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PITTURA: I MAESTRI: Van Eyck: Apertura al ritratto moderno9 Marzo 2019
di Raffaello Brignetti Sulla direzione da Bruxelles a Ostenda la terra fiamminga di Gent, di Brugge, è una terra grassa, a basse ondulazioni, con persone positive e massicce. Verso il mare del Nord il sole dipinge tinte accese. A lunghe strisce, scarlatte, brune, verdi, turchine, i crepuscoli segnano molta parte del pomeriggio, lustri e fermi. Di questi colori e di quelle figure è fatta la pittura di Jan van Eyck. Qualcosa, dunque, di locale? Sì nel naturalismo, nel senso della materia; no, anzi il contrario, nell’evoÂluzione che Jan rappresenta non solo rispetto alla traÂdizione, ma anche rispetto al fratello Hubert. Dico evoÂluzione perché sento la vicinanza di Jan. Posso proÂvare incanto e finanche nostalgia per la spiritualità di memoria medievale, ma il mio occhio è moderno; in Jan, “inventore del ritratto moderno” [Van Puyvelde], percepisco il contatto. Venivano dal Limburgo: origine ricordata non tanto come indicazione biografica, quanto per il temÂpo iniziale in cui i van Eyck impararono ed esercitaÂrono, in quella regione, la miniatura. A Gent, la tecÂnica dai van Eyck affinata poteva applicarsi alla minuziosa rappresentazione religiosa — i rubini delle corone, i ricami, le iscrizioni, le pieghe dei manti, le foglie dei mirti e degli aranci nel paesaggio —, come al ritratto. Ecco probabilmente un’altra delle solleciÂtazioni e forse tentazioni di Jan. Ciò, s’intende, poteva anche essere artigianale, e oggi in specie verrebbe tacÂciato di mestiere. Ma com’è che il mio occhio, pure attuale — o forse perché integro, non esegetico —, si trattiene e si ritrova in questa freschezza di esecuzioÂne? C’è qualcosa che giunge oltre il soggetto in sé e l’impostazione rituale o naturalistica dell’opera, è pitÂtura per la pittura. Il mestiere vi da suggestioni perÂmanenti. In particolare, con una tecnica come questa e con la figura umana che si affacciava nell’arte — suÂperbia che fosse, o slancio, o bisogno dei sensi —, acÂcanto all’immagine trascendente, c’è da capire come il talento di Jan vagheggiasse il ritratto, ‘quel’ ritratto; magari ne fosse tribolato. Egli stava operando una trasformazione. Le rivoluzioni diventano serene dopo, non prima o durante. Già nell’Agnello mistico il ritratto del donatore Vyd e il ritratto di Isabelle Borluut, la moglie, sono figure nuove ed a noi più vicine, a paragone dell’inÂsieme della composizione. Opera di Hubert o di Jan, influsso dell’uno o dell’altro artista, si ravvisano in questi volti, negli sguardi, non meno la pietà che l’estaÂsi, la probità , la fede e l’ardore più che la beatitudine Sono condizioni ispirate ma umane. Di Adamo ed Eva. sempre nell’Agnello, si sa che era fra i pannelli che più spesso venivano scoperti a domanda e a pagaÂmento dei visitatori. Ora, come moderno (mi perdoniÂno i filologi, i critici, la notazione forse peregrina), non posso non riconoscere in ciò il richiamo, attualmente risaputo, della figura umana svelata; anzi, come AdaÂmo ed Eva sono, nuda e cruda, ‘dopo’ il peccato oriÂginale, livida, appagata e penosa. Benché si sia rivoelato che negli occhi del primo uomo e della donna — primi nudi, nella pittura ecclesiale — si trovino questa oscura coscienza e morale, i tratti sono abbaÂstanza naturalistici da aver suggerito allo storiografo van Mander (1604) che Eva stia offrendo ad Adamo non una mela ma un fico, dato che appunto una foglia di fico e non di melo i due hanno nelle mani, lui in quella destra e lei in quella sinistra. Ancora, del CriÂsto in gloria nel polittico, pieno di meraviglie epperò anche accessibile, concepito con solennità e tuttavia con simboli papali piuttosto che divini, è stato osserÂvato che il nudo Adamo rimane spirituale in quanto, nello sguardo, gli rassomiglia. È vero. Ma contempoÂraneamente si ha che il Cristo rassomiglia all’uomo. L’incarnazione. Hubert era morto nel 1426 e l’Agnello mistico ebÂbe il suo assetto definitivo nella cattedrale di Gent nel 1432. Sei anni di lavoro di Jan van Eyck. La dottrina e la disputa potranno ancora applicarsi a questo peÂriodo… Ma all’occhio e all’emozione di colui che, oggi, guarda, più lancinante è la percezione del travaÂglio di Jan: egli, nell’Agnello e in altre opere, con Hubert o da solo, stava iniziando un’altra pittura. Ne sono prova le contraddizioni e addirittura i “connubi mostruosi” [Ungaretti] di alcune sue opere, quali ad esempio la Madonna del canonico van der Paele, le Stimmate di san Francesco, la Madonna del cancellieÂre Rolin, in genere tutte quelle in cui la raffigurazione mistica doveva armonizzarsi, nel dipinto unico — e non sempre vi riusciva —, con quella concreta e corÂposa. Dirà Guttuso che nel San Matteo e l’angelo del Caravaggio, già a Berlino, il contrasto è evidente fra un Matteo terrestre e la figura angelica tracciata con levità , forse con incredulità manieristica. Il raffronto con la tribolazione di Jan è teoricamente impropoÂnibile, ma rende l’idea. Un’ambigua violenza trama queste opere a soggetto insieme terreno e celeste. Né essa è il risultato di qualche crisi religiosa, di cui non si ha notizia nella vita dell’artista, o di un indiÂrizzo dichiarato, di una scuola, di quello che oggi si direbbe un ‘manifesto’; come pure è convenzionale — al solo scopo di facilitare il discorso — parlare in quell’epoca e in quel ciclo espressivo di naturalismo, realismo, positivismo e via. Questi termini vanno inÂtesi in senso non specifico; nel caso di Jan van Eyck, l’evoluzione non sembra scaturire da posizioni di penÂsiero, È la sola e la vera pittura a stimolarlo. Una visione soltanto di nuova arte lo trae e stravolge al modello in carne ed ossa. Il pensiero, semmai, lo atÂtarderà , con tutti i problemi e le sottigliezze, quando egli vedrà che un tale modello non aderisce più al misticismo tradizionale. Da un lato il passato, dall’alÂtro il futuro. Nella Madonna del canonico van der Paele il traÂpasso è sensazionale. La mano che Jan aveva tratteÂnuto nella stilizzazione del guerriero sulla destra, nelÂla Vergine composta, nel vescovo, a sinistra, carnoso ma un poco immobile, un poco formale, gli si dovette sciogliere col Gesù: un Bambino che nella nudità totale e uguale a quella di altri bambini poteva solÂlevarlo dall’obbligo della rappresentazione di rito. CoÂsì, ecco il piccolo Gesù di carne nei piedi, nelle pieghe, nelle ombre intorno al petto e soprattutto in un volto per niente astratto ma segnato, curiosamente patiÂbolare, di uno che guardi con qualche teppismo il religioso in ginocchio. Questo, van der Paele, è apÂpunto il soggetto della trasformazione della pittura primitiva fiamminga: dal passato al futuro, dal soÂprannaturale al mortale in una cornice che quanto più è ricamata tanto più ne isola il peso. Si tratta, per me, passante non smaliziato alla sensazione della pittura, di una fuga impetuosa. La mano già liberata nel Bambino non si ferma più, rida il pittore come dentro di sé doveva essere per istinto; traccia abbonÂdanze adipose fra mento e collo, nell’orecchio, spesÂsore di cartilagini, vecchiezza di falangi dalle unghie levigate sfogliando il breviario, usura un po’ unta di pagine, di occhiali, e antica, acquosa e grave copioÂsità di occhi. Trovo un distacco di secoli fra questa e le altre figure. Van der Paele, davvero, pesa; quanÂdo vorrà mettersi in piedi, sarà un guaio sollevarlo per le braccia. Un intimo affanno deve passargli enÂtro le membra da tempo e specialmente nel capo ampio e afoso; sulla guancia gli è spuntato un bitorÂzolo, nella bocca chiusa i molari non reggono più la pelle scesa a rughe vaste: qualcosa della fisionomia che rimane è sopra gli zigomi. Calano le borse dagli occhi, la punta del naso; la fronte aggrava le palpeÂbre. In alto, lungo un cranio di spenta canizie, l’arteÂriosclerosi trama di turgori gommosi, impuri, il temÂpo dell’umana stanchezza. Eppure quegli occhi veÂdono. Si levano dal libro sacro come in altri momenti innumerevoli della vita e contemplano ciò che nemÂmeno nel libro è visibile. Le forme parlano ai sensi e, attraverso i sensi, allo spirito. I sensi sono un traÂmite necessario. Lo stesso Jan, forse, benché non filosoficamente, voleva significare un che di simile con la scritta che poneva in fondo ai quadri: “als ixh xan”, come posso. Se si scorgesse un equivoco nelÂl’atteggiamento del piccolo Gesù una lezione gli verÂrebbe dal grande uomo disfatto. Di nuovo l’incarnaÂzione, il prezzo dell’essere umano e altri concetti che la teologia ha ripreso anche ieri. Il quadro è del 1434. Da anni ormai Jan van Eyck era in ogni senso lonÂtano da Hubert. A parte che il fratello fosse morto e che con la conclusione dell’Agnello si fosse chiuso il periodo di Gent, Jan aveva rotto “la simmetria del vecchio mondo” [Goethe]; i suoi viaggi si erano susÂseguiti, un’onda di esperienze lo guidava al ritratto. Le Stimmate di san Francesco e la Madonna del cancelliere Rolin sono opere nelle quali più d’uno ha voluto vedere, con la tendenza di Jan a rendere natuÂralisticamente anche il paesaggio, la memoria di luoÂghi da lui visitati. Per le Stimmate si è parlato di piante e rocce meridionali; circa la Madonna, di un profilo, sullo sfondo, che potrebbe essere quello di Lione, di Ginevra, di Liegi, di altre città . NaturalÂmente qui il ritratto non ha ancora assunto la preÂminenza nella composizione, il contrasto è vivo: in entrambi i dipinti figurano simboli forzatamente ideaÂlizzati, una croce alata nelle Stimmate e le stesse ali iridate nella Madonna, sull’angelo che incorona una Vergine più che trascendente amabile, perfino seduÂcente. È donna di poco più giovane della Madonna di Lucca, ora a Francoforte, a questa somigliante nella dolce plasticità e somigliante alla moglie nel Ritratto dei coniugi Arnolfini, come si somigliano i loro bamÂbini ombrati al modo del piccolo Gesù della Madonna del canonico van der Paele. È di vero peso, ugualÂmente, vivo e mortale, il S. Francesco presso la croce iridata. La contrapposizione fra l’umano e il divino si ripropone ora come sempre nelle opere di Jan a soggetto religioso. Van der Paele costituiva una sinÂtesi rara; del resto, non era l’unica figura di quel diÂpinto, di cui anzi spezzava l’uniformità . Un invito ancora era la prospettiva. Si trattava di un metodo empirico, non teorizzato come quello del contemporaneo Brunelleschi (1420), che Hubert e speÂcialmente Jan avevano raggiunto proprio nell’interrompere la fissità della concezione medievale. Le fiÂgure vi assumevano un rilievo marcato: non altriÂmenti i van Eyck avrebbero potuto sostenere i personaggi comuni al confronto con la solennità ieratica e piana di quelli sacri. Quanto ciò abbia o meno gioÂvato alla pittura in assoluto, è problema a sé. Sta di fatto che, per me che osservo in questo secolo, è certa l’evoluzione. Van der Paele non sarebbe stato quello che è senza prospettiva; né lo sarebbero stati il san Francesco, i bambini della Madonna del cancelliere Rolin e della Madonna di Lucca, le sembianze anÂcorché poco rapite ma di placida grazia delle VerÂgini. Nella sua linearità il sistema nasceva dalla luce. Come la tecnica in punta di pennello evocava sul parÂticolare il chiarore voluto, così questo declinava e si eclissava via via che il particolare, la figura, l’oggetto, erano più distanti; la luce qui non batteva, fino al buio. Regole matematiche di prospettiva non esisteÂvano, eppure il rilievo — esatto o no, secondo queste regole — si configurava; il procedimento era squisiÂtamente pittorico. Soprattutto con esso si completaÂvano gli strumenti onde il ritratto esercitava su Jan van Eyck nel mestiere lo stesso fascino che nell’ispiÂrazione. Dal 1430 egli si era stabilito a Brugge. Vi si sposò, non se ne allontanò che per rare e brevi occasioni, vi morì nel 1441 e vi fu sepolto nella chiesa di San Donaziano. Forse per la rispondenza ambientale, nella consapevolezza di essere ormai col futuro, per un travaglio placato, furono queste le sue stagioni gagliardi. Fece ritratti, e, sebbene non venisse meno agl’impegni del vero e dell’aderenza al soggetto, vi mise la cerÂtezza e polposità della Fiandra: il ciclo carico le persone, la terra. In questa dimensione accennavo a una materia locale, come invece il passaggio di Jan alla nuova pitÂtura ha implicazioni europee. L’Uomo dal turbante, a Londra, sorge da una tenebra fonda. Il copricapo rosso, a striature brune, alto e immenso, può ben riÂcordare che l’artista si trovava sotto uno di quei creÂpuscoli del Nord che non finiscono mai, ove è già notte quando d’improvviso una nuvola si infiamma. Sono cicli di una strana e ricolma bellezza. Il volto pure è acceso. Sotto il turbante i capelli probabilmente soÂno rossi, gli occhi stretti e grigi hanno lumi da serpe, insistiti fino al sintomo di un’infiammazione alle conÂgiuntive. Su quella pelle, in questi occhi, sono corsi anni di freddo. Questo è un quadro deciso. La devoÂzione radiosa del Medioevo ne è giunta al metro deÂgli uomini che vanno e vengono sotto il ciclo, creature il cui viso si fa cuoio, pure non meno nobili, non meno create. Anche nobile e toccato da una luce è il ‘Tymotheos’, pure a Londra, uscito dal buio col rosso dei corpetto e il rosa denso della faccia. Si è voluto rinÂtracciarvi un musicista o un umanista; così come nell’Uomo dal turbante, lo stesso Jan van Eyck. Il loro sangue è comunque terragno, non importa se fossero artisti o uomini di corte. Al pari della gente dei campi hanno mangiato a lungo minestre d’orzo, formaggio, patate, fiocchi d’avena, carne; con birra, sidro. Il raggio chiaro e l’intelligenza degli occhi non sovrastano questi caratteri veraci, la forza e la depeÂribilità che sono nel ritratto e nel pittore van Eyck. Nell’Uomo dal garofano, di Berlino, il colore del volto si matura dal rosa al giallo, al cereo; sotto il copricapo di pelo i capelli che spuntano sono o sono stati sudati. I denti inferiori affiorano annosi, le labÂbra sono pallide, asciutte. Quest’uomo divorò con piacere lardo affumicato, salsicce, uova, cotenne; un giorno fu pingue ma ora non lo è. Qualche dieta lo strema. Anche se di questa figura una corrente dell’erudizione prospetta che possa non essere di mano di Jan, ma di autore più recente, la consumazione, l’umanità , la deperibilità sono quelle; l’ “inventore del ritratto moderno” vi fa scuola, immediatamente o nel tempo. Nella ricerca del vero l’artista non ha ovviamente esitazioni neppure con la moglie; col vantaggio che, mentre perplessità lo tenevano al momento dei ‘conÂnubi’ di persone reali con le astrazioni religiose, qui la rappresentazione è sicura e netta. Sopracciglia scarÂse, occhio freddo e bocca avara aveva la sua compaÂgna, e tali senza infingimenti sono i segni del Ritratto della moglie Margaretha, una donna non piacente, almeno per me latino; di carattere, certamente, soÂspettoso; figura pulita, ma discosta, attenta e muta dietro i vetri di una finestra. Jan vi ha diffuso al comÂpleto le proprie caratteristiche, anche esteriori, dal blocco dell’immagine nello spazio ristretto, all’empiÂrismo della prospettiva e delle proporzioni — come nel seno esiguo rispetto al volto —, all’oscurità dello sfondo, all’atteggiamento verso sinistra, al predomiÂnio dei neri, rossi, verdi, i suoi colori … Allo stesso moÂdo ha posto in Margaretha se stesso senza limiti o indugi, senza nulla concedere al sentimento, all’amÂbizione di lei: il suo è il ritratto a tutti i costi, remoto dal sogno medievale dell’artista che orna, pio, celeÂbrante e offerente. Se fosse stato meno schietto, meno controllato e più visionario, chissà che in ore notturne non lo avesse agitato anche una voglia di commedia. Di umana, emÂpia commedia. Sulla via della materia il cammino è lungo, aperto a rie torbidezze. Vengono in mente l’alÂterigia dei piedi marchiati di Caravaggio, o, per quelÂle terre, il “cafarnao diabolico e grottesco” [Baudelaire] di Bruegel. Ma se tanto gli fosse successo lo avrebbero contenuto la dignità , il magistero delle coÂse, l’equilibrio, la religiosità comunque situata, nella pittura da chiesa come nella vicenda dell’uomo. Sono da rileggere in proposito alcune annotazioni che egli aveva scritto sull’abbozzo del Ritratto del cardinale Albergati. In ciò che ne resta corrono paÂrole come “toni freschi”, “chiaro sbiadito”, “giallaÂstro”, “azzurrognolo”, “abbastanza chiari”, “biancaÂstre”, “grigiastri”, “molto lieve”, “rossastro”. La morÂtalità e la verità , dunque, ma non l’esaltazione del marchio. Il quadro è come gli altri sostanzioso, tuttaÂvia conseguito con mezzi toni: l’uomo è serio senza tragedia, pervaso di vita ragionevole oltre che sanguiÂgna, è vivo senza rozzezza. Anche qui la pittura di Jan van Eyck si rinnova dal ciclo alla terra: la sua mossa è il ritratto e il suo splendore è la misura.
Letto 890 volte.

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