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PITTURA: I MAESTRI: Toulouse-Lautrec: Una ‘Recherche’ all’indicativo presente21 Febbraio 2019
di Giorgio Caproni II mio primo incontro con Toulouse-Lautrec avÂvenne dalla parte sbagliata, cioè dalla parte del cuore. Compitavo ancora il De bello gallico quando, va’ a riÂcordar come, m’imbattei nel ritratto d’Hélène Vary. Quel profilo fiero e un tantino protervo, quell’espresÂsione dolce e, insieme, forastica, quegli occhi, quella bocca, quel busto imperioso di diciassettenne, lo scatto di tutta la svelta personcina nonostante l’abbandono delle mani sul bianco che ha in grembo, chi se li levaÂva più di dosso. È un volto che, come ogni primo amoÂre, m’è rimasto nella pelle. E chissà ch’io non debba a quell’improvviso e fortuito incontro, più che a una ragionata scelta, tutta la mia futura predilezione, nelÂl’intera galleria di Lautrec, per le sue immagini femÂminili rispetto alle maschili, le quali sempre, fatte le debite eccezioni (il sinuoso e aereo Chocolat nel bar d’Achille, per esempio, e l’ogni volta ‘grandioso’ AriÂstide Bruant: da quello in bicicletta all’altro, celeberÂrimo, con la sciarpa rossa), mi son sembrate un poco figure d’accompagnamento, o comunque, spesso e VoÂlentieri, lievemente colorate — caricate — d’un’ironia da me di rado sentita nella voliera delle sue tante figure e figurine muliebri, comprese le più divertite o, come la tronfia virago nel programma per l’Argent di Emile Fabre o Mlle Cocyte nella Belle Hélène, le più pesanti. Mi sbaglierò, ma son convinto che siano proprio le sue svariate donne e donnine, tutte o quasi tutte ‘punte’ sul vivo d’un Montmartre ancora nascente ma già sparato diritto verso il proprio trionfo e tripudio, a dar la misura giusta, e la natura, della vera granÂdezza di Lautrec: della sua straordinaria carica proÂpulsiva — d’invito e d’incitamento, tutto terrestre, alla vita, alla giovinezza oltre qualsiasi fatua adulaÂzione o ipocrita esaltazione — che nell’inesauribile vena ritmica, e nella gioiosa ma controllatissima foga, sa compiere il miracolo di non travalicare mai, col suo entusiasmo, la verità e il dolore che spesso n’è il sotÂtofondo. Le conosciamo tutte per nome, queste sue eroine, nessuna delle quali è inventata: dall’elegantissima e colta Misia Natanson alla Goulue (Louise Weber, che debuttò sedicenne all’Elysée-Montmartre e all’ancor proletario Moulin de la Galette prima di diventare una delle più furoreggianti rouges meunières); dalla clownesse Cha-u-Kao alla Môme Fromage, che a braccetto della Goulue in una delle prime grandi litoÂgrafie a colori di Lautrec ne fa risaltare, con la sua nera corpulenza, l’agile e luminosa silhouette; da Yvette Guilbert e Jeanne Granier a May Belfort e a May Milton; da Jane Avril a Mlle Eglantine con la sua indiavolata troupe; da Loïe Fuller, o ‘il trionfo dell’elettricità ’, a Mme Poupoule, una strana fille più volte ritratta negli ultimissimi anni e che ammiriamo soprattutto, carnalmente maestosa, in Le coucher: dalla perfida Valadon alla fine e dolce Louise Blouet. sua ultima consolatrice, della quale rimane un delicatissimo ritratto (La modiste) nella cui raccolta e genÂtile malinconia Lautrec par aver espresso nel modo più toccante il sentimento della propria fine immiÂnente. Come ricordarle tutte, effimere stelline d’un giorÂno o grandi dive, povere pensionanti di ‘case chiuse’ o fini intellettuali, chanteuses da cabaret o regine delÂla scena, tutte, in un modo o nell’altro, con le loro piume, i loro vezzi, la loro semplice carne, il loro taÂlento, generose dispensiere d’illusione? Ma sono loro. ripeto, a darci intera la misura della forza di Lautrec: dico della forza, non della grazia o della semplice eleÂganza, una forza che gli ha permesso d’essere l’interÂprete più acuto, anziché il brillante cronista, del fasciÂno muliebre da cui era irresistibilmente attratto e della stessa frivolezza che lo accompagna. È nelle movenze d’un corpo femminile, in riposo o nel turbinio della danza; è nello scarto d’una gamÂba, nella piega d’una bocca, in un gesto, in uno sguarÂdo, colti nel preciso e irripetibile istante della loro massima espressività , che Lautrec riesce a trasmetterci intero il fremito della vita: il guizzo della lucertola, il salto della cavalletta, il sussulto improvviso d’un peÂsce, il volteggiare d’una farfalla, insomma tutto ciò che di più vivente ha la natura, da lui sorpreso nel mutevolissimo caleidoscopio della ‘capitale del piaceÂre’ grazie all’infallibilità unica del suo disegno, anzi del suo ‘segno’ inconfondibile, nel quale par consisteÂre, più che nel colore, tutto il suo segreto. Dove l’aveva imparata, tanta prontezza d’occhio e di mano? Aveva quattr’anni quando, coi genitori, ebbe a reÂcarsi in chiesa per il battesimo d’un fratellino. VedenÂdo che tutti firmavano su un registro: “Anch’io!”, protestò. “Ma non sai scrivere”, gli disse la mamma. “Che importa, farò un bove”. Dell’aneddoto, che traggo dal volumone Lautrec par Lautrec curato per il centenario della nascita da Huisman e Dortu, non mi servirò per staccar dall’atÂtaccapanni, come un qualsiasi prét-à -porter, la troppo facile risposta: ” Lautrec aveva dunque il disegno nel sangue ” ; ma piuttosto, e contropelo, per poggiarvi soÂpra un’altra (relativa) banalità , e cioè per dire, senza però arrischiare nessuna formula giuratoria, come già da allora, per lui, disegno e scrittura fossero una cosa sola; o meglio come, per Lautrec, soltanto il disegno fosse l’unico mezzo grafico — come alle origini, prima dell’invenzione dell’alfabeto — a lui concesso, o da lui scelto, per scrivere la sua svariata ma così stringenÂtemente concentrica Ricerca del tempo presente, se per amor di parallelismo è lecito adombrare un tale titolo per la sua opera, che del resto non sfigurerebbe davvero, né acquisterebbe un troppo forte sapore di forzatura, quale ‘verso’ della grande Recherche prouÂstiana. In effetti, tenuto nel debito conto ogni ovvio décaÂlage, più d’un punto di contatto esiste, non effimero o gratuito, tra Proust e Lautrec. E non solo sul piano biografico e psicologico — il comune attaccamento alla madre, per esempio, l’infermità che spinge entrambi a cercar nell’arte uno sbocco all’irresistibile amor vi-tae, l’eguale uggia per le teorie, l’identica fiducia nelÂl’istinto e nell’artigianato —-, ma proprio sul piano del risultato ultimo; tanto che se vogliamo due testimoni non sospetti della Parigi fin de siècle o della belle époque, è proprio a loro — côté faubourg Saint-Germain per l’uno, côté Montmartre per l’altro — che dobbiaÂmo ricorrere, privi come sono, entrambi, di preoccuÂpazioni ideologiche (sociali ecc.) e quindi di occhiali colorati interposti fra il loro sguardo diritto e la vita viva e reale così com’essa veramente ed esistenzialmente è, da tutti e due assaporata (da Marcel addiÂrittura centellinata) in tutto il suo concreto gusto, aspro o dolce, senza sentir la minima necessità di carezzarla aggiungendo zucchero, o di mortificarla aggiungendo assenzio. (Penso all’adorabile Albertine-col-raffred-dore). Certo, le vie seguite sono diametralmente opposte, e non v’è dubbio che se Proust fosse stato un pittore, avrebbe accettato in pieno quanto invece, dell’ImpresÂsionismo, rifiutò Lautrec. Avrebbe cioè optato per il colore, la luce in perpetuo movimento e cangiamento, il plein air (lui che se ne stava rinchiuso per custodire o risuscitar meglio il tesoro d’aria e di biancospini che aveva dentro), ponendosi sulla traiettoria, grosso moÂdo, Delacroix – Renoir, mentre Lautrec non esitò tropÂpo, una volta ‘scelto’ Montmartre, ad andar controÂcorrente e a optare, sulla traiettoria Ingres-Degas, per la linea e il disegno come fondamento. Senza contar poi — altra differenza sostanziale fra i due — che Proust cominciò a lavorar tardi, sulla memoria, menÂtre Lautrec si trovò a operar nel vivo della gioventù e dell’azione, lì a guardar tutto occhi (quei suoi granÂdi occhi neri e fureteurs] lo spettacolo che gli si svolÂgeva innanzi e all’intorno, e nient’affatto dentro; spetÂtacolo che lo incantava pei suoi personaggi di qualÂsiasi specie fossero, compreso se stesso, schivo ma non così ipocrita da nascondersi dietro le quinte, tutti visti da lui con una simpatia umana che, in nessun modo, poteva permettergli di tradirli facendone dei semplici modelli per costruire, con un pezzo dell’uno e un pezÂzo dell’altro, o comunque deformandoli, ‘altri’ personaggi ‘ideali’. “J’ai tâché de faire vrai et non pas idéal”, ha lasciato scritto). Se il tempo di Proust è l’imperfetto, è una pittura, quella di Lautrec, tutta al presente, anzi all”indicativo’ presente, senza mostrar traccia né del soggiuntivo né del condizionale. Ma ciò che accomuna — recto e verso — Proust e Lautrec è, ripeto, il risultato finale: la vita schiettamente rappresentata com’è e non come dovrebbe essere, in quella giusta e unica dimensione naturale che, alla maggior parte dei naturalisti, sfuggì proprio per il loro impegno sociale o morale: proprio per la loro volontà di giudicarla, di cambiarla. Lautrec non ci pensava nemmeno a voler cambiaÂre il mondo, e per questo forse ha così sensibilmente contribuito a modificarlo. Bello o brutto che fosse, buoÂno o cattivo, reo o innocente, a lui interessava una cosa sola: non perder la bella occasione offertagli con la nascita, e guardarlo, vederlo, scoprirne il segreto nelle linee precise d’un volto, d’un braccio, d’un abito, linee mobilissime e fuggevolissime ma ch’egli sapeva coglieÂre e fissare nell’attimo giusto e unico, irripetibile, tutto interessato com’era agli attori di quel gran teatro che per lui era la società degli uomini, e poco o nulla al fondo di scena o alla stessa trama del dramma o della farsa; e tantomeno a un qualsiasi giudizio, sia pure soltanto estetico, sulla ‘cosa vista’. Vederlo, scoprirlo e quindi, sulla tela, sul cartone, sulla pietra litografica, rappresentarlo a sé prima che ad ogni altro. A sé, geÂlosamente, anche se con le sue tante e tante illustraÂzioni su libri, giornali, riviste, soprattutto con le sue famose affiches, fu tra i primissimi a far entrare la pitÂtura — come l’acqua e il gas — in casa di tutti, a farÂla correre sugli stessi muri di Parigi, e insomma ad approfittar dei nuovi mezzi meccanici per esperia deÂmocraticamente (e magari — autentica prostituzione dell’Arte! — con un preciso scopo pubblicitario) agli occhi di chicchessia, peggio di ces dames che almeno, loro, si mostravano e si prostituivano al chiuso. Ces dames da lui così umanamente studiate e poi magiÂstralmente raffigurate in Elles, presso le quali il conte Henri de Toulouse-Lautrec Monfa (altro che salotto Guermantes!) si divertiva un mondo a ricevere le perÂsone ‘di riguardo’, che ignare del tranello si recavano all’indirizzo da lui fornito, salvo naturalmente uscirne scandalizzate o coi capelli ritti, come il grande merÂcante d’arte degli Impressionisti Durand-Ruel, difenÂsore dell’avanguardia, che avendo sollecitato un apÂpuntamento, poi si guardò bene, borghesissimo e très prude, dal raccontare in giro come il pittore, proprio nel salon di rue des Moulins, pomposo boxon in stile moresco, lo avesse accolto circondato dalle proprie tele e dalle pensionanti. È un altro aneddoto tratto dal volume citato, e valÂga, non foss’altro, a darci un’idea di quanto scanzonaÂto fosse il vero spirito dell”infelice’ Lautrec, per nulÂla corrispondente al doloroso cliché romanticamente montato da biografi che poco lo conobbero o da ciÂneasti che a quelli s’ispirarono, e che in fondo è il vero spirito che anima le sue opere, tutte improntate a una verve che di romantico o di maledetto (o di leoparÂdiano, se vogliamo restare in casa nostra) non hanno nemmeno l’ombra. È una verve, un brio, uno slancio, un empito di vita che non s’offusca nemmeno quando, dal cantino, Lautrec passa sulla quarta corda e tocca i temi più ‘gravi’, come appunto in quel suo stupendo Au salon de la rue des Moulins, d’una trattenuta forza, d’una sotterranea potenza, d’una gravita timbrica nella veÂlata profondità del diapason, d’una cavata, sarei tentato di dire, quasi verdiana per volume e compattezza anche se tutta tenuta in sordina, tanto più sorprenÂdente se si pensa all”opacità ’ del soggetto, che di certo non ha né l’appassionata foga melodrammatica e mondana né la sentimentale e canora ardenza della Traviata, ma che affascina proprio per lo spessore anÂtiromantico e così umano di quelle carni spente d’ogni passione, di quelle calme e nient’affatto tormentati-masse (di quei grands quartiers d’amour, avrebbe detÂto Laforgue) che hanno tutta la maestosa ‘stupidità . nell’inerzia della loro abbandonata attesa e nell’assenÂza d’un qualsiasi leggibile pensiero, della natura, e che pur sentiamo, senza che un solo soffio di sensualità ci sfiori o un solo moto di repulsione ci turbi, così domeÂsticamente vicine a noi, così casalinghe. Tanto da farci capir di colpo come, con Mireille, con Rolande, con le altre, Lautrec, senza nulla di morbosamente comÂpiaciuto, potesse trovarsi a tutto suo agio, come del resto, nonostante l’infermità e grazie al suo spirito, si trovava perfettamente “à l’aise dans l’existence, à l’aise dans le commerce des homrnes de toutes les conditions” (Jourdain). Au salon, si sa, è una delle opere capitali di TouÂlouse-Lautrec; ma se volessimo un’altra prova — Li prova massima, pur se su tutt’altro registro cromatici, e spirituale — di questa sua straordinaria capacità di contenere e di condensare tutta la carica d’energia che aveva dentro (capacità venutagli da una rigida disciplina oltre il suo apparente lasciarsi andare), gioÂcoforza è citare, in vetta a tutta la sua produzione arÂtistica, quel ritratto di Cha-u-Kao — alias Chahut-Chaos, ballerina, acrobata, clownesse da lui più d’una volta disegnata o dipinta — che Lionello Venturi non esitò a definire uno dei capolavori della pittura franÂcese, e che da solo basterebbe a sfatare, ce ne fosse bisogno, l’ancor corrente luogo comune d’un Lautrec grande soprattutto, dico nell’opinione della maggior parte del pubblico, come nervoso e vivace illustratore, o come ‘portentoso’ (lo fu, in effetti) cartellonista. Più che mai fedele al suo principio che “solo la figura esiste” e che “il paesaggio non è che un accessorio”, e più che mai lontano dai sapientissimi impaÂsti cromatici e dalle luminescenti polverizzazioni e difÂfrazioni dei “grandi lirici della pittura” (come furono chiamati gli Impressionisti) ; lui che non è mai stato un ‘lirico’ ma sempre — ed è qualcosa di più — un poeta, è grazie all’estrema sensibilità della linea, coÂsì diversa dal sensibilismo allora imperante, e a poche e in apparenza quasi distratte pennellate d’azzurro, di bianco, di giallo e di rosso, che in questo suo ‘celeste’ ritratto riesce a creare, e vorrei dir meglio a cogliere e a restituire, fondendo da maestro la frivolezza delÂl’acconciatura con la densità e la pesantezza della carÂne sotto il cerone, un volto d’una forza espressiva (il perfetto contrario dei volti così umani ma inerti di Au salon) tanto più calamitante, nell’affranta nobiltà delÂla sua autunnale bellezza, quanto più vi senti raccolÂto e contenuto tutto il mistero d’un romanzo avvincente perché sfuggente, fonte d’una serie pressoché inesauÂribile d”armonici’ sulla semplice (ma quanto fertile di magie e di sollecitazioni) reliquia rimastane. Che tanta trattenuta forza esploda in tutta la sua gioiosa esuberanza; che le voci di contralto cedano, senza che peraltro s’allenti il controllo d’un acutissi-mo spirito autocritico e d’un impareggiabile senso delÂla misura, al libero erompere del ‘tutti’, e avremo il ‘brindisi’ — la joie, nel senso antico e pieno della parola — della girandola ritmica e timbrica, trasciÂnante e irresistibile, della Dame au Moulin Rouge e di Marcelle Lender dansant le ballet de ‘Chilpéric’, tanto per fermarci ad altri due capisaldi della pittura di Toulouse-Lautrec. Il bambino che voleva firmare con un bove e che in seguito non perdeva occasione per disegnare su quaÂderni e libri scolastici tutto ciò che di attraente e di fuggitivo aveva la vita intorno a lui, inaugurando fin da allora la sua golosa caccia al ‘presente’ ; il pittore che ben possiamo dire, a cuor tranquillo e con docuÂmenti alla mano, entrato nella sua heure d’art a bordo d’un’indiavolata calèche lanciata a briglia sciolta; il nobile contino che al rovescio del borghese Proust volÂle cercar la poesia e la verità non nelle fiorite serre della memoria o negli intellettuali e aristocratici saÂlotti, ma negli hauts lieux del piacere e della fatuità a Montmartre, pare aver espresso proprio in queste due tele, così diverse nell’affinità del soggetto e nella coerenza stilistica, la summa (i due poli estremi) di tutta la sua libera arte che mai si lasciò ingabbiare in uno dei vari ‘ismi’ allora in auge: la summa di tutto quel suo saper cogliere, nella donna in particolar moÂdo, sull’intera gamma delle sue seduzioni, non tanto il fiore della bellezza in senso classico o idealizzante, benÂsì il fiore più segreto della sua interna e primigenia vitalità , popolaresca e quasi animalesca nella danzaÂtrice del Moulin Rouge (che appare ancor più ‘terreÂstre’ nel contrasto col quasi filiforme ma compassatis-simo Valentin e con l’invidiosa contegnosità delle due borghesi che la stanno osservando in primo piano), brillante e pungentissima nell’infiocchettata e profuÂmata ‘pariginità ’ di Marcelle Lender che, dal fondo quasi vespertino del quadro, lancia in faccia allo spetÂtatore, come un grosso garofano di fuoco, la scampaÂnata e sventagliante vampa della sottogonna spalanÂcata dalla giravolta del bolero. Oggi, tutte o quasi tutte le eroine della gran balÂlata fin de siècle sono fisicamente morte, come irrepaÂrabilmente morto è il Montmartre che le vide nascere e trionfare. Ma tutte, dalla più opacamente carnale alla ‘mia’ dolce e proterva Hélène, vivono e continueÂranno a vivere, ciascuna coi suoi propri doni e il suo proprio carattere, nella più che mai viva pittura di Toulouse-Lautrec. Senza la quale, certo, non si potrebÂbe capire a fondo la belle époque, ma che non è granÂde soltanto per questa sua testimonianza, ma sopratÂtutto perché, nella belle époque, ha saputo cogliere valori d’umanità (allegria e miseria) che sono anche quelli d’oggi, così come saranno quelli di domani e di sempre. Letto 967 volte.

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