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PITTURA: I MAESTRI: Seraut: Il ‘sistema’ di Seraut24 Gennaio 2019
di André Chastel II genio freddo, schivo, di Seurat ha dato l’imÂpressione ch’egli fosse un calcolatore provocante e silenzioso. Da esso non traspaiono né ‘humour’ né pasÂsione. A partire dalla Baignade (1884), l’artista preÂsenta regolarmente a un pubblico disorientato i quaÂdri più studiati che esistano. Nulla, nell’aspetto stesso di quelle opere, nelle tonalità di volta in volta aspre e dolci, nella distribuzione dei tocchi di colore, sembra conforme, non solo alle consuetudini tradizionali, ma a quelle semplicemente normali della pittura. Si diÂrebbe che Seurat si sforzi di estendere meccanicaÂmente a tutta la tela alcuni particolari accidentali della fattura, che si ritrovano, per esempio, in Rubens, in Watteau, in Delacroix; ma come si può basare l’intiera composizione su tali accordi ricondotti apÂpena a uno stretto gioco dei complementari? La granÂde rivendicazione della pittura moderna è la libertà d’invenzione e di esecuzione: qui, invece, ci troviamo di fronte a un pittore che sembra rinunciare d’un sol tratto a ogni sua opportunità , compiacendosi d’inÂcatenare la spontaneità fin nei minimi movimenti. E, secondo una formula che mai ha avuto senso magÂgiore, questa strana operazione è condotta ‘di delibeÂrato proposito’. Lo afferma lo stesso Seurat a Charles Angrand: “La gente trova una poesia in ciò che facÂcio. No; applico semplicemente il mio metodo, nient’altro”. Eccentricità o superiore scienza? La concluÂsione, in fondo, non è mai stata nettamente tirata. Thomas Mann mette in bocca all’eroe del Dottor Faustus ragionamenti analoghi. A parte il wagnerismo, il patetico e il demoniaco, si ritrova l’identico personaggio fascinoso e indecifrabile del grande gioÂcatore intellettuale, l’identico sorriso ironico a fior di labbra. La dottrina elaborata da Adrian Leverkühn è più o meno ricalcata, è noto, su quella di Schönberg, e forse in Seurat c’è, in più di un senso, non poco del Pierrot lunaire. Per immaginare che cosa potesse attirare verso Seurat un giovane pittore del 1885, basta rifarsi all’affermazione espressa da Thomas Mann per bocca del suo musicista: “Noi avremmo veramente bisogno di un maestro che c’imponga un sistema, di un ‘magister’ che insegni l’obiettività e l’organizzazione, abÂbastanza geniale per conciliare il rinnovamento, e perÂsine l’arcaismo, con lo spirito rivoluzionario …”. Gli aspetti antitetici dell’impresa di Seurat hanno infatti tale ampiezza e tale complessità . Dopo tutto, egli è nato soltanto dodici anni prima di Paul Valéry e le prime riflessioni intransigenti del discepolo di MalÂlarmé sulla necessaria epurazione del ‘principio poeÂtico’ sono pressappoco contemporanee del Circo, opera in cui, sotto il gioco degli arabeschi e le sottili dissoÂnanze di tono, l’organizzazione matematica del quadro è stata spinta ai limiti del possibile. Ci dicono che George Seurat è il fondatore di una scuola nuova, lo sperimentatore intrepido di una teoria ‘scientifica’, il riformatore dell’impressionismo. Ma è proprio questo che ci interessa? Come tutti coloro che hanno l’ossessione del ‘sistema’, Seurat credeva di essere l’uomo del destino, ciò che appare già dalla sua curiosa mancanza di biografia, cioè dalla totale sottomissione della sua vita — vita breve, spezzatasi a meno di trentadue anni — alla propria arte. Il suo volto calmo, ‘assiro’, lo conosciamo grazie agli amici, ma non da un solo autoritratto; e rimpiangeremo per sempre quello che aveva dipinto – secondo l’uso dei maestri di un tempo – nello specchio appeso sopra la Giovane che s’incipria (1889-90), e che la sciocca riÂflessione di un amico gli fece sostituire con un vaso di fiori. La sua storia tende a confondersi con la croÂnologia delle sue opere; la sua personalità s’annulla dietro il lavoro, con una discrezione quasi aggressiva. Risultato di tale riservatezza è che Seurat appare come un artista che non abbia avuto giovinezza nel senso abituale di questa parola. Ignorandone il corso delle meditazioni ma conoscendone le letture – dalla lettera a Fénéon del giugno 1890 -, si tende a supÂplire alla mancanza delle prime mediante alcune annotazioni di Chevreul, Charles Blanc e Sutter. Egli stesso invita a ciò, quando afferma: “Essendo la puÂrezza dell’elemento spettrale la chiave di volta della mia tecnica … Cercando, da quando tengo in mano un pennello, una formula ottica su questa base (1876-1884)”. Ma, come tutte le sue rare confessioni, anche questa è calcolata; è anzi, in un certo senso, alquanto ingannatrice; essa attesta una linea di condotta supeÂriore, un avvio ideale, ma non spiega un percorso infinitamente più sottile e singolare. Seurat ha un punto di partenza quanto più lonÂtano possibile dall’impressionismo. Il suo maestro Lehmann è allievo di Ingres; i suoi primi saggi noti sono copie dell’Angelica, un ritratto che può far pensare a Couture, e una strana piccola copia del Pauvre pècheur di Puvis de Chavannes: e nulla consente di penÂsare che Seurat non si trovasse a proprio agio in questo ambiente dedito alla composizione metodica, tutto l’opposto della spontaneità e dell’improvvisazioÂne ‘sur le motif’ propugnate da Monet e dai suoi amici. Pissarro ha acutamente avvertito tale diverÂsità di natura; quando, nel 1888, scoppia il primo conflitto fra il diffidente Seurat, sollecito della sua ‘priorità ’, e i suoi amici, Pissarro scrive laconicamente a Signac: “Seurat appartiene alla Scuola di Belle Arti, ne è impregnato … Stiamo dunque in guardia: qua è il pericolo”. Ma si trattava certamente, per il giovane Seurat, di dare basi nuove all’arte tradizioÂnale della composizione, di radicalizzarne i princìpi e perciò stesso trasgredirli. Tale è anzitutto il senso delÂl’orientamento ‘scientifico’; esso implica la ricerca di un ‘principio poetico’ esatto della pittura; suppone la meditazione, non già dell’ispirazione, ma dei proÂcedimenti degli antichi maestri. Lo studio dell’opera di Delacroix, che egli persegue con tante attenzioni nel 1881, non risponde, come per Monet o per Pissarro. a una volontà di emancipazione, bensì alla riÂcerca delle leggi di una superiore invenzione. L’impressionismo, che egli conosce intorno al 1883 attraverso l’opera di Monet, di Renoir e di Pissarro, interviene come una sfida magnifica, rivelando con mezzi clamorosi i giochi della soggettività errabonda e sfarzosa. L’arte di Seurat è ancorata al polo oppoÂsto: per lui non si tratta, come hanno detto Fénéon e Signac e tanti altri dopo di loro, di assorbire, di ‘riformare’ l’impressionismo, bensì di dominarne, di conquistarne e infine di ridurne l’apporto, grazie ai princìpi che questi maestri erano incapaci di formuÂlare. La coscienza deve soggiogare l’intuizione. Il solo punto che consente di accomunare il cammino di Seurat a quello di Monet, di Pissarro e di Renoir è l’abbandono del quadro storico. La pittura dev’essere per lui totalmente attuale, ‘assolutamente moderna’, come diceva Rimbaud. Perciò i temi deÂvono essere attinti all’ambiente circostante, al mondo vicino: paesaggi, scene di vita contadina, folle domeÂnicali … Ma questa stessa scelta, che per Monet o per Pissarro ha il fascino dell’immediato, del fortuito, asÂsume in Seurat un carattere tutto diverso, impreÂgnato di una imprecisabile necessità : egli dipinge imÂmagini di lavoro campestre – e rimane, negli schizzi di contadini (1882), qualcosa dell’accento di Millet —, oppure immagini di ‘tempo libero’, con il suo torpore o i suoi riti; entrambi, in fondo, lavoro e riposo, altrettanto fatali e strutturati. Né manca, nei paesaggi, il risvolto sociale; vi si trovano infatti, quaÂsi sempre, ora officine, attrezzi navali, imbarcazioni, ora pescatori alla canna. Il mondo di Seurat è racÂcolto e come chiuso u se stesso, a differenza di quello degli impressionisti che, al paragone, sembra tutto esuberanza e libera espansione. Si capisce che la torre Eiffel, simbolo del progresso tecnico, struttura trionÂfale dominante un’intiera città , gli sia parsa degna di essere trattata come un personaggio di cui faccia il ritratto. La prima comparsa della ‘scrittura rigorosa’ di Seurat si trova nei grandiosi studi in nero, a matita o a carboncino, trasposti talvolta in olio, come nella piccola tavola, davvero assai sorprendente, intitolata L’invalido (intorno al 1881). Volti familiari, figurine stagliate su un fondo di città … subiscono una radiÂcale riduzione all’ordine di valori e a forma geomeÂtrica: un’identica operazione, filtrando la luce sino ai limiti della penombra e semplificando le apparenze, inscrive l’oggetto sul foglio come un volume dolceÂmente modellato, come un contorno prigioniero degli assi elementari dello spazio. La seconda manifestazione del talento specifico dell’artista tocca il mondo o piuttosto il fenomeno universale del colore: si rileva negli schizzi del 1882-1883, le cui pennellate intersecantisi producono, spesso su un fondo oro o verde smagliante, un effetto gradeÂvolissimo di vibrazione. Queste due serie di esercizi saranno perseguite, durante i dieci anni dell’attività di Seurat, con una maestria sempre più sicura, più inÂtensa e, se così può dirsi, più gloriosa. Essi consentono una presa di possesso integrale e definitiva delle apÂparenze. Svuotato in un primo momento di ogni coÂlore, volto integralmente al nero e al chiaro, il mondo visibile si risolve senza residuo alcuno in forma e direzione: basta vedere che cosa da il celebre ritratto di Signac col cappello a cilindro, del 1889; poi, sotto la bacchetta magica, tutto riappare come un carosello di raggi luminosi, o meglio, per essere più precisi, come uno stupendo intrecciarsi di effetti determinati secondo almeno quattro aspetti: tono ( rapporti ombra-luce), colore (rapporti di caldo-freddo), luce inciÂdente e riflessi, se è consentito di riassumere così inadeguatamente le regole dell’analisi secondo Seurat. In tal modo ogni fenomeno suscettibile di rappresentaÂzione pittorica si scompone nei suoi elementi primari. E in questo duplice movimento il superiore punto d’appoggio è trovato; il ‘sistema’ diviene possibile. Il seguito lo ha ampiamente dimostrato. A parÂtire dal 1884, Seurat, sicuro di sé, produce l’uno dopo l’altro una decina di capolavori che stupiscono non tanto per il concatenamento dialettico, evidente nella loro successione, quanto per la regolarità stessa di tale produzione. Seurat costruisce il proprio catalogo, vale a dire l’insieme della sua opera, con lo stesso impegno con cui costruisce ogni quadro. Tutto avvieÂne come se il pittore, forte del suo ‘sistema’, non doÂvesse più che svilupparne le conseguenze l’una dopo l’altra: ha potuto pensarlo, lui, e coloro che andavano da lui con un misto di timore e di ammirazione hanno potuto crederlo. La Baignade, con la sua serrata orgaÂnizzazione, è una integrazione al ‘sistema’ dell’arte delle sfumature seguita da Corot, dai frequentatori di Barbizon, da Pissarro; la Grande Jatte introduce in contrasti metodici un’accesa tavolozza e ne suborÂdina la vivacità a una ripartizione severa degli eleÂmenti; nelle Modelle, è per la prima volta accettato totalmente il ‘pointillisme’, vale a dire il mosaico di minuscoli puntini di colore, sperimentato nelle maÂrine e nei paesaggi dei mesi precedenti; nella Parata, tutte queste disposizioni sono soggette a una struttura matematica, secondo una potente rete statica elaboÂrata partendo dalla sezione aurea; le ultime opere, lo Chahut e il Circo, rispondono al desiderio di afÂfrontare i temi del gioco e del movimento cari a Degas, componendo quadri esaltati dalla gamma dei toni e dal gioco delle linee ‘dinamogene’, secondo l’orribile espressione usata da Charles Henry e riÂpresa da Fénéon. Questo approssimativo itinerario da l’impressione di un’attività da virtuoso, il quale applichi in ogni opera uno schema predeterminato o un progetto comÂpositivo minuziosamente calcolato come quello di un architetto; e quest’idea sarebbe certo piaciuta, a SeuÂrat. Ma la complessità subconscia delle intenzioni si traduce nell’abbondanza dei disegni e degli studi preÂparatòri. Particolarmente numerosi per la Baignade e la Grande Jatte, essi rendono evidenti i processi miÂnuziosi e delicati mediante i quali deve compiersi il passaggio dallo stadio analitico dei disegni in biano e nero e dei ‘bozzettini’ a colori allo spazio architettonico del quadro. Seurat, primo tra i moderni della nuova generazione, è ossessionato dalla ‘grande comÂposizione’. Accolta con un certo stupore dagli artisti. la Grande Jatte ha segnato una data decisiva non solo per il suo concetto singolare, e i suoi buffi partiÂcolari, ma anche e soprattutto per il formato giganÂtesco e l’ambizione monumentale. Di nuovo si era, qui, agli antipodi del brio impressionistico. Senza la Grande Jatte è consentito di pensare che non avrebÂbero veduto la luce né il Moulin-Rouge di Toulouse-Lautrec, né il Chi siamo…? di Gauguin, e neppure, forse, più lontanamente nel tempo, le Grandi bagnanti di Cézanne. Nel ‘sistema’ di Seurat entra la preoccuÂpazione di restituire, a un’epoca che lo perde, il senso della grande composizione pittorica: il fregio degli arcieri di Susa (ch’egli poteva vedere al Louvre proiettato negli ampi ritmi di Puvis de Chavannes (ch’egli ben conosceva), moderno e arcaico a un tempo. Questa rapida traiettoria, interrotta da una morte prematura, lascia pensosi. Che cosa sarebbe divenÂtata dieci, venti anni più tardi, quest’arte imperiosa Avrebbe egli spinto più avanti la meravigliosa concentrazione formale perseguita nelle Modelle e nella Parata, o la diluizione whistleriana, per così dire, che appare nel Canale di Gravelines?; o avrebbe piutÂtosto accentuato l’audace nota popolare che ha potuto suggerire alcuni accostamenti tra il Circo e i maÂnifesti di Chéret (R. Herbert)? Questo interrogativo traduce il sentimento della ricchezza latente di un’opera che non ha mai cessato di essere affascinante e un poco remota; opera paradossalmente completa, e tale che non si può dire se lo sia grazie alla tensione inteÂriore ingenerata dal ‘sistema’ o nonostante le ingiunÂzioni di questo. Nessuno di questi quadri, infatti, sugÂgerisce un’emozione semplice; l’effetto è smorzato, indiretto, come se, anziché mirare a uno spettacolo, puntasse sul quadro dove esso è evocato. Seurat ha dato proprio un’indicazione di questo genere, ponenÂdo la Grande Jatte su uno dei muri delle Modelle, vale a dire presentando il suo quadro sul fondo di un altro quadro: particolare distanza, messa in risalto dopo il 1887 dall’abitudine di dipingere un bordo all’interno di ogni tela o di colorare a modo suo la cornice del dipinto. In tal modo la pittura tende ad arretrare, a stabilire una barriera, più o meno ovatÂtata di silenzio, fra sé e lo spettatore. Seurat era, dicono, stranamente silenzioso; lasciaÂva che gli altri parlassero per lui. La facondia di Signac, gli acuti aforismi di Fénéon, le dissertazioni astratte di Charles Henry hanno rapidamente colÂmato il vuoto creato dal mutismo del pittore. Non senza rischi si è così formulato, con l’approvazione dell’ ‘iniziatore’, il concetto di un ‘impressionismo scientifico’ al quale sarebbe appartenuto il futuro. Interpretazione spiccia nella quale, infine, Seurat, non senza inquietudine e scontento, si è visto minacÂciato di essere rinchiuso. Le sue manifestazioni di diffidenza e la sua irritazione nei confronti del naÂscente gruppo dei ‘neoimpressionisti’ sono interpretate di solito con reazioni di un orgoglio accanitamente proteso a conservare la priorità delle iniziative. Ma Seurat si sforza anche di mostrare a Fénéon che la sua ispirazione viene da lontano, da molto lontano; lascia intendere che essa sconfina in un segreto, senza dubbio comunicabile negli stadi intellettuali che ne derivano, ma forse anche inesauribile e tale, in ogni caso, che lui, Seurat non potrebbe esserne privato. La parola ‘segreto’ è stata spesso pronunciata nei riguardi del pittore della Grande Jatte; il che riconduce cuÂriosamente al tempo in cui, secondo il Vasari, i pitÂtori s’invidiavano a vicenda e talvolta si rubavano le formule. Vi è un ‘segreto’ nel ‘sistema’ di Seurat, ma un aspetto può esserne esplicito: il sogno dell’arte-scienza. L”arte-scienza’. Si direbbe che per sfuggire defiÂnitivamente alla tradizione classica, l’innovatore debÂba ripassare dalla situazione che l’ha ingenerata. L’arte-scienza culmina nella volontà ostinata di LeoÂnardo il quale, per condensare nel quadro gli effetti sovrani della natura, si sprofonda nei calcoli intermiÂnabili dell’ottica e della teoria dei colori: il Trattato incompleto e complicato di Leonardo fu oggetto, del resto, di una lettura attenta da parte di Seurat. Gli spiriti preoccupati del ‘sistema’ non sono molti, in verità . Ma per essi i procedimenti non comprovati dall’analisi non sono più validi delle scoperte dell’intuizione. Si parte dal presupposto che il quadro si comporti come un frammento della natura; vi saÂranno applicati i dati di alcuni processi del mondo fisico, tentando di elevare ogni cosa al massimo delÂl’intensità mediante il controllo delle forme. Tale è l’atteggiamento degli innovatori del QuatÂtrocento e tale è quello di Seurat. Può spiegarsi in tal modo il suo ‘primitivismo’, l’analogia così impressioÂnante con le ‘simmetrie’ di Paolo Uccello e di Piero della Francesca, unici riferimenti che si possano troÂvare in tutta la storia della pittura per illuminare la maniera di Seurat. È il medesimo spazio articolato in fasce parallele e in scaglionamenti; la stessa luce verticale, chiara e diffusa, moltiplicante iridescenze e merlettature, o, al contrario, gli stessi giochi capricÂciosi dell’illuminazione artificiale; la medesima rotaÂzione lenta delle figure; e perfino l’identica attenÂzione per i copricapi piantati sulle teste. Alla Scuola di Belle Arti le copie di Loyeux degli affreschi di Arezzo non avranno fatto che confermargli le sue certezze. La ‘scienza’ di Chevreul, Rood eccetera, vale a dire la psico-fisiologia ottocentesca, è subito parsa, a Seurat, capace di attuare definitivamente questi prinÂcìpi. Essa offre una duplice armatura di lavoro: la nozione del ‘miscuglio ottico’ e quella dello ‘schemaÂtismo’ delle linee elementari. Fénéon e Signac si sono anzitutto aggrappati alla teoria del miscuglio ottico dei punti cromatici sulla base del ‘contrasto simultaÂneo’, che si è rivelata una delle più curiose finzioni pseudoscientifiche della storia dell’arte: teoria inesatta nelle sue premesse, non conforme all’insegnamento dei fisici ottici e infine impossibile da applicarsi integralÂmente. Ma non importa: essa ha condotto Seurat a un’analisi originale delle ‘percezioni oscure’ provocate mediante la distribuzione dei punti di colore sulla tela, e lo ha portato così a trattare con una delicaÂtezza straordinaria – che i suoi imitatori hanno raraÂmente posseduta – la pigmentazione stessa del quaÂdro: non soltanto gli effetti di chiaroscuro sono defiÂnitivamente assorbiti nel tessuto cromatico, e tutte le ombre, azzurre, verdi o rosa, sono colori, ma il tocco infinitesimo moltiplica le sfumature squisite, e infine il trattamento della superficie della tela a pennellate regolari consente di conferir loro una funzione ornaÂmentale e di sviluppare arabeschi melodiosi nel tono (Meyer Schapiro). Ogni quadro di Seurat è così l’ocÂcasione di scoperte, di cui L’entrata del porto a Port-en-Bessin è forse l’esempio più sfarzosamente raffinato. La teoria delle ‘direzioni’ primordiali non è meno arbitraria ed efficace. L’arte-scienza consiste anche qui nel ricavare dai meccanismi naturali i fattori meÂglio capaci di favorire l’intensità del quadro in conÂcordanza con un determinato tema. Le tre modulaÂzioni dello schema lineare: gaia, calma, triste, si acÂcordano con quelle dei toni, dove entrano in gioco i valori, e quelle dei colori, che risultano dall’effetto dei complementari. Così è nella lettera a Beaubourg, che parte da osservazioni di carattere assolutamente esoterico formulate cinquant’anni prima da Humbert de Superville e confusamente riprese da Charles Blanc. Chiunque altro, da queste premesse generiche e ingenue, avrebbe tratto un risultato ridicolo. Per Seurat fu l’indispensabile premessa di una ricerca delle forme archetipe, che soddisfa al duplice moviÂmento della regressione arcaicizzante e della riduzione scientifica. L’operazione del pittore si pone al punto d’incontro dell’arte solenne delle origini: Egitto, Sumeria… e della disciplina del futuro. L’ordine fondaÂmentale del quadro non fa che rendere esplicito l’orÂdine nascosto delle cose, ma al prezzo di una riforma fondamentale. Nessun elemento dev’esservi introdotto senza essere stato chiaramente identificato nella sua tenuta, vale a dire senza essere stato precedentemente ricollocato in una serie-tipo. L’organizzazione rigorosa del quadro implica la concezione di una struttura uniÂversale. Come dice Adrian Leverkühn, l’artista deve giungere così a crearsi “una specie di composizione che preceda la composizione”. Si può dunque situare Seurat, senza esitazioni, fra Mallarmé e Schönberg: una famiglia riconoscibile dalla tensione dello spirito e dall’ambiguità dell’opera, nonché dai suoi demoni attivi e segreti, che hanno definito lo scopo perseguito come “il compimento di un’aspirazione infinitamente antica, il desiderio d’imÂpadronirsi di tutto ciò che ha risonanza, d’integrarlo in un ordine e di dissolvere l’essenza magica della muÂsica nella ragione umana” (Th. Mann). Tale ambiÂzione, nel campo delle forme e dei colori, si chiama Seurat. Ed è così insensata, che si capisce come l’arÂtista abbia cercato di appoggiarla sulla ‘scienza’, dalla quale ci si aspettava tutto. Nondimeno, ironicamente, essa ha permeato soltanto le parti caduche della sua opera. Questi quadri. costruiti con tanto rigore, esistono soltanto grazie al prestigio dell’arte di cui dovevano scardinare i sosteÂgni. La risposta deve dunque capovolgere i termini: “II tuo sistema”, si risponde a Leverkühn, “sembra fatto, invece, per dissolvere la ragione umana nella magìa”. Come tutte le grandi creazioni moderne, l’oÂpera di Seurat è valida grazie all’inestricabile conÂgiunzione di una problematica intellettuale e di una sfrontata seduzione. Sembra impossibile spiegarla in termini diversi da quelli adottati dall’artista: solo il diamante può scalfire il diamante. Letto 571 volte.

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