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PITTURA: I MAESTRI: Van Dyck: Il Mozart della pittura28 Febbraio 2019
di Erik Larsen I (1613-1626) Quando si pensa ad Anton van Dyck è inevitaÂbile che venga alla mente il nome di Peter Paul Rubens. “Comparaison n’est pas raison”, dicono i francesi: ma è pur vero che la prepotente personaÂlità del maestro di Siegen ha semplicemente domiÂnato su tutta l’arte fiamminga della prima metà del Seicento, tanto da condizionare inevitabilmente con la sua potenza, la sua vitalità creativa, la vigoria stesÂsa delle sue opere — una vera e propria forza della natura —, il nostro modo di accostarci al più giovane artista. Rubens e Van Dyck sono stati spesso paragoÂnati al Sole e alla Luna, ma il confronto non è del tutto esatto, dal momento che l’opera vandyckiana non può certo essere considerata un semplice riflesÂso di quella del grande maestro. Tuttavia, quando c’è chi regna incontrastato, gli altri finiscono sempre con l’incontrare maggiori difficoltà nell’affermarsi, e a tale proposito basti pensare alla rivalità esistente fra Shakespeare e Ben Jonson: se non vi fosse stato il primo, con tutta la sua grandezza, il secondo avrebÂbe primeggiato nel teatro moderno. Analogamente, la sfortuna di Van Dyck è stata quella di nascere nelÂla stessa epoca di Rubens e di essere quindi semÂpre giudicato alla luce di quel genio esuberante, mentre in altre circostanze avrebbe potuto imporsi come protagonista nel suo campo. Van Dyck fu artista versatile e multiforme. Noto soprattutto per i suoi ritratti — grazie ai quali si conÂquistò un indiscusso primato come interprete abile, raffinato ed elegante dei personaggi che posarono per lui — egli raggiunse risultati eccellenti anche nelÂla pittura di carattere religioso. Quanto alle comÂposizioni di natura mitologica e storica, minore è il numero delle opere giunte fino a noi. Laddove RuÂbens dominò con la sua potenza e il suo disinvolto dinamismo, Van Dyck si distinse — salvo che durante gli anni del suo apprendistato all’ombra del grande maestro — per il suo splendore quasi nevrotico e una certa inclinazione, tutta manieristica, verso il preziosismo. Per tutta la vita egli tentò vie sempre diÂverse, dalla spontaneità un po’ ingenua all’adattaÂmento dello stile rubensiano, dal recupero di eleÂmenti tipicamente italiani alla plasticità fiamminga, fino a concludere il suo ultimo periodo inglese come pittore di corte, decorativo e rivolto nuovamente ai modi espressivi del manierismo; senza dimenticare, beninteso, le profetiche anticipazioni del Rococò riÂscontrabili nelle sue ultime opere. La fama e la rinomanza gli vennero assai presto, e la sua influenza come ritrattista durò a lungo. E mentre lo stile di Rubens era destinato a estinguersi con il maestro, quello di Van Dyck è sopravvissuto alla morte dell’artista. In un certo senso, Van Dyck potrebbe essere deÂfinito il Mozart della pittura. Era nato ad Anversa il 22 marzo 1599, da un’agiata famiglia di mercanti. Il padre, Frans, si dedicava al commercio delle sete e d’altre stoffe; la madre, Maria Cupers, sposata in seÂconde nozze e morta quando l’artista aveva appena otto anni, è ricordata per la sua abilità nel lavoro di tessitura e ricamo degli arazzi. Settimo di dodici fiÂgli, molti dei quali vestirono l’abito monastico, Van Dyck ricevette una buona educazione e a undici anÂni, nel 1609-10, venne accolto come apprendista nella bottega di Hendrik van Balen, allora ‘Opperdeken’ della Gilda di San Luca, dove, tra gli altri giovani discepoli, era anche Justus Sustermans. Van Dyck dimostrò ben presto la sua precocità . Nel 1613, appena quattordicenne, firmava un Ritratto di vecchio oggi conservato nei Musées Royaux des Beaux-Arts di Bruxelles. Un anno dopo dipingeva il piccolo e straordinario AutoÂritratto dell’Akademie di Vienna, e a sedici anÂni apriva un proprio studio nella casa denominata ‘den Dom van Keulen’. È probabile che già allora egli avesse lasciato la bottega di Van Balen e fosse entrato in stretti rapporti con Rubens, e a questa collaborazione si devono alcune opere di grande interesse come, per esempio, la serie degli Apostoli di Aschaffenburg. Lo stile vandyckiano di quegli anni è in genere definito ‘schietto’, ‘grezzo’ o ‘spigliato’, e si caratterizza per una certa pesantezza, la sobrietà dell’impianto cromatico e un disegno plastico e paÂcato. L’artista, del resto, continuò a esprimersi seÂcondo questa maniera anche dopo essere entrato nella sfera d’influenza di Rubens, intorno al 1615, quando cominciò a far proprio il barocchismo delle opere del maestro. Le sue primissime composizioni si impongono infatti per la loro fedele riproduzione della natura e l’acerbo naturalismo mescolato a riÂchiami jordaeneschi, e di ciò è significativo esempio il Sileno ebbro di Bruxelles, nel quale la figura del Bacco è centrale e organizza tutta l’opera intorÂno al suo corpo dai lineamenti vigorosi e dai contorni marcati. L’influsso di Rubens appare viceversa eviÂdente nel Giove e Antiope di Gand, nel quale la figura di Antiope è resa con una pittura uniforme e vellutata, secondo una tecnica che ricorda il più tradizionale periodo rubensiano del 1611-14, con la sua maniera levigata ed elegante. Sui rapporti fra Rubens e Van Dyck si sono acÂcese infinite controversie: alcuni hanno infatti soÂstenuto che Van Dyck fosse stato in quel tempo diÂscepolo del più anziano maestro, mentre altri riduÂcono questo legame a una semplice collaborazione. Tutti i cronisti più importanti, dal Bellori in poi, soÂno concordi nell’affermare che Van Dyck fu allievo di Rubens, il quale, con le sue lezioni, consentì lo sviluppo di quel giovane talento. A mio avviso la reÂlazione risale all’incirca al 1615, divenne ancor più stretta verso il 1618-20 ed ebbe fine più o meno al tempo del primo soggiorno inglese di Van Dyck. PaÂrecchie composizioni rubensiane furono probabilÂmente eseguite in parte o interamente da Van Dyck: basti pensare alla serie di Decio Mure, per la quale il giovane artista redasse i cartoni e dipinse le tele. Lo stesso Rubens, del resto, scrivendo nel 1618 a sir Dudley Carleton per offrirgli alcune tele, parla di una di queste come di “un quadro di un Achillo vestito di donna fatto dal meglior mio discipolo, et tutto riÂtocco de mia mano, quadro vaghissimo e pieno de molte fanciulle bellissime”. Tutto lascia pensare che con la frase “del meglior mio discipolo” Rubens si riferisca proprio a Van Dyck. Intorno al 1617 Van Dyck dipinge il Gesù guarisce il paralitico, oggi nelle collezioni dei reali inglesi, altra opera ancora chiaramente imbevuta di motivi rubensiani. In precedenza, anzi, era stata attribuita allo stesso Rubens, ma in seguito tale giuÂdizio è stato corretto: in effetti, sebbene nel trattaÂmento dello spazio, nella composizione generale e nelle figure traspaia nitidamente la concezione pitÂtorica del più anziano maestro, la personalità vandyckiana appare con tutta evidenza nell’interpretazione generale del soggetto. All’incirca in quegli anÂni la pittura di Rubens, da quieta e distesa che era, sembra passare a una più vivace applicazione del coÂlore, che si fa più leggero all’interno di una visione complessivamente più barocca. Van Dyck sembra aderire a questa evoluzione, accostandosi a una maÂniera diversa, giganteggiante di corpi muscolosi, più profonda nei chiaroscuri e variegata in una calda gamma cromatica che si avvicina allo splendore delÂl’arte veneziana. I suoi ritratti, però, presentano uno sviluppo più sobrio e severo. I personaggi effigiati esprimono tutta la loro individualità , anziché rientraÂre nella genericità di una tipologia indifferenziata, come viceversa avviene nelle opere di Rubens, e nelÂl’ambito di questa sua maniera Van Dyck si dimoÂstra interprete serio e fedele delle diverse personaÂlità . Tutt’altro che semplice illustratore, egli riversa su quelle figure tutto il fascino del suo atteggiamenÂto cortese. Nel 1620 Van Dyck viene convinto a recarsi per la prima volta all’estero. La meta è fin d’ora l’InghilÂterra, e in genere si ritiene che a invitarlo alla corte di Giacomo I sia stato il conte di Arundel, ritratto due volte dall’artista. È a questo periodo che con tutta probabilità risale La continenza di Scipione del Christ Church di Oxford. Il soggiorno inÂglese è comunque brevissimo, e nel febbraio del 1621 l’artista è di nuovo ad Anversa. Sui motivi delÂla sua affrettata partenza e sulle opere completate in quel periodo sono state avanzate molte ipotesi. Risulta comunque che il sovrano inglese gli versò 100 sterline per lo “speciale servigio da lui reso”, probabilmente quadri eseguiti in quella occasione. Van Dyck rimase ad Anversa sette mesi. Negli ulÂtimi tempi era stato sempre più attirato nell’orbita dei maestri italiani, soprattutto Tiziano e Tintoretto. Non sono pochi i ritratti di quegli anni che denunÂciano, come quelli di Frans Snyders e di sua moglie Margarete de Vos, la loro derivazione dai modelli dell’arte italiana. Verso la fine della sua permanenza ad Anversa, il colore della sua pittura si era fatto più libero e decorativo. Le tinte diventano candide e schiette, i rossi, privi di lucore, si rafforzaÂno, gli incarnati acquistano toni bruni e le ombre appaiono qua e là come opache. C’è insomma in quelle opere una singolare libertà , un indulgere sulÂle pennellate lunghe e sinuose, un senso di creatiÂvità e insieme di audacia. A questo periodo risalÂgono gli Autoritratti nell’Ermitage di Leningrado, dell’Alte Pinakothek di Monaco e del Metropolitan Museum di New York, tutte opere che si staccano nettamente dall’abituale stile ritrattiÂstico fiammingo e che si distinguono per il maggior vigore, un impasto più pesante e una freschezza che ne fa delle creazioni assolutamente straordinarie, sia per quel periodo, sia perché frutto dell’arte di un così giovane maestro. Nel 1621 Van Dyck partiva alla volta dell’Italia, fermandosi a Genova presso i fratelli Lucas e Cornelis de Wael. Il soggiorno genovese durerà fino al 1626, inframmezzato da numerosi viaggi in varie reÂgioni italiane. Nel febbraio 1622 l’artista è a Roma, dove dipinge il ritratto di François Duquesnoy e quelli di Robert Shirley e di sua moglie Theresa Shirley. Dopo alcuni mesi parte alla volta di Firenze, dove viene ricevuto da Lorenzo de’ MeÂdici, e di qui si reca a Bologna e infine a Venezia. Rientra a Roma l’anno dopo, e a quell’epoca risale il famoso ritratto del Cardinale Bentivoglio, che i conÂtemporanei definirono subito “una meraviglia delÂl’arte” e che gli valse un seguito di imitatori, dal momento che Gaulli, Maratta e altri fra i più autoreÂvoli pittori romani lo assunsero come modello da seguire. Rientrato a Genova vi rimane per circa un anno, dipingendo parecchi ritratti ma anche varie tele di carattere mitologico e religioso, finché nel 1624 il viceré di Sicilia, Emanuele Filiberto di SaÂvoia, non lo chiama a Palermo. Tuttavia il soggiorÂno di Van Dyck sull’isola non poté prolungarsi molÂto a causa della peste scoppiata in maggio. L’artista poté dipingere il ritratto del viceré, e anche quello di Sofonisba Anguissola, la celebre pittrice morta in quell’anno, oltre a varie altre tele fra le quali restò incompiuta la Madonna del Rosario, ultimata a GenoÂva. Sulla misura in cui il maestro fiammingo subì l’influsso dell’arte italiana le opinioni sono tuttora contrastanti. Non c’è dubbio che egli abbia assorbiÂto non poco delle forme, dei colori e degli stessi tipi fisici italiani. Per dirla con Glück, egli “respira aria italiana”. Tuttavia, come si è visto, Van Dyck aveva già avuto modo di familiarizzarsi con quei modelli, che facevano ormai parte delle sue concezioni stiliÂstiche di quegli anni. Inoltre, la sua personalità era così spiccata che, pur assimilando i modi dell’arte italiana, egli conservò pur sempre la sua fisionomia originale. Per esempio, in una delle prime opere eseguite in Italia, la Susanna e i vecchioni di Monaco, il linguaggio formale appartiene al Tintoretto. e tuttavia il contenuto del dipinto appare del tutto diverso. Mentre infatti gli italiani trattavano quel teÂma nell’ambito di una visione idilliaca, Van Dyck lo affronta con crescente realismo. I vecchioni comÂpaiono al centro dello spazio visivo, mentre Susana, disperata, difende la sua virtù. C’è nella tela il dramma e l’azione, sia nella forma che nel moviÂmento, con quella figura di donna disperata per la violazione della sua intimità da parte dei due vecchi lascivi. Quanto allo sfondo, esso appare appena acÂcennato, secondo la concezione fiamminga che tendeva a concentrare tutta l’attenzione dell’osservatoÂre sull’evento, mentre i maestri tardo-rinascimentali — Tintoretto, appunto — lo distraevano con impianti compositivi di carattere quasi scenografico. Una tra le più belle opere vandyckiane di questo periodo è la Madonna col bambino e una greppia, di soliÂto denominata, secondo l’uso italiano, II presepio. L’autenticità del dipinto è confermata dalla documentazione contemporanea. Il suo sapore italianéggiante ha dato luogo a tutta una serie di conÂfronti, come quello del Quintavalle che lo accosta alla Madonna col Bambino di Parma. Tuttavia Il preÂsepio deve assai più alla scuola parmigiana e speciÂficamente al Correggio. Per esempio ci sono forti somiglianze con la Madonna del canestro dipinta da questo artista e conservata oggi nella National Gallery di Londra. È pur vero che nella tela di Van Dyck il fascio di fieno è reso con un impasto denso e piatÂto, che ricorda in certo modo l’‘Adorazione dei magi di Rubens ad Anversa. Ma in altri punti il dipinto roÂmano resta tenero e diafano come un vero Correggio, i contorni, il disegno, l’intera composizione deÂnunciano tutta l’italianità dell’impianto, e lo stesso può dirsi a proposito del cromatismo tenue e attutiÂto. Ogni intrinseco tratto pittorico si è adattato alla visione italiana, alla quale si è adeguata perfino l’interpretazione del tema. Perciò questo dipinto può considerarsi uno dei più significativi esempi dell’aÂdozione e dell’adattamento, da parte di Van Dyck, del linguaggio formale dell’arte italiana. Il più importante dipinto di natura religiosa riÂsalente al soggiorno italiano dell’artista è la Madonna del Rosario, eseguito in parte a Palermo e in parte a Genova — dove Van Dyck era tornato fuggendo dalla peste che infuriava nella città siciliana —, per essere infine ultimato nelle Fiandre. Sotto il profilo stilistico si tratta di un’opera che si rifà amÂpiamente alla Circoncisione di Rubens conservata in Sant’Ambrogio a Genova, e anche, sia pure indiÂrettamente, alla maniera di Otto van Veen, che era stato l’ultimo maestro dello stesso Rubens e che aveÂva studiato a sua volta in Italia. Non è da escludere, anzi, che a lui si possano ricondurre certi spunti di ascendenza bolognese, assimilati durante il soggiorÂno romano, e alcuni aspetti che potrebbero esser fatti risalire direttamente ai Carracci. Non c’è dubÂbio, comunque, che la Madonna del Rosario costituisca un importante esito dell’arte barocca, nel suo adatÂtamento dei motivi italianeggianti allo stile e all’eÂspressione tipici della pittura nordica. Le allungate figure dei santi, con la Madonna che tiene il BambiÂno nel grembo, seduta in mezzo a molteplici putti sotto un arco a tutto sesto, sullo sfondo centrale di un ciclo luminoso e chiazzato di nubi, compongono nell’insieme una scena animata e vivace. Lo stile di Van Dyck, nonostante gli evidenti richiami ad altri maestri, appare qui di una spiccata originalità , e la personalità dell’artista si impone proprio per il caÂrattere quanto mai individuale della sua creazione. Al solito, gran parte delle opere dipinte da Van Dyck in Italia è costituito da ritratti. Anche in questo campo, però, la maniera fiamminga si fonde con i modi più tipici dell’arte italiana. In effetti, l’artista elaborò proprio in questo periodo un suo stile perÂsonale, basato sulla ritrattistica genovese del Rubens, che avrebbe alla fine riscosso tanto succesÂso. Tuttavia la tendenza fiamminga rimase diffusa in tutti i dipinti del periodo italiano: basti pensare non solo ai primi ritratti, ma in generale alle opere proÂdotte nel corso di tutto quel soggiorno in Italia, come il ritratto dello scultore François Duquenoy, di un altro scultore, Georg Petel, e dell’incisore Jean Leclerc. Un miscuglio di motivi italiani e di solidità nordica traspare anche nel ritratto del Principe Emanuele Filiberto di Savoia, viceré di Sicilia, dipinto a Palermo nel 1624 e destiÂnato probabilmente, a giudicare dalla posa ufficiaÂle dell’effigiato, a una funzione di rappresentanza. Da Venezia ci sono giunti due ritratti, oggi apÂpartenenti rispettivamente al Metropolitan Museum di New York e al museo di Braunschweig, di un amatore variamente identificato in ‘Lucas van Uffel’ o ‘Daniels Nys’. Quale che sia l’identità del personaggio, è certo che si tratta di un nordico staÂbilitosi nella Serenissima e col quale Van Dyck inÂtrattenne stretti rapporti. Il ritratto del Metropolitan Museum mostra l’effigiato a figura quasi intera, con le sue mani dalle dita affusolate e un portamento alÂtero, seduto su una sedia accanto a un tavolo su cui si distingue un globo e la scultura di una testa, proÂbabile imitazione di un antico busto a opera di François Duquesnoy. Il dipinto si distingue per i suoi contorni spezzati e il trattamento dei colori, mentre il disegno si richiama esplicitamente ai modelli veÂneziani. L’opera appare imbevuta di un’eleganza e una raffinatezza di certo non fiamminghe, con la sua insistenza sulle vivaci lumeggiature nella parte siniÂstra dello sfondo. Nell’insieme, l’inclinazione perÂsonale di Van Dyck per una pittura di grande diÂstinzione appare qui tradursi in termini italianegÂgianti, e lo stesso può dirsi per il secondo ritratto del personaggio, quello di Braunschweig, eseguito a mio giudizio all’incirca nel medesimo periodo, e nel quale lo sfondo alquanto uniforme del primo è rimÂpiazzato da una vivacissima marina colta di scorcio al di sopra della balaustra sulla destra. Il ritratto del Cardinale Bentivoglio può essere a buon diritto considerato la creazione più splendida e rilevante di tutto l’intero periodo italiaÂno di Van Dyck; splendida per il suo livello artistico e rilevante perché l’artista ha qui dato vita a un diÂpinto davvero originale, nel senso che, quantunque intrinsecamente italiano, esso non si richiama ad alÂcun modello né si ispira ad analoghe concezioni pit-toriche d’altri. Tutt’a un tratto, Van Dyck si trasforÂma in un”intellettuale’ italiano, concentrando in sé l’essenza stessa dell’arte meridionale per trasfonderÂla in una maniera che risulta del tutto estranea alla sua preparazione precedente, assorbendo tendenze e modi tipicamente peninsulari. Giorgione e Tiziano avevano abituato il loro pubblico a un netto isolaÂmento delle figure, lasciando lo sfondo appena acÂcennato. In quest’opera, si direbbe che Van Dyck abbia mutato paese d’origine assorbendo in sé tutta l’essenza della sua nuova patria. A Genova Van Dyck dipinse una quantità di riÂtratti, e si è anche avanzata l’ipotesi che proprio nelÂla città ligure egli abbia maggiormente avvertito l’inÂflusso della pittura rubensiana. È certo che egli aveva ben impresso nella mente il formato ideato dal maestro più anziano, e anche i suoi mecenati, che presumibilmente possedevano nelle loro gallerie riÂtratti di consanguinei eseguiti da Rubens, gli richiedevano con tutta probabilità nuovi quadri eseguiti seÂcondo quei canoni stilistici. Van Dyck si rifece deciÂsamente ai modelli rubensiani, soprattutto in relaÂzione al loro aspetto esteriore, alla sagoma delle tele marcatamente lunghe e strette, e al modo estremaÂmente decorativo di presentare i personaggi effigiaÂti. Nei contorni, però, egli appare più etereo, come si vede ad esempio nel ritratto della Marchesa Caterina Durazzo del Palazzo Reale di Genova, dove la figura della donna appare più slanciata e raffinata. In effetti, a confronto con la densità e la potenza rubensiane, l’impianto pittorico vandyckiano colpisce proprio per la sua semplicità , risulta più illustrativo e decorativo, senza la ponderosità del maestro fiamÂmingo. Nel colore egli segue le orme dell’artista più anziano, fatta eccezione per quella striscia luminosa di ciclo che appare di tanto in tanto nelle sue opere, e, naturalmente, per l’incarnato dei volti e delle maÂni, nonché per le tinte degli abiti, che spiccano per la loro vivacità e rivelano la sottigliezza del suo senso cromatico. Tuttavia è il carattere degli effigiati a veÂnire prepotentemente in primo piano. La personaliÂtà artistica di Van Dyck si annulla davanti a quella, per esempio, della Marchesa, lasciando che siano i tratti essenziali della donna a trovare piena espressione nel dipinto. Così, noi la vediamo nella sua noÂbiltà , un po’ arrogante e in tutto e per tutto ‘gran dama’, mentre l’immagine dell’artista appare suÂbordinata a quella del personaggio, che egli alla fine idealizza in un tono minore, come artificioso. La sinfonia rubensiana si è tramutata in una sobria sonata. II Van Dyck: Re dei pittori, pittore dei re (1626-1641) Nel 1626, probabilmente verso la fine dell’anno, Van Dyck rientra definitivamente ad Anversa. Era riÂmasto a lungo indeciso circa il luogo in cui stabilirsi dopo il lungo e proficuo soggiorno italiano, così ricÂco di opere e di riflessioni formali. Per qualche temÂpo era stato in contatto con amici residenti in InÂghilterra; poi aveva forse accarezzato l’idea di stabiÂlirsi a Parigi, la città nella quale proprio in quel temÂpo dipinge il ritratto di François Langlois detto Ciartres. Alla fine, però, decide di ritornare in patria, e questo avvenimento non manca di produrre dei cambiamenti nel suo stile. A quel primo periodo risalgono il Gesù sulla croce delle suore domenicane di Anversa e il completamento dei ritratti, daÂtati, di Gian Vincenzo Imperiale (Musée di Bruxelles e National Gallery di Washington). Il nuovo soggiorno nelle Fiandre fu comunque subito caratterizzato dall’esecuzione di un gran numero di dipinti, molti dei quali di carattere religioso, e queÂsta valanga di incarichi si spiega con l’assenza di Rubens dai Paesi Bassi e con una costante domanda che si rivolgeva ora al più importante discepolo del maestro. Non ci fu una rottura immediata rispetto ai modelli dell’arte italiana, sebbene Van Dyck abÂbia cercato fin dall’inizio di dipingere nella sua terra natale secondo uno stile decisamente fiammingo, e di ciò è testimonianza la Crocifissione di Lilla, nella quale è marcata la somiglianza della figura di Gesù con quella della pala d’altare di San Michele di Pagana, con la luce che si concentra tutta su una zona della tela secondo un motivo molto ‘alla Caravaggio’, per non parlare dell’impianto composiÂtivo, che risale al Tintoretto. Poco dopo il suo rienÂtro — in pratica in un arco di tempo incredibilmente breve — Van Dyck conquistò la fama con la sua Estasi di Sant’Agostino. Il dipinto riscosse l’inconÂtrastata ammirazione sia degli artisti che dei profani, e può essere giudicato un’opera rappresentativa del Barocco fiammingo nel suo pieno sviluppo. La composizione è qui divisa in due parti principali, alla maniera dell’Assunzione della Vergine del Tiziano il Santa Maria Gloriosa dei Frari a Venezia. La sezioni superiore mostra Dio padre circondato da un volo di cherubini inscritto grosso modo in un cerchio Sotto, nella base orizzontale, vediamo al centro i santo in estasi, con lo sguardo rivolto verso l’alte in un atteggiamento vivo e drammatico. Non mette conto di ricordare tutti i particolari della controverÂsia che si accese fra l’artista e il Priore dell’Ordine a proposito del colore del saio del santo. Basti dire che Van Dyck intendeva rivestirlo di bianco, ma fu il frate ad averla vinta imponendo il nero, colore della tonaca degli agostiniani. Nei due bozzetti a grisaille, però, appare del tutto evidente come il bianco delÂl’abito aggiunga luce e spiritualità alla scena miraÂcolosa, mentre la macchia nera che compare nell’oÂpera finita ne riduce il tono elevatamente mistico. Ciò nonostante, si tratta pur sempre di una grandioÂsa pala d’altare, piena di una profonda commozioÂne, che segna il definitivo ingresso di Van Dyck nelle esclusive e rarefatte altezze dei grandi maestri del geÂnere. All’Estasi seguirono di lì a poco varie tele raffiÂguranti eventi biblici e, in particolare, un gruppo di Crocifissioni. Nell’Innalzamento della croce del duomo di Courtrai abbiamo una pala d’altare di cui restano documentati la data — 1631 — e il pagamenÂto. L’unico bozzetto giunto fino a noi e conservato nel Musée Bonnat di Bayonne presenta alcune vaÂrianti rispetto alla composizione definitiva, ma servì da modello per l’incisione di Schelte a Bolswert. AlÂtrove abbiamo avanzato l’ipotesi che Van Dyck abbia modificato la struttura della scena su richiesta dei suoi committenti, ossia del Capitolo del duomo, e che il bozzetto perduto, della cui esistenza si è saÂputo solo nel 1900, riproducesse l’assetto definitivo della tela. Nel dipinto definitivo, tutte le principali figure presenti nel bozzetto di Bayonne sono state usate solo da un punto di vista tipologico, ma in atÂteggiamenti e pose del tutto diversi. Quella che all’iÂnizio era stata un’idea improntata alla plasticità , si è qui trasformata in una versione più spoglia, sfronÂdata e definitiva. In luogo dell’iniziale inquietudine, risulta qui evidente la concentrazione dell’artista su uno schema che confluisca nella tensione ascensioÂnale della Croce innalzata e dell’ultimo sforzo comÂpiuto. A questo periodo risalgono inoltre numerose Madonne e Sacre famiglie, fra le quali citeremo Il riposo nella fuga in Egitto dell’Alte Pinakothek di Monaco e La Vergine con il Bambino e santa Caterina del MeÂtropolitan Museum di New York, dove l’aÂspetto fisico dei personaggi si direbbe accostabile ai disegni del taccuino risalente agli anni italiani del maestro, sui quali si legge la scritta ‘Tiziano’. Per quanto riguarda Il riposo nella fuga in Egitto, ho potuto accertare la preÂsenza di uno studio preparatorio sul mercato d’arte olandese (Houthakker). Nel luglio del 1627 l’artista si trova sicuramenÂte ad Anversa, come risulta da un “brano di lettera scritta da Vandyke in italiano, con alcuni schizzi e pensieri”, firmata e datata, di cui G. Vertue poté veÂnire a conoscenza. Nel periodo che va da allora fino alla fine dell’anno, però, egli deve aver intrapreso un secondo viaggio in Inghilterra, durante il quale fu ospite del pittore George Geldorp, suo amico. SeÂcondo quanto racconta il Walpole, infatti, “udito il favore che il re Carlo mostrava verso le arti, Van Dyck venne in Inghilterra e alloggiò presso il suo amico Geldorp, un pittore, nella speranza di essere introdotto dal re; straordinariamente ciò non avÂvenne.” L’anno dopo Van Dyck riceveva un compenso di 2.400 fiorini per la sua importante tela intitolata I magistrati di Bruxelles, andata diÂstrutta durante il bombardamento subito dalla città nel 1695 a opera delle truppe francesi. Qualche temÂpo dopo veniva nominato ‘Pittore di Sua Altezza’ (L’arciduchessa Isabella), con un reddito annuo di 250 fiorini. Infine nel 1629 il re Carlo I d’Inghilterra gli acquistava per 78 sterline un dipinto raffigurante Rinaldo e Armida. In quel periodo Van Dyck dipinse un gran nuÂmero di ‘storie’, in parte riprese dalla letteratura manierista e in parte ricavate dai classici. Una di queste, un tempo intitolata La scuola di Amore, rapÂpresenta in effetti Amarilli e Mirtillo, persoÂnaggi del Postor fido di Giovan Battista Guarino, pubblicato nel 1590. Il poeta italiano, imbevuto di motivi manieristi, era profondamente legato all’aristocraticità , alla grazia, alla finezza e all’artificiosità del suo secolo, e Van Dyck corrispose al suo modelÂlo letterario in modo analogo. Per il disegno geneÂrale dell’opera si rifece alla struttura dei Baccanali di Adriano di Tiziano, oggi al Museo del Prado di MaÂdrid, trasfondendo la dinamicità del maestro veneÂziano in uno stile pittorico vicino alla maniera poeÂtica del Guarino. Nell’ambito di questa visione, l’arÂtista ha trattato i contorni con una vivacità nervoÂsa, dilatandoli e lasciandoli sfumare; e sulla compoÂsizione ondulata e sinuosa ha costruito un disegno che, sul filo degli aggraziati atteggiamenti dei vari personaggi, finisce col comporsi in una entità senÂziente. Vediamo insomma Van Dyck tornare ai moÂdelli del secolo precedente in una trasposizione di temi derivati dalle pastorali cinquecentesche, imiÂtando strettamente, per meglio esprimere queste trasgressioni del proprio linguaggio formale, le norÂme cui l’originale si rifaceva. Agli stessi anni risale anche un notevole numero di ritratti. Subito dopo il suo ritorno nelle Fiandre dipinse infatti quelli di Pieter Stevens e di sua moglie Anna Wake, due opere di stile marÂcatamente settentrionale e senza il minimo accenno a motivi italianeggianti, caratterizzate da uno stesso trattamento schietto, plastico e vigoroso. ImpossibiÂle non sottolineare la differenza, a distanza di pochi mesi o tutt’al più di un anno, rispetto ai ritratti geÂnovesi eseguiti in Italia, con la loro concezione pitÂtorica tanto diversa! Più decorativo appare invece il suo stile nelle opere eseguite durante un breve sogÂgiorno in Olanda nei primi mesi del 1629, durante il quale dipinse i ritratti di Federico Enrico, principe d’Orange, di sua moglie Amalia von Solms oltre ad altre tele raffiguranti alcuni notabili. Tutto sommato, si tratta di dipinti che si conformano alla ritrattistica aristocratica in voga in quegli anni, ma che conservano ancora un tratto di spiccato realiÂsmo. Soprattutto nei due ritratti della coppia prinÂcipesca si nota come l’artista abbia avuto di mira, tanto nell’abbigliamento (un’armatura, nel caso del principe), quanto nel trattamento dei volti, una riÂproduzione fedele del soggetto, lasciando solo un leggero margine alla lusinga. Così la struttura dei ritratti, e lo stesso portamento degli effigiati, dà all’insieme un senso di imponenza che ritroveremo ancora in altre immagini dello stesso genere. Basti pensare al maestoso ritratto dell’Infanta Isabella Clara Eugenia, della Galleria Sabauda di Torino, con l’arciduchessa raffigurata in abito monastico in un’opera in cui la pittura esprime quasi un che di severo, almeno a giudicare dal forte naturalismo che m manifesta nella pennellata dell’artista; oppure a quello, molto originale, di Maria de’ Medici, eseguito durante un soggiorno ad Anversa, dal 4 setÂtembre al 16 ottobre 1631, della regina di Francia, accompagnata dal suo secondogenito, il duca GaÂvone d’Orléans. Van Dyck ritrasse entrambi gli ilÂlustri personaggi, e lo storiografo della regina, Jean P. de la Serre, ha riferito della visita alla bottega delÂl’artista, parlando con ammirazione di una raccolta eli quadri del Tiziano che sembra in parte realmente esistita. Del resto, anche Guiffrey accenna a un attestato esibito da Rubens, Seghers e Van Dyck a favore di un certo Jean-Baptiste Bruno, che aveva restaurato e pulito per l’artista “plusieurs tableaux du Titien et d’autres plus renommez peintres”. Forse il ritratto di maggior rilievo eseguito suÂbito dopo il 1630 è quello di Marie Louise de Tassis, appartenente alla collezione del principe del Liechtenstein, nel quale l’effigiata indossa un rieÂro abito disegnato secondo la moda francese e tiene nella destra un ventaglio di piume. Il respiro della composizione e la moderazione stessa dei toni atteÂnuano qui il realismo, forse fin troppo incisivo, deÂgli altri ritratti appartenenti a quel periodo, e Van Dyck è riuscito a fondere il senso acuto dei particoÂlari con l’ariosità della concezione, fino a creare un insieme armonioso. Inoltre, anche in questo caso, come del resto in altre opere di quegli anni, il contrasto fra bianco e nero tende a sfumare in una varietà di toni interÂmedi. Forma ed espressione contribuiscono a creare un’impressione complessiva di raffinatezza e, insieÂme, di grazia, tanto che non si può non ammirare la straordinaria maestria tecnica dimostrata dall’artiÂsta in quel suo secondo soggiorno fiammingo. Van Dyck sembra muovere le sue forme con crescente flessibilità , scegliendo i colori con maggiore acume e dipingendo anche con maggiore sicurezza. Fra il 1631 e il 1632 i contatti con l’Inghilterra si fanno più intensi. Balthasar Gerbier, un pittore fiammingo agente a Bruxelles di Richard Weston, conte di Portland e tesoriere reale, aveva fatto perveÂnire al re Carlo I una tela che egli attribuiva a Van Dyck, ma che questi, saputo dell’invio, e forse seccato di dover essere introdotto alla corte d’Inghilterra da un personaggio di dubbia fama, negò di avere mai dipinto. La controversia andò avanti per qualÂche tempo, durante il quale Van Dyck compì un seÂcondo viaggio in Olanda, dove fece visita a Constantijn Huygens, e si incontrò anche con Frans Hals. Fu in quella occasione che i due pittori si ritrassero a viÂcenda: il dipinto di Hals è poi andato perduto, menÂtre di quello di Van Dyck abbiamo un’incisione di David Coster, attivo all’inizio del Settecento. Il 26 marzo 1632 Gerbier scrive a Carlo I che Van Dyck “è qui” (e cioè a Bruxelles) e sembra deciÂso a passare in Inghilterra. L’artista era “insoddiÂsfatto” dell’agente del re, e in genere si suppone che a fugare tutte le sue incertezze a proposito del suo espatrio sia stato l’intervento del conte di Arundel, tornato in favore presso il sovrano dopo la morte del duca di Buckingham. Non si dovette comunque perdere molto tempo, dal momento che Van Dyck giungeva a Londra in quello stesso mese. L’accoglienza in Inghilterra fu lusinghiera. Il 5 luglio 1632 l’artista veniva ordinato cavaliere e noÂminato “Sir Anthony Vandike principalle Paynter on Ordinary to their Majesties at St. James’s”. AlÂloggia sulle prime a Londra, spesato di tutto, e si trasferisce in seguito nel Blackfriars, fuori della giuÂrisdizione della Painter-Stainers’ Company, equivaÂlente inglese della gilda di San Luca. Inoltre ha anÂche una residenza estiva a Eltham, nel Kent, dove il re possedeva un palazzo. Carlo I lo colma di favori: oltre ad assicurargli una pensione annua, lo comÂpensa generosamente per i suoi dipinti, giungendo perfino a regalargli una catena d’oro con un medaÂglione tempestato di diamanti. Nonostante la sua intensa attività di ritrattista della nobiltà inglese, Van Dyck compie altri due viaggi sul continente, nel corso dei quali produce altre opere. Nel 1634 è ancora ad Anversa, dove acÂquista una proprietà e viene eletto “Decano onoraÂrio” della gilda di San Luca, un onore riservato a nessun altro artista di quel tempo, con la sola ecceÂzione di Rubens. Nel novembre di quello stesso anÂno dipinge a Bruxelles il ritratto del Cardinale Infante Ferdinando d’Austria, nuovo governatore delÂle province meridionali dei Paesi Bassi, e all’inizio dell’anno dopo riceve il compenso per due ritratti del principe Tommaso di Savoia. Gli pervengono anche altre offerte, ma le sue richieste vengono giudicate eccessive o addirittura pazzesche. Nel 1635 l’artista rientra a Londra, dove riprenÂde la sua frenetica attività e affina incessantemente il suo stile. Nel 1639 sposa, dietro sollecitazione del re, Mary Ruthven, damigella d’onore della regina: si tratta di un alto onore concesso al pittore fiamminÂgo, di così recente nobiltà . L’anno dopo, lo stesso della morte di Rubens, l’artista compie ancora un breve viaggio nel continente. Si ferma dapprima ad Anversa e poi, nel gennaio del 1641, è a Parigi. Gli era giunta notizia che il re di Francia desiderava deÂcorare la grande galleria del Louvre con grandi tele, come la Galleria Medici del palazzo del LussemburÂgo era stata ornata da Rubens. L’incarico, però, venÂne affidato a Poussin (e a Simon Vouet). Nello stesso anno torna brevemente in Inghilterra, per trasferirsi poi nuovamente, e questa volta da solo, a Parigi, doÂve la sua salute comincia però a declinare. Rientra in Inghilterra, ma le sue condizioni peggiorano finÂché il 9 dicembre 1641 muore nella sua residenza di Blackfriars. Viene sepolto l’11 dicembre nella catteÂdrale di St. Paul, accanto alla tomba di John the Gaunt, sotto una lapide con un epitaffio celebrativo. Tanto la chiesa quanto la tomba andarono distrutte nel grande incendio di Londra del 1666, sicché nulla rimane delle spoglie mortali dell’artista. Il cosiddetto ‘periodo inglese’ di Anton van Dyck presenta caratteri stilistici alquanto spiccati. Mentre si trovava ancora ad Anversa, l’artista trattava i voluÂmi con piglio scultoreo, colori sobri e toni sfumati. In Inghilterra, lo vediamo adottare invece uno stile attento agli elementi decorativi, alle tinte luminose e all’eleganza, pronto a cogliere taluni motivi manieÂristi per sottolineare l’aristocraticità dei suoi effigiati. I capovolgimenti rispetto ai suoi precedenti criteri stilistici non sono pochi, ma nel complesso le novità sopra elencate dovrebbero bastare a dare un’idea delÂle innovazioni apportate dalla sua pittura nel nuovo ambiente. I critici parlano per lo più di un deciso deÂclino della sua arte in quel periodo, indicandone i massimi esiti e la maggiore creatività nelle opere preÂcedenti. A mio avviso, invece, lo stile di Van Dyck va giudicato eguale, eppure diverso. Senza dubbio, non si può non valutarne l’inferiorità , considerato il nuÂmero delle tele di discutibile fattura, l’ostentata eleÂganza, i colori talvolta grezzi, la trascuratezza e la ripeÂtitività delle pose, dell’abbigliamento e dei gioielli, che in qualche caso tradiscono un superficiale e fretÂtoloso esercizio della creatività dell’artista. Ciò nonoÂstante, giova ripetere che a quel periodo risale una quantità di opere eccellenti, veri e propri gioielli che incastonano il grande talento di Van Dyck. La svolta nel suo stile è nettamente individuabile nel ritratto di Lord Philip Wharton oggi nella National Gallery di Washington, probabilmente daÂtabile al 1632. Si tratta di un’opera di transizione, ancora imbevuta della plasticità tipica del periodo precedente, ma che già tradisce i mutamenti interveÂnuti. Non c’è più, qui, quell’apparato di colori che contraddistingueva i ritratti monumentali e un po’ statici del periodo italiano. La luminosità dei toni sembra proprio una spiccata caratteristica dello stile inglese di Van Dyck, oltre all’abbandono del senso scultoreo dei volumi e all’adozione di una pittura più insinuante, aggraziata e decorativa, nella quale tutto tende all’effetto ornamentale più che alla peÂnetrazione psicologica. Nei ritratti della famiglia reale, in cui si concenÂtra uno degli aspetti più cospicui dell’attività delÂl’artista in Inghilterra, vengono prepotentemente in primo piano gli elementi decorativi, la luminosità dei colori, l’eleganza delle pose e un ritorno a certi aspetti del Manierismo. Di ciò sono buoni esempi i due ritratti equestri del re. Quello apÂpartenente alle collezioni reali britanniche, il Carlo I con M. de St. Antoine, raffigura il sovrano che cavalca su un destriero bianco sotto un arco. L’atÂteggiamento dell’effigiato richiama alla mente il DuÂca di Lerma di Rubens, ma Van Dyck ha qui raffinato il disegno e la composizione, dato statura al re e inÂserito il personaggio in una visione pittorica che riÂcorda i modelli rinascimentali. Nella versione apÂpartenente alla National Gallery di Londra, Carlo I appare di fianco, su un cavallo alto e possenÂte, forse troppo grande per la sua statura minuta. Tuttavia Van Dyck è riuscito a conciliare le proporÂzioni, ricorrendo anzitutto all’artificio della linea diÂritta che va dallo zoccolo alla staffa fin verso il corpo del sovrano, che in tal modo non appare rimpicÂciolito dalla monumentalità della sua cavalcatura. Così, nella sua maniera decorativa, il dipinto contriÂbuisce a conferire grandiosità al personaggio, con una maestosa rappresentazione della sovranità . Van Dyck cercò, nei suoi ritratti reali, di rappreÂsentare il re e la regina come i sovrani mandati alÂl’Inghilterra da Dio, e, come fece Velázquez con i monarchi spagnoli, di farli apparire ai loro sudditi come esseri sublimi, più che semplici mortali. Lo slancio conferito alle loro figure e l’idealizzazione dei lineamenti fanno risaltare quelle immagini fra i loro pari e sudditi, ispirando un timore reverenziale. Uno di quei ritratti rappresenta Carlo I in abiti regali, con il collare dell’Ordine della Giarrettiera, e la sua testa servì anche per un’altra opera, il Carlo I in armatura, oggi all’Ermitage di Leningrado. Qui appare evidente come questi ritratti ufficiali fossero :n buona parte intercambiabili, e anche come Van Dyck, o per meglio dire la sua bottega, li produÂcessero in varie versioni. Nell’esempio citato, ci troÂviamo dinanzi a un puro e semplice ritratto di rapÂpresentanza, tipicamente manieristico nell’artificioÂsità della posa e nella tensione del disegno. Nei riÂcatti della regina Enrichetta Maria troviamo l’eco di questa maniera ufficiale, e in particolare quello dell’Ermitage ne costituisce un significativo esempio. La regina vi è ritratta a figura intera, con la destra poggiata su un tavolo ornato di fiori, altera e maestosa, dai lineamenti abilmente abbelliti. Oltre a quelli della famiglia reale, Van Dyck dipinse innumerevoli ritratti per l’aristocrazia, fra i quali spicca quello di Marv Villiers, duchessa di Lenox, on la sua nana, oggi appartenente al museo di Los Angeles. Il dipinto risale evidentemente agli ultimi anni del periodo inglese dell’artista, ed è tutto permeato dell’artificiosità tipica del suo nuovo stile. L’andamento dei contorni è sinuoso, il disegno orÂnamentale e la pittura più levigata di quanto non si noti nelle opere degli anni precedenti, mentre le teste e le mani si fanno più lunghe e affusolate, fino a perdere, queste ultime, definitivamente di volume. Ciò che colpisce in questo ritratto è il deciso maÂnierismo, la delicatezza, la nervosità , la monumentalità e la ricerca del virtuosismo, insieme all’assoluta mancanza di una qualsiasi caratterizzazione del volÂto e la raffigurazione ormai standardizzata del personaggio secondo uno schema ripetuto per tutto il gruppo dei ritratti analoghi. Van Dyck non mantenne inalterato il proprio stile nel corso dei suoi soggiorni sul continente. Anche qui dipinse parecchi ritratti, ma per adeguarsi ai dettami del gusto fiammingo osservò un carattere di maggiore sobrietà . Ciò vale particolarmente per i dipinti di natura religiosa, come le diverse Lamentazioni e la Madonna e il Bambino adorati dall’abate Scaglia della National Gallery di Londra. Si tratta di opere eseguiÂte, con tutta evidenza, lontano dall’influsso culturale inglese e più vicine all’originaria maniera fiamminÂga con la quale Van Dyck aveva all’inizio dato espressione al suo temperamento. Più prossime al suo nuovo stile sono alcune ‘storie’, numerose seÂcondo il Bellori, ma di cui poche sono giunte fino a noi. Tra le più notevoli è una Diana dormiente nella quale confluiscono la visione rubensiana del nudo, un impianto tizianesco e uno sfondo paesagÂgistico all’inglese, elementi che danno vita a un’opeÂra nella quale le vecchie tendenze si evolvono senza fratture nelle nuove concezioni pittoriche. Il succesÂsivo Amore e Psiche mette invece in primo piano, come diversi ritratti eseguiti verso il 1640, un ritorno alla maniera classica, forse ispirata a Poussin. Manieristico per contenuto, il dipinto appare eseguito con un senso di finezza, sobrietà e cura artiÂgianale che va ben oltre la precedente predilezione per il colore puro. Il dinamismo rubensiano cede qui il posto a una grande delicatezza, preannuncianÂdo fin d’ora l’intima essenza del Rococò. Sappiamo così quale indirizzo avrebbe preso l’arte di Anton van Dyck se egli fosse vissuto ancora per un paio di deÂcenni. Abbiamo fin qui riassunto brevemente lo svilupÂpo della pittura vandyckiana, dai primi anni di Anversa, col loro influsso rubensiano, al soggiorno in Italia fino agli anni della maturità nelle Fiandre e inÂfine all’adozione di una visione più intellettualistica alla corte manierista di Carlo I. Per tutta la sua vita, Van Dyck fu il pittore di re e nobili. Essi gli dovetteÂro un’immagine che li rappresentò sotto la luce più favorevole e lusinghiera, seppure non scevra da toni realistici. Sotto questo aspetto, nessuno è mai riusciÂto ad eguagliare l’opera di questo artista, che proÂprio per queste sue qualità è ritenuto uno dei grandi della pittura.
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