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STORIA: I MAESTRI: Le carte di Nasser20 Agosto 2016
di Virgilio Lilli Ancora una volta, con la scomparsa di Nasser da questa terra, la morte ci ha fornito la conferma ch’essa è assai spesso un fenomeno puntuale. Dietro la sua apparente occasionalità, voglio dire, esiste un congegno di orologeria il quale funziona secondo un ritmo di sincronismi matematici con la storia degli uomini, o più semplicemente con la storia. L’infarto, l’incidente stradale, l’attentato, la trombosi o lo stesso suicidio — in molti casi — non sono se non la traduzione in termini biologici di una meccanica che obbedisce ad una legge di necessità, rispondendo a sollecitazioni ben diverse da quelle che di volta in volta ci sembrano determinanti. In parole più dirette, ho l’impressione che l’orologio-storia non potesse consentire più che Nasser vivesse, che cioè il suo cuore continuasse a palpitare e il suo cervello a ideare concedendogli una dinamica ancora valida nella sfera della sua attività di protagonista del suo paese e di tutto il sistema di paesi più o meno in orbita — volenti o nolenti — intorno ad esso. Abdel Gamal Nasser era morto prima di morire; la sua carica di « produttore di storia » era finita prima della sua carica di vita fisica: pensiamo un attimo ad un accumulatore elettrico, alla batteria di un’auto per esempio, scarica, appunto « morta ». Nasser era morto a Mosca, nel corso del suo ultimo viaggio alla ricerca disperata della firma sovietica sulla carta « guerra » che finalmente ancora una volta egli aveva deciso di giocare sul tavolo non verde del Vicino Oriente. Tale carta egli l’aveva tenuta in serbo come quella definitiva, l’ultima che il giocatore stringe fra le dita già prese dal tremito della rivincita o della rovina: la carta sovietica. Una carta — intendiamoci — che quelle dita, un poco, gliele bruciava, non congeniale alla sua natura religiosa e ideologica; per molti versi la carta del diavolo, ma l’unica ormai a sua disposizione. A quella carta egli aveva sacrificato il suo bagaglio più sensibile di arabo e di musulmano, per essa aveva rinunciato al Corano e al Saladino. Proprio come il giocatore, che pur di sopravvivere, si vota al demonio. C’era in Nasser la testardaggine del giocatore con tutte le implicazioni che essa comporta: una specie di nevrotica fissità sulla linea spezzata del diagramma della fortuna, la fede nell’altalena dei suoi alti e bassi, la certezza che, perseverando nella puntata, la sorte capovolgesse il suo andamento. In realtà, le sue « guerre » contro Israele egli le aveva condotte come si conduce un gioco d’azzardo; e, come avviene appunto alla roulette quando il giocatore è di quelli veramente impegnati, non uscendone vincitore ne era uscito rovinato. Ma, ancora come l’autentico giocatore impegnato, era riuscito a dimostrare regolarmente ogni volta a se stesso e ai suoi che era necessario non desistere, che il segreto consisteva nel procacciarsi da qualche parte una somma da puntare ancora, sia pure indebitandosi, sia pure legandosi mani e piedi all’usuraio per disporre di una puntata sempre più alta, fino a prendere l‘en plein che avrebbe risolto tutto in misura tale da pagare le cambiali e da godere in pieno il frutto della vincita. Lo spettacolo di questo uomo che non dispera anche quando tutto sembra perduto, come dopo la guerra di Suez, quando Dayan gli ridusse in briciole l’aviazione e le truppe israeliane furono fermate sul canale solo dall’indiretto intervento degli Stati Uniti; o come quando nel ’67 gli israeliani polverizzarono le sue artiglierie, i suoi carri armati, i suoi aerei, le sue fanterie e si attestarono a Suez; o come quando il suo tentativo di fare tutt’uno Stato con la Siria fallì clamorosamente, e anche un poco grottescamente; come quando i « fratelli » del mondo arabo non mossero un dito per quell’unità che era il sistema del rouge et noir della sua fede di giocatore; lo spettacolo, dicevo, di questo accanimento — perfino eroico a suo modo — aveva affascinato gli arabi; i piccoli arabi più che gli Stati arabi, i fellahin del Nilo e i beduini della Giordania, modesti bassi impiegati della burocrazia siriana e i cadetti delle scuole militari irakene, i cammellieri dell’Arabia Saudita e finanche i commercianti musulmani del Libano. Non solo: dal Marocco, dall’Algeria, dalla Libia fino allo Yemen, addirittura fino alla Persia, il sottoproletariato musulmano aveva veduto nella pervicacia della sua sfortuna di invasato un segno dell’Islam, la stessa volontà di Allah. Dall’altra parte Israele seguiva le puntate di Nasser con occhio gelido, tecnico e vigile del croupier che domina il gioco e sa intervenire a tempo, col rastrello, a fare man bassa di fiches; non contando sulla cecità della sorte, bensì sulla validità delle regole e dei dispositivi del gioco; senza prendere iniziative, ma con la ferrea decisione di non fare saltare il banco. In questo crudele contesto, Mosca è stata appunto l’elemento tentatore; essa ha aperto la borsa al giocatore giunto allo stremo delle possibilità, concedendogli un credito apparentemente illimitato, fornendogli tutte le somme di cui egli abbisognava: i mezzi corazzati, le artiglierie, l’aviazione, le armi elettroniche, gli istruttori, i tecnici, gli specialisti e infine i piloti da combattimento. « Farai col mio sostegno la guerra decisiva a Israele – sembrava avergli detto – la vincerai; strapperai dal cuore del Vicino Oriente la spina che ti duole e tornerai l’idolo del mondo arabo. Non ti chiedo, in cambio, la sovietizzazione dell’Islam; ti limiterai a farmi arrivare al Mediterraneo, al Canale di Suez, all’Oceano Indiano. I tuoi fratelli continuino pure a popolare le loro prigioni di comunisti; a me interessa solo che Alessandria divenga una piazzaforte della mia flotta, e Suez la mia scorciatoia strategica, economica e politica per l’Oriente lontano ». Accettato il patto col diavolo, il giocatore aveva preparato la sua favolosa puntata; e nel giugno di quest’anno aveva dato il via al suo gioco: bloccata l’aviazione di Israele con i missili Sam 2 e Sam 3 sul Canale, predisposto lo schieramento per il grande balzo oltre il fronte d’acqua, aveva suonato l’adunata generale. I suoi discorsi di Tripoli e di Bengasi avevano dato l’annuncio della guerra santa, con una voce che aveva assunto di nuovo gli accenti di quella del profeta. A quell’appello Damasco e Bagdad, Tripoli e Kartum, Algeri, e Amman, e Tunisi, e Casablanca, avevano trattenuto il fiato nell’attesa. Senonché, un attimo prima che egli deponesse la sua puntata d’acciaio e d’esplosivo nella casella dell’en plein ormai certo ai suoi occhi, Washington aveva ammonito Mosca che la guerra santa di Nasser si sarebbe dilatata nella terza guerra mondiale. E’ a questo punto che ha avuto inizio l’agonia di Nasser. Il suo viaggio in Russia per dissuadere Mosca dall’abbandonarlo, è divenuto il suo coma. Venti giorni all’ombra di un Cremlino che improvvisamente non solo gli rifiutava ogni ulteriore credito ma che non esitava ad imporgli di non giocare un solo centesimo, e cioè di perdere anche la sua ultima guerra prima ancora di darle il via, lo hanno ucciso. Il rais che tornava al Cairo in veste di moderatore e di paciere non era più che un ectoplasma, non aveva più sangue politico, non più profilo storico per gli arabi che avevano atteso affascinati il gesto fulgido e definitivo del giocatore. Divenuto un « traditore », un « complice del capitalismo e della reazione », un « istrumento dell’imperialismo americano e sionista », la Siria e l’Irak lo hanno coperto di sputi, i fedain palestinesi gli hanno strappato la bandiera dalle mani e l’hanno immersa nel sangue della guerra civile. (Invano, poiché l’uomo era già morto; le sue reazioni erano ormai parvenze, mentre sostanzialmente egli era già polverizzato dal congegno di orologeria della legge di necessità regolato dalla storia per la quale non rappresentava più nulla). La cancellazione di Nasser, nel riverbero del miserando sangue dei palestinesi e dei beduini del re di Giordania, ha fatto attorno a sé il vuoto. Un idolo si è infranto nel mondo arabo (così bisognoso di idoli) e ha trascinato nel suo crollo i candidati alla successione ad una idolatria che non ha avuto il tempo pei maturare. E questa è forse la realtà più tangibile della fine del rais: il deserto umano che, nel breve giro di poche settimane, si è determinato nel perimetro dell’Islam, un vacuum di « eroi » che fa della contrada araba una terra senza bandiera: con quell’Arafat che abbraccia re Hussein nell’ombra della stella spenta di Nasser traditore della causa, con quell’Habbash che per il sentiero del terrorismo internazionale getta la massa dei derelitti palestinesi nel forno del massacro (e, abbandonata la loro causa, si confonde nella brulicante congerie della dispersiva contestazione para-maoista) e infine con quel sedimento d’interessi personali nel sottobosco dei sottufficiali di una rivoluzione araba più che mai frammentaria e contraddittoria. Ma le vie della storia sono imprevedibili. Probabilmente le esigenze appunto della storia richiedevano la chiusura di un ciclo, perché se ne aprisse un altro. In ogni caso, il modo della morte di Nasser conferma che Mosca rimane la città del mondo più pericolosa per i protagonisti del nostro secolo.
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