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PITTURA: I MAESTRI: Ingres torna a Roma26 Febbraio 2015
di Cesare Brandi Roma, marzo Forse può parere una « boutade » dire che questa mostra dedicata a Ingres a Roma è una mostra di riparaÂzione: RimarrĂ sempre per me, questo fatÂto, un mistero. Certo, c’è un altro miÂstero: perchĂ© fosse successo lo stesso a Poussin, divenuto cittadino romano che dipingeva e spediva a Parigi. E questo dopo aver avuto la grossa ordiÂnazione per un quadro di San Pietro, che era entrare nell’arte ufficiale per il portone maggiore, non certo per la porta di Servizio. Eppure si potrĂ semÂpre piĂą facilmente capire il caso di Poussin che quello di Ingres. Per il gusto barocco, Poussin, una volta olÂtrepassato il primo periodo caravaggeÂsco-veneziano, apparteneva a una corÂrente, quella classica, che, seppure iniÂziata da Annibale Carracci e dal Domenichino, era stata vivacemente soÂpraffatta. Chi trionfò, fu Pietro da Cortona, il Baciccio; la pittura di Poussin, se anche oggetto di estremo rispetto da parte del Baldinucci, chiaÂramente era retrospettiva, gelava il fiume ribollente della pittura in cui il secolo si riconobbe. In questo senso anche il vivere appartato dagli italiani di Poussin, che stava nel suo clan fatÂto di francesi e di stranieri, aiutò a toÂglierlo di mezzo e a escluderlo dalle ordinazioni ufficiali. Ma la situazione di Ingres era diverÂga: il neoclassicismo era nato a Roma, nessuno aveva lesinato onori e ordinaÂzioni a Mengs, la cui pittura non era meno intensamente colorita, fino ad essere intollerabile, di quella di InÂgres. NĂ© i Nazareni furono trascurati, pressappoco nello stesso periodo, per non dire poi degli scultori. Ingres staÂva a Roma, e praticamente nessuno lo usò, se non per quelle due ordinazioÂni ufficiali alla venuta di Napoleone, quando si allestì ad hoc un appartaÂmento al Quirinale. Dei due quadri che Ingres dipinse nel 1812, l’uno, quello per il soffitto della camera da letto, per il sogno di Ossian, — ora esposto a Villa Medici — se lo ricomÂprò l’autore qualche decina di anni piĂą tardi, e doveva essergli rimasto nel cuore, così elaborato eppur non finito. L’altro, con Romolo che ha vinÂto Acrone fu richiesto dall’Amministrazione delle Belle Arti francesi nel 1867, e Pio IX, desideroso di ingraziarÂsi Napoleone III, senza far tante stoÂrie lo spedì a Parigi. Così anche la traccia piĂą grandiosa del primo sogÂgiorno di Ingres a Roma, è scomparsa dalla cittĂ , che costituiva la sede ideale per l’ideale pittura che Ingres volle atÂtuare. Infatti è discutibile se veramenÂte Ingres abbia amato Roma, non certo, comunque, al modo di Stendhal: Roma era, per Ingres, il palcoscenico di tutti i suoi finti romani, di questa infinita serie di comparse in toga e in peplo, che egli prima disegnava nude, per obÂbedire a Raffaello, e poi rivestiva in modo tale, che del nudo non ci restava che la punta dei piedi. Forse neppure l’amò, Roma, Ingres, ma gli era indiÂspensabile: e quando si infuriò con PaÂrigi, preferì tornare a Roma a fare quasi il burocrate, che a tenere un ruolo di secondo a Parigi. Detto questo, e non se ne poteva fare a meno, resta al punto di prima il quesito, perchĂ© Ingres, in Italia, non ebbe alcun successo, pur allineato sul gusto di quadri storici e di soggetti itaÂliani, da Romolo, appunto, a Paolo e Francesca, uno dei suoi quadri piĂą irÂritanti, è fatto apposta per piacere agli entusiasti del Camuccini e dell’Hayez. Ma in realtĂ , Ingres, dapprima non piacque neanche in Francia. Tra noi lo vediamo con altri occhi, , con altre assunzioni. A noi sembra che quadri, alla fine, col gusto neoclassico e che vi sia solo differenza, un abisso, di quaÂlitĂ : ma allora, a Parigi, la sua pittura parve secca, arcaizzante. E ancora alla fine della vita, si contavano le verteÂbre della grande Odalisca — tre in piĂą — e si notava che alla stessa grande Odalisca la coscia sinistra nasceva dalÂle costole, il che è vero, e serve a diÂmostrare quanto contino questi rilievi su natura. La grande Odalisca è un grande quadro e basta, e ha le verteÂbre che deve avere una donna dipinta e la coscia dove deve stare in una pitÂtura. Ma è un fatto che neppure il subliÂme ritratto di Mademoiselle Rivière, del 1805, piacque allora nĂ© dopo. Se nel 1874 fu addirittura messo nei deÂpositi del Louvre. Forse questa incomÂprensione in patria, a cui si aggiunse anche l’aspra rivalitĂ con Delacroix, può aprirci uno spiraglio sull’incomprensione romana, e infine ci illumina anche il fatto che soprattutto, in InÂgres, ci si vedessero i fiamminghi, Jan Van Eyck, che a noi verrebbe mai in testa di andarcelo a ricercare. E c’è inÂvece, sicuramente, seppure solo nelÂl’intensitĂ dei toni densi come se quei pomeriggi fossero il colore pieno come la polenta. Ma non c’è la trasparenza incredibile dei fiamminghi, quel fatto di essere sempre piĂą vicini e sempre piĂą lontani, in uno spazio senza spesÂsore e senza confine. Ingres, in realtĂ , guardava tutto, e come si mosse per la pittura, assai piĂą dal ‘700 illustre che da David, così seÂguita a tener conto degli inglesi, ma soprattutto del Domenichino e del SasÂsoferrato. In genere si dice Raffaello e si crede che basti; ma Raffaello, Ingres, per quanto ne facesse copie dirette e rapÂpresentasse qualcosa di immarcescibiÂle di fronte ai suoi occhi, una stella fissa piĂą che un sole, Raffaello è meÂdiato, come ben videro quelli ai quali la secchezza dello stile di Ingres dava ai nervi. Dalla pittura del Trecento e dei Quattrocento, finchĂ© nel Domenichino e nel Sassoferrato trovò il punto giusto del lievito a cui doveva essere cotto Raffaello. Per la mia osservazione, circa l’atÂtenzione portata alla pittura settecenÂtesca pre-davidiana, basti, alla Mostra romana, il meraviglioso ritratto di Granet (del 1807) con lo sfondo del Quirinale. Il mantello morbido e sfuÂmato, che ha sempre riscosso tante lodi, è dipinto come nel Batoni, e un po’ come in Boucher, con quelle lumaÂcature di luce ai bordi del velluto. E per la seconda osservazione, circa la mediazione trecentesca allo stile rafÂfaellesco, si guardi, sempre alla MoÂstra romana, lo studio, stupendo, del- l’Angelica; orbene quel chiaroscuro marginale, per cui perfino i fiorenti atÂtributi della soda e basedoviana gioviÂnetta si appiattiscono, è la soluzione plastica giottesca. Le cosce di AngeliÂca sono compresse; in schiacciato come se vi fosse passato un rullo. E che dire di Teti che su quel Giove da baraccone, del quadro famosissimo e repulsivo non è che una sagoma dai bordi arrotondati? E che sagoma, cerÂto. Ma questo stupendo soprassalto del nudo di Teti modellato come in una .medaglia è un corollario della mediaÂzione giottesca allo stile di Raffaello. Il che fa vedere con quanta intelligenÂza critica guardasse Ingres agli anti- chi, anche se non erano antichi romani o statue del Flaxman. E ora veniamo al Domenichino e al Sassoferrato. E’ l’aria raffaellesca che inganna, ma la sodezza artifiziosa di quelle carni nell’Odalisca e la Schiava e fin nell’ultimo mirabile Bagno turco, è la sodezza del Domenichino, è la luce che tornisce l’alabastro come nel Sassoferrato. E io sarei curioso veraÂmente di fare un fotomontaggio: prenÂdere qualche angiolotto dal pennacÂchio del Domenichino nella Cappella di San Gennaro a Napoli, e inserirla a tradimento in una composizione di InÂgres. Non sarebbe poi così difficile, dato che le composizioni di Ingres sono fatte, come si sa, non di getto, ma a intarsio, con una laboriositĂ e uno stento che solo gli stupendi pezzi di pittura che contengono possono far diÂgerire. Ebbene, non so se ci se ne acÂcorgerebbe. Che non ci si voglia vedere un desiÂderio sterile di diminuire la grandezÂza di questo pittore intramontabile, che, se esistesse nel tempo, qualcosa di simile all’imponderabilitĂ in cui proiettiamo i nostri astronauti, a InÂgres, o a nessun altro spetterebbe. E questo dice altresì quanto sia vano anÂdare a misurare un artista col metro sfuggente dell’attualitĂ . Ingres non fu mai attuale, e il suo dipinto piĂą bello, che, a parte i ritratti, è per me il BaÂgno turco, si schiudeva nientemeno che nel 1862, quando non solo era giĂ passato il neoclassicismo, ma anche il romanticismo, e iniziava il mattino della pittura impressionista. Ma Ingres poteva arrivare pure al Cubismo: sarebbe stata la stessa cosa. E non perchĂ©, con una indebita lode, venga ora salutato quale primo pittore moderno; ma proprio perchĂ© a lui apÂpartiene l’astanza dello stile e null’altro in piĂą. Ed è un’astanza così gelosaÂmente monda e lucente, così sottratta alla flagranza, che, quando si vede, sta nel suo cielo come la luna di ieri e di domani. Ma certo che forse il piĂą belÂl’episodio della vita di Ingres, per noi, è il fatto della visita che gli fece DeÂgas: e, che Degas, come giĂ a Ingres era riuscito il matrimonio impossibile tra Giotto e Raffaello, azzeccasse quello apparentemente eretico fra Ingres e Manet. Eppure ci sono certi disegni qui alla Mostra romana, che li diresti di Degas (per il Voto di Luigi XIII); e proprio, affermando questo, non si fa torto a nessuno dei due. Alla quale Mostra, fra le grandi bellezze, c’è lo statutario Virgilio che legge l’Eneide di Bruxelles, un quadro che, pur così congelato, innalza all’entusiasmo: non finito, ma non perfettibile. E ci sono invece due quadretti acquistati da poco per il Petit Palais a Parigi, la morte di Leonardo ed Enrico IV che gioca con i figli, che piĂą finiti non potrebbero essere e neppure piĂą noiosi. Meglio arrestarsi al magnifico Cherubini nel cui tergo è stato letto questo singolarissimo avvertimento: « L’autore di questo quadro desidera che mai ne venga rimossa vernice perchĂ© sarebbe come distruggerlo ». La Mostra è sistemata benissimo queste strane costruzioni di Villa Medici, con i mattoni arsi, intonaci marmorizzati, ottime luci. Lodi dunque a chi se le merita, all’Accademia di Francia, nella persona di Balthus, alla Galleria Nazionale d’Arte moderna, in quella di Palma Bucarelli: e ai loro aiuti tutti bravi, volonterosi, sagaci. Letto 1560 volte.

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