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STORIA: I MAESTRI: Carlo Marx. Non un filosofo, una bandiera29 Ottobre 2014
di Giulio Preti Nel 1867 fu pubblicato ad Amburgo il primo volume del Capitale di Karl Marx: gli altri due videro la luce, postumi, molti anni dopo, ad opeÂra di Friedrich Engels. Non è per niente esaÂgerazione retorica il dire che poche opere della letteratura mondiale ebbero un’importanza e riÂsonanza storiche paragonabili a quella che ebbe quest’opera — e piĂą ancora nel nostro secolo che in quello in cui vide la luce. E tuttavia, proÂcedendo nel tempo, direi che la valutazione del Capitale diviene piĂą difficile, e che le perplessitĂ aumentano. E questo è forse l’aspetto piĂą singoÂlare e paradossale del destino di questa grande opera. E’ Il capitale un’opera di filosofia? Non piĂą tardi di quarant’anni fa la maggior parte dei filoÂsofi avrebbe risposto sdegnosamente « no », oggi parecchi risponderebbero di sì, e parecchi sarebÂbero per lo meno perplessi. E non è una domanÂda oziosa o accademica: è una domanda che imÂplica non solo una risposta responsabile al quesiÂto « cos’è la filosofia oggi », ma anche un’interÂpretazione complessiva del grande libro marxiaÂno, e del marxianesimo in genere. Das Kapital ha per sottotitolo Kritik der politischen Oekonomie, « critica dell’economia politica ». Marx lo scrisse molti anni dopo aver lasciati, incompiuti, « alla critica roditrice dei topi » i Manoscritti economico-filosofici, la sua opera filosofica piĂą origiÂnale e piĂą importante, e dopo aver chiuso le Glosse a Feuerbach con quella famigerata XI Glossa (« i filosofi hanno finora variamente inÂterpretato il mondo ecc. ») che ha tutta l’aria di una liquidazione della filosofia — o di un persoÂnale addio all’attivitĂ filosofica. Dopo, Marx si occupò (piĂą scarsamente di quanto si crederebÂbe) di politica, ma soprattutto, nei lunghi anni londinesi, rimase chiuso nella biblioteca del British Museum a leggere gli economisti classici e a comporre Il capitale, lasciando a Engels (ahimè, quanto a lui impari!) lo scrivere opere filosofiche (o quasi). E di fatto la grande opera di Marx è proprio quello che dice il suo sottotitolo: una critica delÂl’economia politica. Ma una critica, diciamo così, dall’« interno »: vuole essa stessa essere un’opeÂra scientifica di economia. Scientifica, non metaÂfisica o ideologica: fondata proprio sui princìpi, postulati, categorie e leggi fondamentali dell’eÂconomia classica, precisamente nella forma che aveva assunto per opera di David Ricardo. Marx critica l’economia borghese, capitalistica, meÂdiante le dottrine di quella stessa scienza econoÂmica che ne aveva formulato in leggi scientifiÂche le strutture pratiche fondamentali. Cioè: Marx ritiene che la scienza economica ricardiana rispecchi adeguatamente, sul piano teorico, la realtĂ effettuale del mondo economico borgheÂse-capitalistico; di conseguenza le contraddizioni che risultano dall’analisi scientifica sono l’espoÂsizione teorica delle contraddizioni reali che miÂnano quell’economia reale. La critica dell’econoÂmia politica è così l’autocritica del mondo capiÂtalistico. strong>LE ERRATE PROFEZIE DEL «CAPITALE» Non si sottolineerĂ mai abbastanza (nei conÂfronti del marxismo odierno) questo punto: la « dialettica » che Marx dispiega nelle analisi del Capitale, anche se è una lontana eco della diaÂlettica hegeliana, non è una dialettica filosofica, metafisica o ideologica: è una dialettica determinata, relativa a strutture economiche ben determinate; non si tratta della « potenza del negatiÂvo » o della « negazione della negazione » in uniÂversale, bensì di contraddizioni reali e storicaÂmente determinate che la teoria scientifica metÂte in luce in seno alla dinamica di una struttura economica reale e storicamente determinata: la struttura dell’economia capitalistica dell’Ottocento europeo (in genere), ma piĂą specificamenÂte inglese. Per esempio, le ricorrenti crisi econoÂmiche di sovrapproduzione dovute al bloccarsi della domanda non obbediscono a una generica e metafisica legge dialettica: avvengono, e si possono spiegare scientificamente a partire dalle stesse leggi (relative al mercato e alla distribuÂzione dei redditi) dell’economia politica. E così, soprattutto, il proletariato: questo grande protaÂgonista della storia futura non nasce qui come dramatis persona di una cosmica tragedia dialetÂtica, ma come classe che è la stessa economia borghese a creare, e che è l’antitesi della societĂ borghese proprio in conseguenza del modo in cui l’economia capitalistica la crea e della posiÂzione in cui la colloca. Però… Il capitale contiene delle « profezie » (che tuttavia volevano essere normali previsioni scientifiche ad ampio raggio), le quali, come da Bernstein in poi tutti sanno, non si sono avveraÂte: o per lo meno si sono avverate solo in parte, mancando in punti essenziali. Per esempio, è veÂro che i medi ceti, quali li concepiva Marx (picÂcoli imprenditori, lavoratori indipendenti) sono praticamente scomparsi in tutti i Paesi ad alto livello industriale: ma sono nati nuovi « medi ceti » piccolo-borghesi, che non trovano posto negli schemi dell’economia classica (ricardiana-marxiana). Soprattutto è mancata la piĂą grande delle previsioni: quella della miseria crescente del proletariato. Al suo posto abbiamo l’economia del benesseÂre e dei consumi della societĂ industriale avanÂzata. Quegli operai che sarebbero dovuti morire di fame vanno a lavorare in lambretta quando non addirittura in automobile, e a casa hanno la televisione (e questo, naturalmente, cambia molÂte cose circa i loro comportamenti politico-sociaÂli). La rivoluzione socialista è avvenuta piuttoÂsto in aree economicamente arretrate che non in quelle di piĂą avanzata struttura capitalistica: e questo sconcerta tutta la « dialettica » della rivoÂluzione… Per un filosofo della scienza la cosa è abbaÂstanza facile da spiegare. In scienze umane coÂme l’economia politica vige un fortissimo « prinÂcipio di indeterminazione »: la previsione dei fatti futuri diventa una causa di mutamento dei fatti futuri stessi e perciò falsifica la previÂsione. (E’ come se prevedessi che domani andrò in automobile e morirò in uno scontro: sapendolo prima, domani non andrei in automobile e così non morirei). La lezione del Capitale non l’hanÂno appresa solo i proletari, ma anche i borghesi capitalisti, i quali (per esempio, con la politica coloniale di tipo inglese) hanno fatto in modo di impedire, o per lo meno spostare, le conseguenÂze previste. Ma l’essenziale è che, una volta conÂstatato il fallimento della profezia, il revisioniÂsmo, anche se sdegnosamente rifiutato a paroÂle, nella praxis rivoluzionaria si è rivelato ineviÂtabile. Qui a me interessano soprattutto le conseÂguenze filosofiche di questo fatto. Che sono state un rapido e violento trasformarsi della dottrina marxiana da teoria economica (scientifica) in filosofia e ideologia (la rivalutazione, peraltro giusta, degli scritti filosofici di Marx giovane è un significativo episodio di questo ricupero del marxismo come filosofia). La « filosofia » marxiÂsta l’hanno creata, piĂą o meno con riferimenti ai « sacri testi » del Maestro, Engels dapprima, ma poi soprattutto Plekhanov, Lenin e tutti quelli venuti dopo, fino a oggi, « ortodossi » e no. Il marxismo è venuto assumendo un aspetto semÂpre meno scientifico-economico e sempre piĂą metafisico-ideologico. E così, con un’esasperaÂzione delle ereditĂ hegeliane di Marx (e sopratÂtutto del giovane Marx), è stato sempre piĂą riÂportato alle origini romantico-teologiche operanÂti nel pensiero hegeliano. Non per niente Hegel, come quasi tutti gli altri suoi amici-nemici ideaÂlisti, veniva fuori da una FacoltĂ teologica (coÂme del resto teologi erano per la maggior parte i giovani-hegeliani amici di Marx). I FIGLI DEL PECCATO ORIGINALE Il grande tema era stato quello cristologico, del « farsi carne » del Logos: l’incarnazione di Cristo era stata gnosticamente interpretata coÂme l’autorivelazione del Logos nella natura e nella storia, come l’autoctisi dell’Assoluto. E poichĂ© questo assoluto non poteva aver nulla fuori di sĂ© (cristianamente, la creazione è un manifestarsi di Dio « dal nulla » — creatio ex nihilo), e d’altra parte coincideva con la totalitĂ di tutte le sue manifestazioni, necessariamente questo processo doveva avere una struttura diaÂlettica, essere un sistema di opposizioni poste e alla fine conciliate entro la sintesi totale. Ecco perchĂ© la Ragione si attuava nella natura e nelÂla storia, e il metodo della comprensione razioÂnale di questo attuarsi della Ragione doveva esÂsere il metodo dialettico. La sinistra « laica » e « materialistica » postÂhegeliana conserva questo presupposto teologico di Hegel: solo che al posto del Logos mette l’Uomo — a parole l’uomo « in carne, ossa e sanÂgue », con la sua sensibilitĂ (pratica), i suoi biÂsogni, il suo lavoro, ecc.: ma in realtĂ un Uomo generico che « si fa », secondo un ideale presupÂposto al divenire storico, nell’operosa storia deÂgli uomini. E la dialettica rimaneva come metodo razionale per la comprensione della natura e della storia, perchĂ© anche l’Uomo (generico) era un assoluto: l’assoluto che prendeva il posto del Logos hegeliano ereditandone però tutti i caratÂteri metafisici e mistici. Così anche Marx rischiava di cadere nell’erroÂre che tanto acutamente e giustamente aveva rimproverato alla dialettica hegeliana: la mistifiÂcazione, per cui tra le figure della dialettica e i corrispondenti contenuti reali, empirici, non c’è una vera corrispondenza; le figure della dialettiÂca vengono ipostatizzate, e i contenuti empirici schiacciati, stilizzati, resi astratti dentro di esse, con il totale oblio della reale dinamica empirica del loro essere e del loro muoversi. Questo, che era stato il « peccato originale » della filosofia di Marx, è stato ereditato dal marÂxismo, e si è venuto accentuando nel neo-marxiÂsmo e nel marxismo « eretico » dei nostri giorni. Il discorso marxista si è fatto sempre piĂą nebuÂloso e non-sensatamente dialettico e mistificatorio. « Umanità », « Storia », « Proletariato », « PartiÂto » sono divenute le figure ipostatizzate di una « dialettica » sempre piĂą astratta, sempre piĂą acÂcademica, sempre piĂą verbalistica, nelle quali i fatti empirici della storia del mondo si identifiÂcano in virtĂą di una specie di identificazione miÂstica, perdendo le loro fisionomie reali, empiriÂche. LACRIME E SPUTI SOPRA UNA TOMBA Analisi economiche così radicali, robuste, nuÂtrite di solida scienza, fondate su una conoscenÂza attenta e meditata delle realtĂ economiche e sociali del tempo, quali quelle che indubbiamenÂte costituiscono uno dei grandi pregi del CapitaÂle, inutilmente si cercherebbero, dopo Lenin, nella letteratura marxista contemporanea. Lo stesso « capitalismo » è divenuto un’ipostasi delÂla dialettica mistico-metafisica. Non c’è da stuÂpirsi se negli scritti di alcuni « eretici » (che forÂse sono tra i piĂą intelligenti) la dialettica marxiÂsta da un metodo di analisi socio-economica sta diventando sempre piĂą un metodo di analisi esiÂstenziale, o addirittura psicoanalitica. Si pensi, per esempio, all’importanza che il concetto (di origine rousseauiano-hegeliana) di « alienazioÂne » ha assunto nell’odierna letteratura rivoluÂzionaria parallelamente allo scadimento di quel concetto di « sfruttamento » che era invece al centro della vecchia letteratura socialista. Non ricordo quanti milioni di uomini hanno pianto sulla tomba di Marx. E non si sa quanti invece non abbiano sputato su quella medesima tomba. Questo rende difficile parlare di lui come di un qualunque altro filosofo: non è piĂą un pensiero, è una bandiera. E nell’urto delle pasÂsioni riesce persino difficoltoso isolare il suo veÂro pensiero filosofico. Perciò è impossibile dire, oggi, che cos’è stato, che cos’è, per la filosofia contemporanea. Chiunque è passato attraverso un’esperienza marxista sente che è stato, che è, « molto »: chi è passato attraverso quell’espeÂrienza sente che non può tornare indietro, sente come goffe e insulse le critiche che si muovono al marxismo in nome di non-sensi idealistici o spiritualistici — come, per esempio, « che sono le idee che fanno la storia ». Ma è difficile dire « quanto » del marxianesimo come filosofia si possa difendere. Forse la sua maggiore lezione (che i neo-marÂxisti tendono troppo facilmente a dimenticare) consiste proprio nel senso del concreto storico, della determinatezza dei processi storici e della stessa dinamica che li governa. Nel senso che la storia è « fatta » dagli uomini: ma proprio per questo, se sono gli uomini e non Dio (o l’Uomo) a farla, ha un’ineliminabile contingenza e indeÂterminazione, per cui non la si può interpretare come un fieri cosmico e metafisico. E soprattutÂto Marx ci ha insegnato, con il suo stesso esemÂpio, la estrema complessitĂ del rapporto, della tensione, tra la sfera della praxis e quella della filosofia. Letto 1367 volte.

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