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PITTURA: LETTERATURA: I MAESTRI: Giombarresi

29 Dicembre 2018

di Leonardo Sciascia
[dal “Corriere della Sera”, martedì 1 luglio 1969]

A prima vista, il suo caso sembra abbastanza chiaro e classificabile: Francesco Giombarresi inventa macchine com­plicatissime, le disegna, le co­struisce; lavora a un trattato di medicina; affolla segni e colori ogni pezzo di carta che si trova a portata della sua mano; crea un lessico ade­guato alle cose che inventa, ai segni e ai colori di cui in­veste ogni carta; smodata­mente ama farsi fotografare accanto alle sue macchine e alle sue pitture; dice sacrifica­ta e tradita la sua vita, la sua umanità, il suo genio.

Poi, man mano che si en­tra nel labirinto delle sue in­venzioni, dei suoi scritti, dei suoi piccoli e innumerevoli di­pinti, il caso appare sempre più oscuro e sempre più sfug­ge alla prima classificazione. « L’arte mia sia stata un’opera di Dio creduto per mia stes­sa Natura, la quale io oggi attraverso studi profondi, ar­tistici, ò già dovuto tanto ap­profondire le proprie miei idei veri e dotati nel senso della mia stessa Natura la quale, dal giorno della Nascita mia ad oggi, ò dovuto soffrire ab­bastanza il mio fisico, non solo per il fatto artistico, lettera­rio, scientifico, ma per la gra­vità della forma delle miserie, delle conseguenze inaspettate, delle disavventure, dell’offese, dei soprusi, dei disordini fa­miliari, dei processi inaspet­tati, alla Giustizia, quindi tut­to un gruppo di cose che si incontrano a contradire la vita dell’uomo… Ho dovuto fino ad oggi dipingere più di 2000 opere, che molte di que­ste opere con tanta di rabbia sono andate a finire alla Ca­tastrofe, e al fuoco, per siste­mi di rabbia e di contradizio­ne nella loro vita… Ma tutto passa, e resta sull’esempio nel­la vita delle Scritture… ». E’ una dichiarazione che sembra disarticolata e indecifrabile; e non è, per chi conosce Giombarresi e la storia della sua vita. Ma anche per chi non lo conosce e non sa della sua vita « sacrificata, stancata, di­savventurata, bastonata », re­stano suggestivamente sospesi e baluginanti, come poesia tanto per intenderci, quel « Dio creduto per mia stessa Natura »; « le cose che si in­contrano a contradire la vita dell’uomo »; le opere finite « alla Catastrofe, e al fuoco, per sistemi di rabbia e di contradizione nella loro vita »; la vita che resta esemplare nelle Scritture al disopra di quella che contradice l’uomo e se stessa.

*

La scrittura, le scritture parole che frequentemente ca­dono nel discorso di Giombarresi, e la seconda sempre con un che di religioso e solenne. La scrittura come strumento, le scritture come risultato. La sua pittura altro non è che una scrittura, la più autentica e coerente che sia riuscito a inventare contro i sistemi della rabbia e della contradizio­ne che da ogni parte lo asse­diano: e ne risultano le scrit­ture, quelle cose vere e dure­voli che sono gli innumerevo­li piccoli dipinti a tempera in cui racconta il mondo, la sua vita, la vita della gente che gli sta intorno stupida e fe­roce, grottesca, stravolta e tra­volta in un tristo e blasfemo carnevale. Di fronte alle ma­schere e figure umane che Giombarresi dipinge, è facile pensare a Ensor; e particolar­mente a quella famosa acqua­forte dell ‘entrata di Gesù a Bruxelles nel martedì grasso del 1898. E che Giombarresi si trovi in mezzo al carnevale dell’antica contea di Modica che il suo conterraneo Serafi­no Amabile Guastella ha stu­pendamente descritto in un li­bro pochissimo noto: atroce carnevale degli istinti, dei ran­cori, violento e famelico, se­gnato dalla miseria e dalla morte. Che ci si trovi in mez­zo traumaticamente, da uomo sereno, puro nel cuore e nel­la mente, candidamente com­preso della propria dignità e della dignità di ogni cosa vi­vente, che d’improvviso vede tutto stravolgersi nella frode e nella violenza.

*

A Vittoria, in provincia di Ragusa, Giombarresi è nato nel 1930, Ha passato fin dal­l’infanzia indicibili stenti, la­vorando duramente e di tan­to in tanto tentando fughe di­sperate che finivano in più disperati ritorni. Si sposò gio­vanissimo. Si trasferì a Comiso. Ma il matrimonio e la nascita dei figli accrebbero i suoi disagi e le sue inquietudini. Non aveva salute e forze adatte al duro lavoro della campagna; e poi gli era venuta una bruciante passione per lo studio, la conoscenza, la pittura. Di scuole, aveva fatto soltanto le prime due classi delle elementari: ma così assiduamente si esercitava a scrivere e a leggere, in solitudine  e furtivamente, facendo incetta di parole e inventando un loro significato, e cercando parole per i signi­ficati che le cose gli rivelava­no, che oggi è in grado di leggere nei testi quel che i te­sti non dicono e di scriverne — memorie, fantasie, scien­za — di assolutamente impenetrabili: tanto che, avendo ora trovato comunicazione con gente che non lo deride e lo aiuta, lavora ad un lessico che permetta una traduzione dei suoi testi, e specialmente di quel trattato di medicina che a beneficio dell’umanità va scrivendo.

Per scriverlo, pare che spe­rimenti su di sé gli effetti di certe bacche, di certe erbe, di certe miscele: e serviranno a guarire mali che sono ad oggi ritenuti incurabili. Dirgli che il suo trattato di medicina, le sue esperienze, le macchine che inventa e le sostanze che distilla, la sua sete di cono­scenza e la sua ansietà per le sofferenze umane, sono inclu­se nella sua pittura, che nella pittura ha tutto tradotto, spe­rimentato e risolto, non serve. La mania coesiste con la poe­sia. Indifferentemente, Giombarresi può passare una notte a delirare di scienza o a di­pingere con meravigliosa sere­nità e sicurezza. Perché è ve­ramente pittore: e come sia arrivato ad avere una scienza così precisa e armoniosa della pittura, un così indefettibile equilibrio, è un mistero.

Ha cominciato a dipingere nel 1954. Ma le cose che mo­stra sono degli ultimi anni; le altre sono veramente finite nel fuoco, veramente sono sta­te disperse al vento. Racconta di averne buttate dal finestri­no del treno, tornando dalla Germania: nelle vicinanze di Napoli, e i contadini le racco­glievano. Perché è stato in Germania per due anni, a fare il boscaiolo nelle vicinanze di Stoccarda: lavoro più duro che nelle campagne di Comiso, dove c’è almeno il sole ad alleviare il dolore delle ossa.

*

La sua storia è insomma quella di un bracciante del­l’antica contea di Modica, qua­le da secoli quasi immutabil­mente si ripete. Una condizio­ne umana alquanto diversa di quella delle altre zone della Sicilia: senza aggregazioni ma­fiose, con rarissime esplosioni di collera collettiva, con indi­ci di criminalità molto bassi. « A lamentarci del villano del­la nostra antica Contea è pro­prio un lamentarci della buo­na misura, come si dice in dialetto », scriveva alla fine del secolo scorso il barone Guastella. Un mondo conta­dino. dunque, rassegnato, chiu­so, di silenziosa sofferenza. E se il barone non aveva da la­mentarsene, Giombarresi ave­va tutte le ragioni per tentare di evaderne. Solo che non riu­sciva, e ad ogni tentativo era più amaro il ritorno. Tutti, in paese, ritenevano che Giombarresi non avesse voglia di lavorare, persino i suoi paren­ti e sua moglie: in verità la­vorava quanto può lavorare in Sicilia un bracciante di cam­pagna che va a giornata, non più di cento giorni di lavoro in un anno; e quando non la­vorava in campagna, si dava al lavoro ancora più precario di scaricatore alla stazione fer­roviaria. Si ebbe anche una denuncia per mancata assi­stenza alla famiglia.

Il fatto che conducesse espe­rimenti « scientifici » in cami­ce bianco, solennemente, pro­clamando il suo genio, faceva cadere irrisione anche sulla sua pittura; che è invece la sua scienza vera e profonda. « Mentre passavano giorni, io non mi curavo della mia stan­chezza e della mia salute, ma mi incoraggiavo sempre di me stesso. Sopportavo abbastanza e studiavo con passione. Ma consideravo anche l’ignoranza che agli altri dava coraggio sempre di sfregarmi e di of­fendermi. Quei tempi io abi­tavo una casetta di un metro e sessanta di larghezza e pagavo lire mille al mese: e io e la mia famiglia, in cinque persone, dovevamo dormire in quella grotta. Ma io soppor­tavo anche questo, e la gente che stava bene sorrideva di me dicendomi: un giovane co­me te muore di fame, che ver­gogna; e mentre quei cretini, gente vile, volgare, tremitosa e fangosa, avevano tutta l’an­sia e il fumo del denaro. Ma io inghiottivo tutto… ». « Quei tempi »: cioè fino a ieri. Ora Giombarresi ha una casetta larga il doppio, e ac­canto si è fatta una baracchetta dove scrive, fa gli espe­rimenti, dipinge. Uno studio.

Il fatto che Zancanaro abbia presentato una sua mostra, che Guttuso e Sassu e Cantatore lo riconoscano pittore, ha por­tato il Comune a riconoscerlo finalmente come bisognoso, ad includerlo nelle liste di assi­stenza. Di quest’ultimo rico­noscimento Giombarresi sem­bra più contento che dell’al­tro. « Il diritto », dice, « il di­ritto delle mie creature ».

 

 


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