione sociale, di conquista di un livello di vita che altrimenti non avrebbe potuto ragÂgiungere. Le sue origini erano relativamente umili, la sua istruzione superficiale, eppure a quarant’anni tratÂtava familiarmente con prelati e principi. Già nella prima giovinezza, durante l’apprendistato veneziano prima con il Cervelli, poi con il Mazzoni, doveva aver coltivato relazioni con personaggi ricchi e potenti; sapÂpiamo che riuscì a evitare le conseguenze del malacÂcorto tentativo di avvelenare la sua amante, che era rimasta incinta, grazie all’intervento di una “nobil persona”, che, secondo un’ipotesi di chi scrive potrebÂbe essere stata un membro della potente famiglia PiÂsani: il pittore infatti si rifugiò a Bologna in una reÂsidenza appartenente a un Ferdinando di quel casato. Quando infine si riconciliò con la giovane e la sposò, l’artefice dell’accordo fu nientemeno che il cardinal legato Antonio Pignatelli, che nel 1691 doveva esÂsere eletto papa con il nome di Innocenzo XII. Se il Ricci si trasferì a Bologna nel 1678, come AlÂdo Rizzi ha recentemente proposto, può aver lavorato con Carlo Cignani agli affreschi di quest’ultimo nel palazzo del Giardino a Parma, eseguiti tra il 1678 e il 1680 con l’assistenza di vari aiuti, in particolare di Marcantonio Franceschini con il cui nome quello del Ricci sarebbe stato messo in relazione molto più tarÂdi, nella nota lettera del Talman del 1711. Ricci enÂtrò sicuramente in rapporto con il duca di Parma, Ranuccio II Farnese, intorno al 1686, secondo il SagreÂstani tramite i buoni uffici del Cignani, che lo raccoÂmandò per la decorazione di una stanza nella CittaÂdella di Piacenza. Pare che l’artista impiegasse il deÂnaro ricavato da questa commissione per acquisire alÂcuni rudimenti di educazione signorile, forse nel tentaÂtivo di inserirsi meglio e in modo durevole nelle corti nobiliari e principesche dove avrebbe trovato la magÂgior parte dei suoi committenti. Era anche ben conÂscio dei limiti delle sue capacità pittoriche, e più speÂcialmente di quelle disegnative, ma la generosità del suo ducale protettore gli diede la possibilità di perfeÂzionarsi sotto questo aspetto: nel marzo del 1691 parÂtì per Roma, munito di una ‘patente di familiarità ’ del duca, che gli aveva assegnato una pensione di ventiÂcinque corone mensili, e prese alloggio a palazzo FarÂnese, dove divideva una stanza con un suo vecchio amico di Pavia, Pietro Antonio Barbieri. Il Ricci doÂveva già conoscere bene l’Ercole al bivio di Annibale Carracci, che dal ‘Camerino’ di palazzo Farnese era stato trasferito nel 1662 a Parma, dove andò a decoÂrare il palazzo del Giardino; ma la grande Galleria dovette rappresentare una rivelazione per il giovane maestro, e l’influsso di quell’opera è chiaramente avÂvertibile nel soffitto di palazzo Colonna. La complessa rete di relazioni intrecciata dal RicÂci a Roma è indice del rapido affinarsi del suo gusto, sia come uomo sia come artista; risulta anche che aveva già preso l’abitudine di lavorare a più commisÂsioni contemporaneamente, come annota il Pascoli: “Pronto a intraprendere qualunque opera farraginosa, e più d’una insieme, se l’occasione gli si presentava”. Nel periodo 1693-94, per esempio, era impegnato in opere per il nuovo papa, Innocenze XII (che era stato eletto il 12 luglio 1691), per il conestabile Colonna, per la chiesa di San Bernardino alle Ossa di Milano, per Luigi XIV e, probabilmente, per la chiesa del Carmine di Pavia. Le sue attività sono ampiamente descritte nella Correspondence des Directeurs de l’Académie de France à Rome avec les Surintendents des Bâtiments dal direttore dell’epoca, La Teulière, la cui loquacità si rivela tanto preziosa per il ricercatore moderno quanto dovette essere irritante per il destinaÂtario, il marchese di Villacerf nel caso particolare, le cui risposte e i cui commenti a margine sono estremaÂmente asciutti. La vicenda della copia dell’IncoronaÂzione di Carlo Magno di Raffaello eseguita per Luigi XIV è esaurientemente riferita nella scheda n. 62, ma vale la pena di citare qui l’opinione di La Teulière sul Ricci, in una lettera datata a Roma il 31 marzo 1693: “È un giovine di circa trent’anni, che ha gran facilità nel dipingere, con un ottimo gusto del colore e molta abilità nel chiaroscuro, e molto promettente per le sue attitudini e per le composizioni dei suoi quaÂdri. Ne ho visti molti; egli ha d’altronde inclinazione per il gusto francese e parla anche un po’ la nostra lingua, che ha imparato per il gran desiderio che ha di veder la Francia”. Osserva anche che il Ricci è molto contento di intraprendere il compimento della copia “persuaso, com’è, che quest’opera gli servirà per perfezionarsi nella correttezza del disegno, che è ordiÂnariamente il punto più debole dei pittori di questo paese”. Comunque sia, sappiamo dal Manette, che incontrò il Ricci molto più tardi (1718), che egli troÂvò questa esperienza un po’ scoraggiante, avendo comÂpreso che non avrebbe mai potuto raggiungere la puÂrezza del disegno di Raffaello. Tre settimane prima ’10 marzo 1693) La Teulière annota che Ricci sta lavorando sia per il conestabile Colonna sia per il papa, per il quale stava completando un dipinto deÂstinato ad adornare la Cappella dei Poveri in palazzo Laterano (n. 52). La Teulière definisce il bozzetto per questo quadro “di grande buon gusto e di bella comÂposizione” e il pittore “abile e di genio francese”. In novembre il Ricci smise temporaneamente di lavorare alla copia del Raffaello per terminare un’oÂpera iniziata qualche tempo prima (probabilmente la pala del Carmine di Pavia, n. 51), e di nuovo si interÂruppe sette mesi dopo, costretto “a fare un viaggio in Lombardia per terminarvi la volta di una chiesa che ha cominciato a dipingere ” (quasi certamente San Bernardino) “poiché egli tiene al suo denaro”. Nella stessa lettera, del 15 giugno 1694, La Teulière sollecita un pronto pagamento dell’artista, descritto “di tempeÂramento molto vivace, cattivo amministratore, molto amante del suo decoro e stretto dal bisogno”. I caratteri salienti della personalità vivace, alquanÂto stravagante del Ricci sono quindi già evidenti nel momento in cui l’improvvisa morte del suo protettoÂre, nel dicembre 1694, lo spinse a lasciare Roma, doÂve aveva trascorso tre anni con grande profitto. Gli splendidi bozzetti per San Bernardino alle Ossa derivano chiaramente dai pendants del Baciccio nella chiesa del Gesù, a Roma, e la tecniÂca consistente nell’usare elementi aggettanti di stucco per accrescere l’effetto illusionistico, che il Ricci adotta nello stesso San Bernardino (n. 54-56, 58, 60) e più tarÂdi in Santa Giustina a Padova (n. 93-95), deriva dalla stessa fonte. Il vertiginoso illusionismo del soffitto di Sant’Ignazio, pure a Roma, di Andrea Pozzo non semÂbra aver colpito il Ricci più del freddo classicismo di Carlo Maratta, e, a parte il Baciccio, è l’influsso delÂl’alquanto più anziano Pietro da Cortona e del suo successore Luca Giordano che ritorna costantemente nella sua opera, sebbene ciò si verifichi più particolarÂmente dopo che il Ricci ne ebbe conosciuto gli esiti fiorentini. In ogni caso il soffitto di Pietro da Cortona in palazzo Barberini difficilmente può essere sfuggito alla sua attenzione, e il Ratto delle sabine dello stesso autore è un ovvio punto di riferimento per lo stesso soggetto trattato dal Ricci in palazzo Barbaro-Curtis. A questo punto, a trentacinque anni e già con una discreta fama pittorica, Ricci decise di stabilirsi a MiÂlano, dove i suoi affreschi in San Bernardino furono probabilmente offerti alla vista del pubblico il 27 diÂcembre 1695, data di riconsacrazione della cappella-ossario. Ci sono pervenuti i documenti relativi ad alÂcune commissioni milanesi, in particolare agli affreÂschi per il palazzo del marchese Calderara, da tempo perduti, ma sembra che la rete di protezioni sviluppaÂta a Roma non riuscisse a trovare un equivalente in Lombardia, sebbene l’importante tela eseguita nel 1697 per il duomo di Monza giustifichi l’affermaÂzione del Pascoli secondo la quale la situazione aveva cominciato a migliorare appena prima che il Ricci deÂcidesse di ritornare a Venezia. Nel contratto tra il doÂnatore, conte Giacomo Burini, e l’ecclesiastico reÂsponsabile della ricostruzione dell’edificio, Pietro Bosca, che è datato 22 giugno 1697, Ricci viene definito “celebre pittore” e la tela in questione è un capolaÂvoro della sua prima maturità , anche se l’influsso del Baciccio non è completamente assimilato. Il ritorno del pittore a Venezia cadeva in un moÂmento ben scelto: l’euforia originata dalla conquista, clamorosa ma in ultima analisi inutile, della Morea da parte di Francesco Morosini si materializzava nelÂl’arco trionfale disegnato nel 1694 da Andrea Tirali per la Sala dello Scrutinio in Palazzo Ducale; e infatti il Ricci contribuì con una Allegoria della fama alla decorazione della stessa sala, soÂpra la finestra immediatamente a destra dell’arco del Tirali. Se, come plausibilmente suggeriscono il Derschau e la D’Arcais, il Ricci ritornò a Venezia tra il 1697 e il 1698, questo dipinto allegorico può essere stato eseguito subito dopo, forse in occasione della pace di Karlowitz (1699), che confermò a Venezia il possesso delle recenti conquiste territoriali. Simili commissioni civili furono tuttavia relativaÂmente scarse, anche se lo splendido gruppo di tele che adornava una sala del palazzo Mocenigo può risalire a questo periodo, probabilmente in rapÂporto all’elezione al dogato di Alvise II Mocenigo nel 1700. Nondimeno, come ha messo in rilievo lo Haskell, erano le commissioni ecclesiastiche a dare ai “pittori di storia ” veneziani la maggior parte del lavoro: ” La Chiesa mantenne e anzi accrebbe la posizione, che aveÂva sempre conservato, di principale patrona dell’arte contemporanea a Venezia. Dei pittori di storia cittaÂdini praticamente tutti dedicavano più di metà del loro lavoro alla Chiesa, e in molti casi la percentuale era notevolmente maggiore”. In realtà , secondo A. M. Zanetti, l’opera che rivelò il Ricci all’attenzione del pubblico veneziano fu un’Ascensione affrescata nella cupola della chiesa omonima, che si trovava accanto a piazza San Marco; il suo convento divenne in seguito l’attuale Hotel Luna, per consentire l’amÂpliamento del quale la chiesa fu più tardi demolita. Lo Zanetti cita in particolare “la novità della bella maniera ripiena di molto spirito”; e se (come pare) l’affresco si apparentava a quelli di Santa Giustina a Padova nella cappella del SS. Sacramento, del 1700, doveva essere delizioso per la sua freschezÂza e per la sua eleganza, completamente differenti dalÂla ponderosa magnificenza del soffitto di San Pantaleone eseguito dal Fumiani, per esempio, al quale l’arÂtista stava ancora lavorando (iniziato nel 1680, fu comÂpiuto solo nel 1704). Altre chiese si affrettarono a comÂmissionare opere all’apostolo del nuovo stile, che non è difficile identificare con il rococò, e, benché le tele del Ricci per San Basso (l’edificio classicheggiante del Benoni esiste tuttora nella Piazzetta dei Leoncini, ma le decorazioni furono asportate nel 1810) e per il Corpus Domini siano perdute, le belle decoraÂzioni per l’altrimenti cupa chiesa di San Marziale testimoniano lo smalto del suo stile e la siÂcurezza della sua tecnica nei primissimi anni del nuovo secolo. La chiesa di San Marziale è un po’ spostata dal centro cittadino, e fu con tutta probabilità l’Ascensione affrescata dal Ricci a suggerire a VinÂcenzo Coronelli, illustre geografo veneziano, la commisÂsione di un analogo tema da donare alla basilica dei Santi Apostoli a Roma, a ricordo della sua elezione a generale dei conventuali (14 maggio 1701). Il dipinto era probabilmente compiuto il 16 agosto, quando Coronelli annunciò a Roma che lo aveva fatÂto dipingere a Venezia, e Ricci doveva essere già ocÂcupato nei preparativi per recarsi a Vienna a lavorare per Giuseppe, re dei Romani e erede al trono impeÂriale: aveva infatti ottenuto un’altra ‘patente di famiÂliarità ’ dal nuovo duca di Parma, Francesco, datata 11 marzo 1701. Nel 1702 è documentata la sua preÂsenza in “Germania”, che deve significare Vienna, dove stava decorando il soffitto della Sala degli SpecÂchi nel palazzo di Schönbrunn, da poco terminato, con un’Allegoria delle virtù principesche. A dire il vero sembra aver lavorato ad altre opere nello stesso periodo e tra le “varie cose” che il Pascoli afferma furono eseguite per lo stesso committente può esserci stata l’Ascensione originariamente nella chiesa catÂtolica di Dresda e ora alla Gemäldegalerie; anche i due episodi di storia romana ora a palazzo Liechtenstein possono rientrare in questo gruppo, poiché il loro tema è senz’altro perÂtinente. Sulla via del ritorno da Vienna, il Ricci deve aver rivisitato il suo paese natale, dove probabilmente aveva ancora dei parenti; il gruppo di dipinti che in origine decorava una piccola anticamera nel palazzo Fulcis-De Bertoldi a Belluno fu quasi certamente comÂmissionato in questo periodo, per ricordare l’ammissioÂne di Pietro Fulcis nel 1702 nell’ordine dei cavalieri di Malta, la cui croce compare in entrambi gli stucchi e in una delle tele che sono andate perdute. La figura di Fetonte che precipita, nella tela del soffitto, è un eco del soffitto di Schönbrunn da poco terminato, mentre gli episodi del mito di ErÂcole prefigurano lo stupendo schema compositivo di palazzo Marucelli a Firenze, posteriore di pochi anni. È difficile, in assenza di prove documenÂtarie, accertare se anche la decorazione della cappelÂla Fulcis (n. 163-165) nella parrocchiale di San Pietro risalga a questo soggiorno, ma il fatto che san GioÂvanni Battista patrono dei cavalieri di Malta compaia in entrambe le pale d’altare e in uno degli affreschi accanto a san Pietro, patrono della chiesa, è probabilÂmente significativo. Sembra comunque che, contrariaÂmente alla pratica più tarda, il Ricci compisse immeÂdiatamente almeno parte della commissione, vale a dire gli affreschi della cappella, e può anche aver fornito il progetto per gli stucchi sia del palazzo sia della cappella, come è stato suggerito nel caso di palazzo Marucelli. Sappiamo dal più tardo epistolario con il conte Tassis di Bergamo che il Ricci si preoccupava di avere misure precise e appare improbabile che teÂle del formato e della qualità necessarie (specie per il soffitto) si potessero acquistare a Belluno. Riferimenti a opere giovanili nella provincia di Treviso (specie a Conegliano) e l’esistenza dell’abbastanza insignificanÂte Crocifisso di Padernello fanno pensare che l’artista possa avere assunto alcune altre commissioni sulla via del ritorno a Venezia. L’altra Crocifissione, dipinta per il granduca Ferdinando di Toscana, non raggiunge risultati migliori, ma perlomeno ne è rimasta una completa documentazione, anche se su di essa esistono consideÂrevoli divergenze di interpretazione. La figura centrale nella trattativa per l’assegnazione della commissione è Niccolò Cassana, pittore nato a Venezia ma di oriÂgini genovesi, coetaneo del Ricci, che divenne agente del granduca nel 1698: acquistava per conto di queÂst’ultimo opere di maestri antichi ma commissionava anche opere ad artisti viventi. Il carteggio pubblicato da Gino Fogolari (1937) e da Francis Haskell (1963), prova che la tela, raffigurante Cristo crocifisso con la Vergine e i santi Carlo Borromeo e Giovanni evangeliÂsta, fu dipinta a Venezia tra il 30 agosto e il 14 ottobre 1704, mentre una persistente tradizione (sostenuta anÂcora recentemente nel 1974 da Marco Chiarini) insiÂste nell’affermare che il quadro fu dipinto a Firenze, nel corso di una rapida visita di quattordici ore e che l’artista, sprovvisto di pennelli e colori, si servì per laÂvorare dello studio del Sagrestani. Sembra comunque certo che fosse il Cassana a fare da tramite con il granduca e in realtà entrambe le versioni dei fatti possono contenere elementi di verità : il Ricci, mai pigro nel coltivare i favori di un committente, può certo essersi recato in un secondo momento a Firenze e avere ritoccato il dipinto, che potrebbe essere stato trasferito nello studio del Sagrestani dopo una visita fatta dall’autore alla chiesa di San Francesco de’ Mac-ci per rendersi conto della sua collocazione. Non si tratta certo di un capolavoro e il commento del granÂduca (“Ricci, per il poco tempo, ha fatto una bella tavola”) è una lode generosa. Certamente appare che Cassana e Ricci fossero molto intimi, e il Ricci si faÂceva un dovere di lodare presso i committenti l’opera del suo amico: la vivida descrizione fornita dal Gran Principe dell’anticipata reazione del Ricci di fronte alÂla Cuoca del Cassana (1707), da poco giunta, è eloquente: “[…] e Bastian Ricci so, che dirà il solito, che ha detto di tutti i quadri, che ho di suo, che quando li vede, si mette gli occhiali, e va loro matto dietro; e diÂce, che quando le ordino qualche cosa io, lei fa miraÂcoli”. Il più tardo racconto del Vertue, all’epoca in cui Ricci e Cassana (da lui chiamato “Cassani”, “CassiÂni” e “Cassinni”) erano entrambi in Inghilterra, fa pensare a un rapporto ugualmente stretto, ma con un intento moralmente meno limpido, cioè la vendita di falsi dipinti antichi agli ingenui aristocratici inglesi: “Essi insieme si ingegnarono a dipingere quadri nella maniera e nel gusto di molti antichi maestri e li venÂdevano ai collezionisti di qui ad alti prezzi, e gli andò bene […]. Essendo tali pratiche troppo frequentemente usate dal Ricci diedero giusta ragione di pensare che queste azioni fossero da lui organizzate per il benefiÂcio suo proprio e che Casinni fosse solo un esecutore, e lo stesso il sig. Marco suo nipote. Questi furono enÂtrambi abili pittori […]. Cassini morì subito dopo”. L’informazione che Cassana morì “subito dopo” la truffa, in questo caso ai danni di lord Portland, con una Natività , si accorda con le scarse notizie del sogÂgiorno inglese del Cassana, poiché si sa che egli morì nel 1713 o ’14. Resta da notare che gli editori dei TacÂcuini del Vertue identificano l’artista con un membro della famiglia di pittori fiorentini chiamati Casini, morto nel 1748, la cui presenza a Londra non è altriÂmenti documentata; si sa invece che il Cassana si recò laggiù intorno al 1709, probabilmente su invito della regina Anna, di cui dipinse il ritratto. Fosse o meno il Cassana a far da tramite fra RicÂci e il granduca Ferdinando, questi ultimi entrarono presto in rapporti di amicizia, come testimoniano le lettere che si scambiarono nel 1706: il principe acÂconsente a far avere “due sfondi” al canonico MaruÂcelli, per il quale Ricci avrebbe realizzato la sua comÂposizione più ambiziosa, e probabilmente il suo capoÂlavoro, la Sala d’Ercole. È in discussione se questi “due sfondi” siano i due bozzetti per questa stanza o le due tele per il soffitto nel palazÂzo, come è stato recentemenÂte suggerito; tuttavia sarebbe stato alquanto sconveÂniente per il Ricci chiedere al granduca di ricevere per conto di uno dei suoi stessi sudditi due enormi soffitti, e il Ricci era di gran lunga troppo attento alÂle esigenze dell’etichetta per commettere una simile gaffe. Le sue lettere sono sempre concepite nel più elaÂborato e aulico dei linguaggi e non dimentica mai la posizione sociale del suo protettore, anche quando discute sui prezzi, come più tardi con il conte Tassis. Il granduca appare comunque un personaggio comprensivo e alla mano, diverso dal suo maniaco genitore, e certo si circondò di artisti di fortissima personalità , tra i quali, oltre a Sebastiano Ricci e NicÂcolò Cassana, Marco Ricci, Alessandro Magnasco e Giuseppe Maria Crespi. Un ‘capriccio’ architettonico, la Dogana da mar ora a Lucca, è firmato dal monogramma di Sebastiano Ricci e AlesÂsandro Saluzzi insieme e datato 1706: deve quindi esÂsere stato dipinto per il principe mentre entrambi gli artisti erano alla sua corte. L’inventario delle colleÂzioni granducali indica che il principe amava partiÂcolarmente i bozzetti e le piccole composizioni di fiÂgura, e lo splendido studio preparatorio per il soffitto di palazzo Pitti ne è un esempio superbo. EsÂso rivela inoltre come il Ricci realizzasse un bozzetto per un committente di rango principesco a un livello qualitativo molto più alto di quanto non facesse per un cliente meno altolocato: i bozzetti per le decorazioÂni Marucelli, ad esempio, sono freschi e vigorosi, ma non hanno la raffinatezza squisita di quello per palazÂzo Pitti, che fu a lungo attribuito al Tiepolo. Il problema del grado di ‘finitura’ dei dipinti del Ricci, particolarmente importante quando esistono più versioni della stessa composizione peraltro praticamenÂte identiche, è direttamente connesso al livello sociaÂle e quindi economico del committente. Nel caso di Cerone di Siracusa chiama Archimede a fortificare la città , ad esempio, esistono non meno di quattro verÂsioni, tre delle quali accettabili come autografe: di queste, una (quella di Dublino), è chiaramente la prima versione, poiché è quella che raggiunge il più alto grado di finitura. Il caso del Sacrificio a Sileno è ancora più significativo, dato che si conosce il committente per il quale fu diÂpinta la versione più rifinita delle due note: il dipinto ora a Dresda fu originariamente commissioÂnato per conto del reggente di Francia, il duca d’Orléans, che morì prima di poter ricevere il dipinto (e il suo pendant, un Sacrificio a Vesta,), che fu alla fine acquistato presso lo Zanetti dall’Algarotti per conto del re di Polonia. La versione in una collezione privata londinese (n. 389) è certamente autografa, ma di qualità notevolmente inferiore: manca la scultura sul frontone del tempio e sono visibili altre meno importanti semplificazioni. Un terzo esempio sarà sufÂficiente: il Baccanale recentemente pubblicato dallo Zampetti e il suo pendant, il Festino di Sileno, sono di gran lunga superiori alle altre due copÂpie note e sono forse i dipinti commissionati dal maresciallo Schulenburg. Le verÂsioni in cui compaiono pesanti panneggi possono essere quelle riprodotte nelle incisioni con l’indicazione di appartenenza alla collezione di Andrea Memmo (che consisteva soprattutto di copie, come ha osservato Francis Haskell), poiché le figure sono allo stesso modo pudicamente velate. Comunque, per tornare alla rassegna cronologica dei committenti del Ricci, il granduca Ferdinando riÂmase in corrispondenza con il pittore dopo che queÂsti ebbe terminato il suo lavoro a Firenze e fu ritorÂnato a Venezia, probabilmente alla fine del 1707. La pala di San Giorgio, datata 1708, è tra le composizioni del Ricci la più vicina ai modi del VeÂronese, ed è forse sia un omaggio al Palladio sia un atto fraterno nei confronti del pittore, il capolavoro del quale, Le nozze di Cana, rimase appeso nell’anÂnesso refettorio fino a quando non fu parte del bottino di Napoleone. La ripresa dei modi veronesiani viene sempre citata come uno dei contributi più importanti del Ricci allo sviluppo del rococò veneziano, soprattutÂto perché venne così pienamente messo a frutto e arÂricchito dal “nume tutelare” di questo stile (come Michael Levey chiama G. B. Tiepolo), ma non si dovrebÂbe dimenticare che, come il Ricci mutava tecnica seÂcondo il rango e la borsa del committente, così mutaÂva stile secondo le necessità di una particolare comÂmissione. Nel soffitto della cappella di Cristo in San Geminiano, che risale probabilmente a due anni più tardi, è inconfondibilmente debitore di Luca Giordano e del Correggio, e, se la datazione della PaÂzienza di Giobbe a Parma è corretta, ancora nel 1725 era in grado di dipingere nella maniera “teÂnebrosa” del Langetti. Nel 1711 si preparava ad affrontare il più audace dei suoi viaggi: si recava in Inghilterra, dove speraÂva di ottenere la commissione per la decorazione delÂla cupola della cattedrale di S. Paolo a Londra, da poco terminata; ma è difficile accertare se partisse da Venezia, da Roma o da Milano. La lettera di John Talman da Roma, datata 18 novembre 1711, in cui si dice che “due pittori molto meschini partono per l’Inghilterra […] l’uno il Signor Rizzi da Venezia l’alÂtro Sigr. Franceschini”, può significare sia che il Ricci si trovava allora a Roma, sia che era a Venezia, data l’ambiguità dell’espressione “da Venezia” in questo contesto. La testimonianza del Pascoli lo colloca in Lombardia, dove “riceve ordine espresso dalla regiÂna d’Inghilterra di portarvisi”: come ho suggerito (in “Atti del Congresso… su Sebastiano Ricci”, 1975), può certo esser passato da Milano in occasione dell’entraÂta trionfale in quella città del nuovo imperatore, CarÂlo VI, che ebbe luogo il 31 ottobre, e dell’esecuzione delle relative decorazioni alle quali contribuirono paÂrecchi artisti, compreso il vecchio amico del Ricci, Alessandro Magnasco. Il Vertue afferma esplicitamenÂte riguardo a Marco che “in seguito a certi dissensi col Peligrini, si trovarono in disaccordo, e Marco anÂdò a prendere a Venezia lo zio Sigr. Sebastiano Ricci”. Da qualunque luogo egli fosse partito, e quale che fosse il suo itinerario, è evidente che si trovava a Londra nella primavera del 1712 al più tardi, e parecchie opere sono firmate e datate 1713, comprese due ora a Chatsworth. I principali proÂtettori del Ricci in Inghilterra erano il giovane conte di Burlington, per la cui residenza cittadina egli creò lo splendido complesso decorativo della scala d’onore, che ci è rimasto in forma lacunosa; il conte di Portland, relativamente al quale restano soÂlo i bozzetti (n. 321, 322, 325) per i suoi ambiziosi progetti; e infine Charles Talbot, duca di Shrewsbury. Per intercessione di quest’ultimo il Ricci ottenne la commissione per la decorazione del soffitto della caÂmera da letto del principe di Galles nel palazzo di Hampton Court, che venne poi affidata a James Thornhill più per ragioni nazionalistiche che per motivi arÂtistici. A mio parere può essere stato a titolo di comÂpensazione che il Ricci venne incaricato di dipingere la splendida Resurrezione nella semicupola della capÂpella del Royal Hospital a Chelsea, probabilÂmente in memoria della regina Anna, morta il 1° agoÂsto 1714. Ne sono rimasti due bozzetti, uno dei quali è chiaramente di qualità superiore, ed è quindi probaÂbilmente l’originale (Dulwich College); menÂtre il secondo era forse concepito come omagÂgio al duca di Shrewsbury, anche se si tratta di una semplice ipotesi priva di alcun sostegno documentario. Il Ricci lasciò verosimilmente l’Inghilterra nel corÂso del 1716, dopo aver guadagnato considerevoli somÂme di denaro, nonostante l’alto livello dei suoi prezzi: sappiamo, da una lettera scritta da Düsseldorf il 9 giugno 1714 da Angela Pellegrini alla sorella Rosalba Carriera a Venezia, che molti clienti potenziali si tiÂravano indietro di fronte alle richieste del Ricci: “DiÂmanda prezzi sì alti che quelli che lo fariano lavorare se ne spaventono e restono senza pittura più tosto che esborsare tanto dinaro”. Lo stesso appunto è implicito nell’iscrizione su un disegno della biblioteca Marucelliana di Firenze, relativo a un “modello” della colleÂzione granducale “che fu fatto p[er] farlo / Fresco in Casa Gaddi e non ne fu fatto altro p[er] non esser stati d'[accordo] del Prezzo” (si veda al n. 193). Tuttavia non pare che l’artista fosse rimasto senza lavoro, e anche se “my Lord Portelant” tardava a paÂgare l’opera del Ricci a Bulstrode e in St. James’s Square, come ci dice Angela Pellegrini, alla fine dell’anno 1716 era di ritorno a Venezia con mezzi sufficienti a stabilirsi in un appartaÂmento nelle Procuratie Vecchie, con vista su piazza San Marco. Qui venne a fargli visita il Manette, che definì con le parole “a la grande” il suo stile di vita, espressione ripresa da Alessandro Longhi nel suo ComÂpendio… del 1762. Una visita a Belluno sembra aver fruttato la commissione per la decorazione della villa di Belvedere, residenza di campagna del vescovo G. F. Bembo, ma le maggiori comÂmissioni affidate al Ricci nel corso degli ultimi diciasÂsette anni della sua vita furono tutte eseguite a VeÂnezia, e, quando era il caso, trasportate a destinazione. Per questo motivo gli importanti gruppi di opere eseÂguite per i Savoia furono tutti speÂditi, accuratamente imballati, via Canonica d’Adda e nella corrispondenza tra il pittore e il conte Tassis di Bergamo (1730-31) riguardante la pala d’alÂtare per Sant’Alessandro della Croce ci sono frequenti accenni a questioni di trasporto. Joseph Smith, che doveva poi diventare console britannico a Venezia, fu un protettore entusiasta, come testimonia l’ampia collezione di opere di entrambi i Ricci ora a Hampton Court, e gli istituti religiosi veneziani conÂtinuarono ad affidare commissioni all’artista, specialÂmente i benedettini dei Ss. Cosma e Damiano alla Giudecca, la cui chiesa (ora ridotta a officina) deve essere stata, virtualmente, un museo del rococò veneÂziano. Fra le tarde pale d’altare veneziane del Ricci vi sono quella della chiesa dei gesuati, che seÂcondo il Temanza egli donò ai domenicani, uno dei quali “lo assistì nelle ore estreme” secondo gli usi corÂrenti; quella di San Vitale; e le due di San Rocco, probabilmente le sue ultime opeÂre per Venezia. È tipico che quella che fu forse la sua ultima opera in senso assoluto fosse destinata a un comÂmittente di rango reale: il Sacro Romano Imperatore, che gli commissionò una Assunzione per la Karlskirche di Vienna, il pagamento della quale giunse dopo la morte dell’artista. Ancora, è caratteristico che esistano numerosi schizzi e versioni relative alla pala stessa che, nel caso delÂle copie apocrife, testimoniano l’alta stima di cui l’oÂpera del Ricci godette fino alla fine dei suoi giorni.
Letto 380 volte.

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