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PITTURA: LETTERATURA: I MAESTRI: Salvator Rosa: Un pittore del dissenso25 Dicembre 2018
di Luigi Salerno Pittore, scrittore e poeta, Salvator Rosa, ci ha lasciato docuÂmenti molteplici della sua attività : quadri, disegni, incisioni, componimenti poetici e un epistolario di centinaia di lettere. Non scrisse musica, come si credette nel Settecento, ma fu amico di intellettuali, appassionato attore di commedie e frequentatore di accademie. Accusato di essere “ugonotto, calvinista o luterano” o addirittura ateo, si professò apertaÂmente stoico rimanendo fedele ai propri principi esteÂtici e morali per tutta la vita, sempre avversando la culÂtura ufficiale. L’azione del Rosa sui contemporanei e sui posteri è staÂta, come vedremo, notevole. Non si può invece dire che egli abbia conquistato presto e con facilità le simpatie del nostro secolo, e ciò perché, dopo un lungo oblio, iniziato nella metà dell’Ottocento, quando apparvero le prime monografie (quella dell’Ozzola nel 1908 e quella del Pettorelli nel 1924), la maggior parte delle sue opere era ancora occultata nelle raccolte private; d’altro lato, la sua pittura appariva a molti, come già era apparsa ai contemporanei, priva di quei valori di armonia, di proporzione, di piacevolezza, di cosidÂdetta ‘abilità nel disegno’, che erano generalmente le qualità meglio accettabili. Pesava poi ancora il pregiudizio sulla perÂsonalità umana del Rosa, che la critica ottocentesca aveva bollato con l’etichetta di peintre maudit negandone, a partiÂre dal Ruskin, la spontaneità . Infine gravava sugli studi quella generale condanna del barocco che ha dominato fino all’ultima guerra mondiale. Eppure il profondo influsso del Rosa fino all’inizio dell’Ottocento avrebbe dovuto avvertire che in lui non doveva mancare la qualità , perché in arte qualità estetica e importanza storica tendono sempre a coincidere. Il temperamento del Rosa è intimamente napoletano e l’estrazione del suo stile pittorico va ricercata in quel naturaÂlismo che a lungo ha dominato a Napoli, dal primo Seicento fino all’Ottocento di Filippo Palizzi. Il suo autoritratto nel quadro di Viterbo o in quello della National Gallery di Londra ci presenta un tipo “mezzo africano”, come lo deÂscrisse il Passeri, suo biografo. Nella tela di Londra egli si atÂteggia volutamente come un filosofo, stagliando la propria figura contro il fondo con una evidenza eroica e con una inÂsuperabile fierezza romantica. Ma egli era aggressivo ed esiÂbizionista solo nella difesa polemica della propria arte e delle proprie idee, con il suo gusto per la discussione, per la satira, per i modi retorici di agire, modi del resto conformi al secolo del barocco cui appartiene, e non prove, come qualcuno ha sospettato, di scarsa sincerità . Come il Poussin, anche il Rosa non riuscì, fin dall’inizio della sua camera, a ottenere commissioni pubbliche imporÂtanti. I primi acquirenti dei suoi quadri preferivano i sogÂgetti di genere, paesaggi e battaglie, alle grandi composiÂzioni di figure. Dopo aver fatto scandalo a Roma, attacÂcando addirittura il Bernini, si recò al servizio del granduca di Toscana, ma, insoddisfatto di come era impiegato in quelÂla corte, tornò di nuovo a Roma col desiderio di maggiori affermazioni, sempre più deciso a imporsi quale pittore di “cose filosofiche e morali” in grandi quadri di figure. L’inÂcomprensione dell’alto mecenatismo delle corti e degli amÂbienti più ad esse legati lo aveva ormai indotto a lavorare prevalentemente per pochi amici intellettuali, come il CordiÂni, il Ricciardi, il Maffei, più tardi il De Rossi, i quali condiÂvidevano le sue stesse idee. Ebbe successo con il Sagredo, o con il cardinal Chigi che simpatizzava per la scienza, con Cristina di Svezia che lo invitò alla sua corte, e che, quando il pittore morì a Roma, si assicurò tutti i suoi disegni. Esisteva dunque un’aristocrazia illuminata che simpatizzava per i pittoÂri del dissenso. In genere, però, quando un mecenate ordinava al Rosa un’opera, egli da un lato ne era lusingato, e dall’alÂtro polemizzava per sostenere il proprio genio e la propria liÂbertà di artista, dichiarando di non essere disposto a lavorare su commissione. Al principe Ruffo scrisse che dipingeva non per denaro, ma per se stesso, per propria soddisfazione e solo quando era ispirato. Con un atteggiamento generalmente ignoto al Seicento e che sembra anticipare i tempi moderni, egli esponeva assiduamente alle mostre annuali che si teneÂvano al Pantheon e a S. Giovanni Decollato, non tanto per vendere, quanto per far chiasso sulle proprie opere. NaturalÂmente qualcuno, visto un suo quadro esposto, poteva poi chiederglielo. Analogamente nel 1662 si dedicò a fare inciÂsioni di propri quadri, sia perché gli artisti di allora tenevaÂno molto a che le proprie opere fossero ‘date alle stampe’, sia perché qualche cliente, come egli stesso ci rivela, vedendo una sua acquaforte e leggendovi: “Salvator Rosa pinxit” poÂteva chiedergli la tela; allora il Rosa l’avrebbe appositamenÂte dipinta. Alle mostre la sua polemica raggiunse il culmine quando espose una tela raffigurante solamente un sasso, perÂché “vi si spezzassero i denti gli invidiosi” o quando, nel 1659, espose La fortuna, una satira pittorica contro il meÂcenatismo del papa che versava ricchezze su povere bestie: accusa aperta all’ignoranza dei mecenati. Fu il cardinale Chigi, fratello del pontefice, a salvare il pittore dalle conseÂguenze di un simile irreverente gesto. Come scrittore, nonostante proclamasse, alludendo a se stesso, “pinger per gloria e poetar per gioco”, Salvator Rosa ha un posto non trascurabile nella storia della letteratura italiana (si vedano al riguardo gli studi del Limentani, come sulla perÂsonalità del Rosa nel mondo del mecenatismo, si veda lo Haskell, Patrons and Painters, 1963). Qui basti notare che fra l’opera poetica e l’opera pittorica del Rosa si scorge un notevole parallelismo. Alla fine del 1640 egli scriveva La musica, e in quel momento doveva dipingere sia il quadro di questo sogÂgetto nella Galleria Nazionale di Roma, sia forse la Natura morta musicale ora nella collezione del Major Gordon. Nel 1642 (data probabile) scriveva La poesia e La pittura e deÂgli stessi anni, fra il 1640 e il ’42, sono i quadri ispirati a tali temi. Nel 1646 pubblicava l’ode La strega e in quel momenÂto dipingeva una serie di scene di ‘stregonerie’. Nel 1647 pubÂblicava La guerra e fra il 1645 e il ’52 dipingeva le sue più grandi e importanti battaglie. Nel 1653 scriveva la satira L’invidia e dello stesso tempo è il quadro che abbiamo sopra ricordato, Il sasso, esposto al Pantheon, poi perduto. Nel 1657-58 scriveva Babilonia, una satira contro la corte di RoÂma, e a questo testo letterario corrisponde la satira pittorica del citato quadro La fortuna esposto nel 1659. Infine scrisse Il Tirreno, che sembra trovare corrispondenza nel tipo di paesaggio eremitico che il Rosa crea nel periodo più inolÂtrato della sua vita. Questo parallelismo fra pittura e poesia si spiega bene non solo perché, quando un arista ha in mente un tema e ne è preso, è umano che tenda a svolgerlo con i vari mezzi a propria disposizione, ma si spiega col fatto che tutto il SeiÂcento è dominato dal principio oraziano dell'”ut pictura poesis”, principio secondo il quale la pittura è intesa come poesia muta, immagine visiva capace di esprimere un conteÂnuto letterario, poetico, morale. Tale finalità riscattava le stesse immagini realistiche, prese dal vero, perché nella poetica di Aristotele la commedia giustificava con lo scopo didattico l’inclusione della realtà quotidiana e inferiore. Il Rosa, così tende a tradurre i generi realistici, dai quali ha preso le mosse nella giovinezza, in poesia emblematica dal fiÂne moraleggiante e tale scopo si propone nel paesaggio, nel ritratto e, ovviamente, nei più disparati soggetti a effetto. Basti pensare all’autoritratto già citato della National Gallery di Londra, al ritratto di Rosalvo, a quello del Ricciardi o alla figura con motti morali e scritte filosofiche (come: “Aut tace aut loquere meliora silentio”, ovvero: “Post mortem summa voluptas”), secondo un’usanza tipicamente nordica. In queste opere il Rosa crea quel tipo di ritratto moraleggiante e allegorico che avrà fortuna fino al Reynolds. Egualmente i paesaggi e le marine cominciano quasi suÂbito dopo il 1640, a mostrare scene morali, scene di filosofi che rinunciano alla ricchezza gettando i denari in mare o alÂtri temi siffatti. Poi le dimensioni dei quadri si fanno magÂgiori, c’è una sempre crescente volontà di far grande, finché il genere verrà quasi abbandonato (anche se mai del tutto). Certo, dopo il 1650, l’insistenza del Rosa sui grandi quadri di figure appare evidentissima. Questa immagine del Rosa non più pittore di paesaggi e battaglie, ma di grandi composizioni filosofiche, era ben viva nel Settecento e nel periodo neoaclassico; ma possiamo conÂsiderarla un recupero recente, vista la condanna e la scarsa conoscenza, nei tempi a noi più vicini, di questa sua produÂzione essenziale. Studiando l’opera letteraria del Rosa, il LiÂmentani ha chiarito molto sulla sua personalità e sempre più è apparsa evidente la sua mentalità filosofica e stoica. Per merito, fra gli altri, di Francis Haskell, di Richard Wallace, e anche indirettamente di Anthony Blunt nella sua monoÂgrafia su Poussin, si è compresa meglio tutta l’importanza dello stoicismo come movimento (piuttosto un atteggiamenÂto che una vera filosofia) assai diffuso nel corso del Seicento ed essenziale anche in arte. Basti dire che il Poussin, il Testa, il Borromini sono fra i maggiori esponenti, insieme al Rosa, di questa tendenza che è un aspetto di una più generale corÂrente di dissenso, la quale coinvolgeva artisti, scienziati, la cultura in generale, gli stessi ordini religiosi e le stesse famiÂglie nobili; una corrente che va dal Rinascimento alla rivoÂluzione francese (Salerno, 1970). Il nuovo interesse per gli studi iconologici ha infine contribuito, negli ultimissimi anni, ad accrescere la curiosità per un pittore come il Rosa, così ricco di simbolismi e di segreti pensieri, spingendo a indagaÂre sempre più le sue fonti letterarie, che vanno dalla IconoÂlogia del Ripa ai Hierogliphica del Valeriano, ai molti testi classici, ai consigli dell’amico Ricciardi, lettore di filosofia a Pisa e grande erudito. Accanto a questa sua vocazione per la letteratura e per la poesia, Rosa manifesta un’innata tendenza verso il realismo pittorico. L’originalità del suo stile, che le fonti ben videro, scrivendo che si era fatta “una maniera tutta sua propria”, nasce dal fatto che egli non segue la tradizione pittorica carraccesca, della quale era peculiare appunto la fiÂnalità della rappresentazione letteraria, ma piega a tale esiÂgenza una tradizione realistica e addirittura bambocciante. Il Rosa tende ad animare questa realtà visiva con un’enfasi teatrale che abbiamo riconosciuto tipica del suo temperaÂmento, e resta alieno al mondo classico-barocco: non dipinse affreschi, non studiò prospettiva, né proporzioni, né la staÂtuaria antica, né il disegno come lo si intendeva. La vicenda determinante del Rosa inizia quando egli inÂcontra a Roma il poeta Abati, si converte alla teoria classica e polemizza in nome del classicismo contro i bamboccianti e addirittura contro il Bernini accusandolo pubblicamente, come riferisce il Passeri che fu testimone dell’episodio, di aver introdotto in una sua commedia figure popolaresche. In pitÂtura il Rosa sente l’influsso di Claude Lorrain e dello Swa-nevelt ed inaugura una fase di felice attività a Firenze, dove vive con Lucrezia, che resterà la sua compagna, e si lega a molti amici intellettuali. I suoi quadri, specialmente quelli di paesaggio, si fanno più limpidi, ma mai veramente classici. Verso la metà del soggiorno fiorentino comincia a vaghegÂgiare soggetti più decisamente filosofici ed esoterici, tenendo presenti i temi di magia e i notturni di Filippo Napoletano e del Bramer, studiando le stampe dei maestri nordici, come il Dürer. Tutta la cultura libera sembra, dal Caravaggio in poi, simpatizzare per il Nord e la Firenze di Galileo è per il Rosa più importante e. proficua della Roma dei papi. Salvator Rosa prenderà così a vagheggiare non più l’ArÂcadia poetica di Virgilio, ma quella severa di Ovidio, ancora immune dalla civiltà . Cercherà sempre più, anziché la mitoÂlogia frivola, cara ai maestri del barocco, la mitologia severa e vedrà nella Bibbia la grandezza morale dei progenitori, nella magia le origini delle religioni e fra i filosofi dell’antichiÂtà amerà quelli che esprimono l’etica stoica e che più hanno il genio di intendere i segreti naturali, cioè i filosofi-maghi. Tornato a Roma nel ’49, insisterà su questi soggetti stimoÂlato a “far grande” sia dall’esempio del Poussin, sia, per quanto riguarda lo spirito romantico, dall’esempio del Castiglione. In un viaggio a Venezia e forse a Mantova ha probaÂbilmente studiato le opere di Giulio Romano, del Veronese, dei veneziani e si concentra sui grandi maestri del CinÂquecento. Crea così grandi opere come il Democrito e il DioÂgene, nelle quali, rispecchiando se stesso, esalta il concetto della vanità della scienza e della inutilità della logica. Spesso affermerà il principio della superiorità del genio, la dote inÂnata dei semplici: il filosofo apprende dal contadino la giusta via, il filosofo si ferma davanti a un contadino che ha trovato un modo ingegnoso di legare la legna, o si ferma davanti a un bambino che mostra come si possa bere senza nemmeno una tazza, ma semplicemente dal cavo della maÂno. I filosofi apprendono dai semplici e questi sono sempre superiori ai potenti. Nella scelta dei temi il Rosa è polemico, convinto del fatto che la filosofia ” non ama entrare nella caÂsa dei ricchi”. Egli non afferma verità assolute, ma esprime soprattutto atteggiamenti morali nei confronti della civiltà del suo tempo, esprime il proprio dissenso nei confronti dell’establishment. Egli esegue spesso i suoi dipinti a coppie, come dittici che vanno interpretati insieme, anche quanto al loro significato simbolico. In omaggio alla sua fede stoica tratta temi come il disprezzo della ricchezza, il rifiuto dei vizi, il rifiuto della schiavitù ed esalta Empedocle che per sfuggire alla tirannia si getta nella voragine, esalta Prometeo, Frine, Astrea… Anche il suo amore per la campagna è una forma di ribellione alla civiltà , che corrisponde a quell’altro atÂteggiamento così diffuso nel Seicento che fu il quietismo. In sostanza stoicismo, misantropia e quietismo, simpatia per la ricerca scientifica, libertà del pensiero laico, sono gli elementi che pongono il Rosa nella posizione di eroe in quel percorÂso culturale del dissenso che alla fine del secolo successivo si chiamerà illuminismo e rivoluzione. Dall’esempio e dal successo del Dughet il Rosa è stimolato a riprendere in altro modo la pittura di paesaggio. Egli si commuove di fronte alla natura non solo quando essa si preÂsenta lieta e serena, ma anche quando appare vergine e selÂvaggia rivelando tutta l’orrida bellezza delle sue cascate, dei suoi dirupi rocciosi, delle sue montagne, perché quella è la natura che affascina e soggioga l’uomo, dandogli il senso della superiorità e dell’eternità dell’universo. E per questa natura pittoresca egli cerca quel tipo di ‘figurine’, soldati, orientali ecc., ben diverse dalle figure quotidiane dei bamboc-cianti e anche dalle figure convenzionali, generalizzate, solo vagamente classiche del Dughet. Quelle del Rosa sono figure individuali, fra il vero e l’inventato, cioè ‘pittoresche’; per questo avranno un così enorme successo. Moralismo e amore per la magia sono qualità rimaste a lungo proprie dei meridionali e sono anche qualità dell’artiÂsta stoico, che si oppone all’arte dei grandi registi e impresari che erano, agli occhi del Rosa, il Cortona e il Bernini. Il RoÂsa non cerca la bellezza fisica, né, come si è già detto, studia il disegno sulla statuaria antica. Ai principi formali classici egli oppone un suo metodo, che ricava in modo intuitivo dal modello. La sua pittura non punta sulla varietà e sulla piaÂcevolezza del colore, se non in alcuni momenti, ma generalÂmente mira alla resa pittorica della materia, con un forte spessore dell’impasto cromatico, che giunge a notevoli libertà nel tocco. Il suo modo di comporre ha talvolta tagli compositivi assolutamente romantici, quasi un Géricault del Seicento. E queste qualità pittoresche il Rosa le trova più faÂcilmente nel brutto, nelle forme in penombra, nel contrasto luministico. Contro la moda attuale di spiegare l’arte solo sotto la viÂsuale dell’interpretazione iconologica, che spesso è pura fantasia dei critici, si deve osservare che il Rosa rimase essenÂzialmente un pittore. Pur definendosi “pittore-filosofo” (e-spressione che la critica usò per definire Poussin nel secolo scorso), egli nei suoi quadri non vuole esprimere verità assolute, ma sceglie i temi secondo le proprie simpatie e uniÂcamente in vista dell’effetto pittorico. Scrive al suo amico Ricciardi che gli suggerisca qualche soggetto elevato e raro, purché vi sia “un soldato con qualche femmina” e spesso precisa che questi soggetti “riescono mirabilmente”. Il Rosa cerca, cioè, soggetti rari, oscuri, e che facciano sensazione. In particolare preferisce rappresentare figure che cercano qualcosa nel terreno: una traccia del passato, della storia, della vita umana, che la natura sembra aver assimilato e sepolto. Rosa ama l’occulto, l’oscuro, così come i classicisti amano la chiarezza. Cerca l’orrido e lo sgradevole che ispiÂrano terrore e disgusto: Pitagora che emerge dalla sua abiÂtazione sotterranea, Etra che mostra a Teseo i sandali e la spada di suo padre sepolti, il profeta Geremia tirato su dalla sua prigione sotterranea, le figlie di Cecrope che aprono il cestello e scoprono le gambe del bambino tramutate in serpi, lo spirito di Samuele evocato dall’orrida strega di Endor. Come ha messo in rilievo il Kitson, in quasi tutti questi casi la composizione è formata da figure in piedi che guardano in basso e restano inorridite all’apparizione di qualche cosa nel terreno. Come va dunque inquadrato Salvator Rosa nello svilupÂpo della pittura del Seicento? In primo luogo egli si può acÂcostare soltanto a pittori come Pietro Testa e soprattutto al Castiglione, il primo stoico, il secondo altrettanto interessato quanto il Rosa all’esoterico. Si oppone al barocco in quanto respinge il fasto vuoto, asservito all’ideologia ufficiale di corÂte, respinge il modo di operare del Bernini e di Pietro da Cortona, che si servono di uno stuolo di aiuti e di esecutori dando solo idee e lavorando poco di persona. Egualmente il Rosa si oppone al classicismo nella tradizione carraccesca che puntava sul bello ideale, sul disegno, sulla razionalità e intellegibilità della composizione, sul senso di dignitosa quieÂte. Anche nel paesaggio il classicismo aveva, fin dall’inizio, prospettato una pittura, capace di idealizzare la natura, conÂferendole una quieta maestà e un’amena bellezza, una dolce malinconia arcadica. D’altro lato, come abbiamo visto, il Rosa si oppone anche al realismo, che egli critica nella pittuÂra dei bamboccianti. Per definire il Rosa dobbiamo dunque coniare un termine apposito, come ha suggerito il Wittkower: come Poussin è la faccia classica del barocco, come i bamboccianti ne rappresentano la faccia realistica, così il Rosa ne rappresenta la faccia “criptoromantica”. Nella pittura di paesaggio il Rosa ebbe un rivale in Gaspard Dughet, al quale talvolta è molto simile negli schemi compositivi e in certe stilizzazioni. Ma Dughet esprime un tipo di pittura di paesaggio essenzialmente decorativa. Con Nicolas Poussin il Rosa ha in comune soprattutto l’atteggiaÂmento etico, ma per il resto Poussin è, nei suoi paesaggi, e-roico e classico poiché cerca nell’architettura razionale dello scenario quasi un freno all’espressione del sentimento. QuanÂto a Claude Lorrain, egli è profondamente classico, di uno spirito del tutto opposto a quello del Rosa poiché cerca nella natura una quiete ideale piena di nostalgia, una chiarezza che sconfina nell’ingenuità del sogno. Salvator Rosa crea, inÂvece, un tipo di paesaggio spesso tempestoso, addirittura sconvolto, che il Settecento giungerà a definire con i concetti di pittoresco e di sublime: rocce, dirupi, rami secchi, alberi contorti… Non più la composizione bilanciata, scenica, non la prospettiva aerea dei suoi quadri intorno al 1640. Il confronto fra il Poussin ‘classico’, Claude ‘pastorale’ e Rosa ‘alpino’, diventerà consueto nel Settecento e giustamente è stato detto, anche di recente, che per il Rosa il modello più congeniale non è la campagna laziale, ma quella apÂpenninica. Anche nei suoi schizzi dal vero di rocce, boscaglie e dirupi il Rosa piega sempre il modello naturale al proprio espressionismo pittorico. Coerente con le sue idee sul genio artistico, convinto, coÂme il Caravaggio, che l’arte non si apprende né si insegna, ma è una innata genialità creativa, il Rosa non ebbe veri e propri scolari. Possono considerarsi tali alcuni suoi amici più giovani come il Montanini, il Ghisolfi, il Torreggiani Ebbe un allievo inglese, Mister Altham, al quale fece il ritratto e che è quasi sconosciuto (benché alcuni suoi quadri inediti si trovino nelle raccolte private di palazzo Colonna a Roma). Anche il figlio del Rosa, Augusto, si dedicò alla pittura, eseÂguendo qualche copia di opere del padre o ricavando dalle sue stampe qualche dipinto per soddisfare le richieste degli amatori. Nell’ultimo quarto del secolo l’influsso del Rosa si nota anche su paesaggisti quali Pieter Mulier, detto il TemÂpesta, e su Crescenzio Onofri, nonché sui due pittori olandeÂsi, Jacob Heusch e Abraham Genoels. Un notevole influsso si avverte sullo Schönfeld, il quale fra l’altro, incise lo stesso tema del celebre Democrito in meditazione. Ma il vedutismo obiettivo del Vanvitelli e il classicismo proprio della paesistiÂca di Jan Franz van Bloemen sembrano impedire a Roma, negli anni Ottanta, un ulteriore sviluppo del pittoricismo roÂmantico creato dal Rosa. Troveremo suoi motivi tipici in quadri del Locatelli e del Panini, pittori i quali ricavano da lui soprattutto alcuni tagli compositivi e quel tipo di figure divulgate dalle stampe dei Capricci così idonee ad animare i paesaggi. Non per nulla apparvero numerose le riproduzioni ad acquaforte di questa serie, a partire da pochi anni dopo la morte dell’artista (ad esempio quelle di Giacomo Antonio Santagostino e quelle, anteriori al 1698, di Johann Jacob von Sandrart, illustrate da Rotili, 1974) e per tutto il corso del Settecento. Molti incisori riprodussero a stampa i più faÂmosi quadri del Rosa. Così il Dietrich eseguì molte copie (si veda A. Chudzikowski, Pastiches in the works of Chrìstian Wilhelm Ernst Dietrich, in “Bulletin du Musée National de Varsovie”, VII, 1966). Il Beich, in Baviera, fu un tardo epigono. Jacques Fouquet, attivo in Svezia intorno al 1700, eseguì copie dei più celebri quadri del Rosa, conservate a Stoccolma nella casa di Nicodemus Tessin. Franco Pieraccini eseguì copie dal Rosa ora nella collezione di Lord Methuen a Corsham Court. Copie dei Capricci apparvero a stampa nel 1731 e in seguito per mano di Jan Goeree, quinÂdi a Parigi per mano del De Poilly nel 1740-50, fino alle Diverse figure pubblicate nel 1780 da Carlo Antonini. Altre stampe di imitazione apparvero intorno al 1790 per mano di Francesco Rainaldi. Infine lo Zucchi, in periodo neoclassico, eseguì anch’egli copie dal Rosa. In Italia la continuazione ideale della pittura del Rosa la troviamo nel Nord con Magnasco e Marco Ricci e troviamo lo spirito del nostro artista reinterpretato vigorosamente nelle incisioni del Piranesi (e scrittori inglesi del tempo amavano porre i due artisti su un medesimo piano) e in quelle di Giambattista Tiepolo. Troviamo echi nel Vernet e nel Parrocel (che fece disegni dal Rosa). La fama maggiore si riscontra comunque in Inghilterra e per tutto il secolo molti collezionisti acquistarono opere del Rosa in Italia per trasferirle nelle proprie collezioni. Horace Walpole possedette vari quadri del pittore e scrisse su di lui parole che riportiamo nelle pagine seguenti. L’influsso si estese alla letteratura con John Dyer, all’arte del giardino con William Kent. Il giardino informale inglese mirò infatti a creare paesaggi non geometrici, ma liberi e spontanei “fit for the pencil of Salvator” (in armonia con lo stile di Salvatore). L’influsso del Rosa è stato oggetto addirittura di ricerche monografiche sul gusto inglese del Settecento (come in E.W. Manwaring, Italian Landscape in 18th Century England…, 1925, e in C. Hussey, The Picturesque, 1927). Anche la tematica del Rosa, Banditi in una grotta o Banditi in un paesaggio roccioso, o temi severi come Saul e la pitonessa o i vari filosofi, è fatta propria da pittori inglesi quali Thomas Jones, Joseph Wright, Alexander Runciman, George Hayter, il Barry, il Mortimer (soprannominato il Salvator of Sussex”), il Füseli. Ma si tratta, ormai, di un rapporto piuttosto di carattere ideologico e letterario che stiÂlistico, analogo al rapporto che intercorre per fare un esemÂpio, fra William Blake e i suoi maestri ideali, Michelangelo e Pellegrino Tibaldi. Rosa, in sostanza, propose addirittura un tipo di pittura per definire la quale si dovette creare una nuova categoria estetica: quando si ruppe il canone classico e al bello ideale si costituì la teoria delle diverse bellezze, cioè all’obiettività di un bello assoluto si sostituì la soggettività del gusto e si afÂfacciarono i concetti di pittoresco e di sublime, il Rosa fu riÂconosciuto come grandissimo artista. Il Settecento sentì il suo fascino al punto da rendere mitica la sua stessa personalità biografica e vide in lui il bohémien, lo scrittore di musica, lo spadaccino, l’uomo avventuroso e violento, il patriota e il riÂbelle. Ciò dimostra quanta forza possa avere il linguaggio artistico, giungendo a proiettare i propri caratteri in modo deformante sulla stessa personalità umana del pittore. Rosa, come oggi sappiamo, fu invece tranquillo e addirittura a-mante della vita ritirata e familiare. Sfatando quel mito, la critica moderna ha potuto faticosamente recuperare i lineaÂmenti storici autentici del suo temperamento. La simpatia inglese per il Rosa culmina nella monografia che, nel 1824, gli dedicò Lady Morgan, la quale narra a tinÂte vivaci e immaginose una fantastica vita del Rosa fra i banditi della Calabria e una inventata sua partecipazione alla rivoluzione di Masaniello, basata sulla fantasia del bioÂgrafo De Dominici. Ed era questa la prima monografia che appariva in Inghilterra su un pittore straniero! Il romanticismo ereditò questa concezione della personaÂlità artistica del Rosa e il mito è sopravvissuto fino al testo di W. Gaunt, del 1937 e alla monografia della signora Boetzkes del 1961. Naturalmente questo mito nel corso delÂl’Ottocento si era trasformato in quello romantico del ‘pittore maledetto’. La prima vera reazione, dal punto di vista critiÂco, si era avuta con il nuovo realismo ottocentesco, del quale fu interprete il Ruskin, il primo a condannare le stilizzazioÂni, proprie del paesaggio barocco. La rivalutazione dei priÂmitivi, la nuova simpatia per il Rinascimento, la condanna e il disinteresse per il Seicento in generale, portarono a i-gnorare per molti anni il nostro pittore e ciò condusse a una notevole confusione nelle attribuzioni. Inoltre molte opere riÂmanevano dimenticate e invisibili nelle collezioni private. Quando chi scrive, nel 1963, pubblicò la prima monografia sul Rosa con un catalogo ragionato, ebbe la fortuna di vedeÂre molti quadri, prima ignoti, che uscivano proprio allora dalle collezioni private per entrare nei musei. Fu costretto allora ad adottare un criterio il più possibile restrittivo per sceverare le opere genuine dalla grandissima quantità di atÂtribuzioni infondate. Oggi si può tentare un catalogo assai più estensivo, dal quale resteranno esclusi solo pochi quadri perduti, o mai fotografati. Ciò è possibile grazie al fatto che, dopo il 1963, sono venuti alla luce diversi altri originali, si conosce meglio la schiera dei seguaci e degli imitatori e, graÂzie agli studi del Mahoney, del Wallace, del Tomory, del Rotili, si conoscono meglio anche le incisioni e i nuÂmerosi disegni.
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